Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.13849 del 22/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14844/2015 proposto da:

Z.C., elettivamente domiciliato in Roma, Via Oslavia n. 30, presso lo studio dell’avvocato Gizzi Fabrizio, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Zauli Menotto e al suddetto Z.C., giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente-

contro

Cooperativa Muratori Cementisti e Affini Società Cooperativa in liquidazione coatta amministrativa, in persona dei commissari liquidatori pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Nizza n. 11, presso lo studio dell’avvocato Rizzacasa Beatrice, che la rappresenta e difende unitamente gli avvocati Manente Diego e Santini Matteo, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di RAVENNA;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2019 dal cons. Dott. VELLA PAOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS LUISA, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del ricorso Z.;

udito, per il ricorrente Z., l’Avvocato Fabrizio Gizzi, con delega orale, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato Vincenzo Reytani, con delega, che si riporta agli scritti.

FATTI DI CAUSA

1. Con il decreto impugnato, il Tribunale di Ravenna ha accolto parzialmente l’opposizione proposta dall’avvocato Z.C. allo stato passivo della Cooperativa Muratori Cementisti e Affini Soc. Coop. a r.l. in Liquidazione coatta amministrativa (d’ora in avanti CMCA), ammettendo al passivo il credito per le prestazioni professionali rese in due cause patrocinate in primo grado e in appello in favore della predetta cooperativa e della SCOES Soc. Coop. a r.l.), quanto ad Euro 39.648,00 in via chirografaria e quanto ad Euro 13.252,00 in via privilegiata ex art. 2751-bis c.c., n. 2, in misura inferiore a quella vantata dal professionista secondo la vecchia tariffa professionale di cui al D.M. n. 127 del 2004 (Euro 106.973,29 interamente al privilegio) ma superiore a quella ammessa dai Commissari liquidatori, applicando i nuovi criteri parametrici previsti dal D.M. n. 140 del 2012 (Euro 2.710,94 al chirografo ed Euro 4.873,04 al privilegio).

2. In particolare, il Tribunale ha: i) escluso l’applicabilità dei nuovi parametri, trattandosi di attività difensiva conclusasi prima del 23 agosto 2012, data di entrata in vigore del nuovo decreto (Sez. U, nn. 17405 e 17406 del 2012); ii) ritenuto di fare riferimento al compenso come corrispettivo unitario dell’attività complessivamente prestata, con riferimento però a ciascun grado di giudizio, non costituendo il primo grado e l’appello mere fasi della medesima attività difensiva, che si conclude con il deposito delle memorie conclusionali; iii) ridotto del 30%, tanto per i due procedimenti di primo grado quanto per quelli d’appello, gli onorari indicati dal legale, in ragione dell’esito delle cause; iv) detratto gli acconti corrisposti dalle due cooperative, come da fatture appositamente emesse dallo stesso legale; v) escluso la riduzione del 50% del credito vantato nei confronti della CMCA quale coobbligata in solido con la SCOES, stante il mancato superamento della presunzione ex art. 1294 c.c. e il disposto della L. Fall., art. 61 (per cui il creditore di più coobbligati in solido concorre nel fallimento di quelli che sono falliti per l’intero credito in capitale e accessori, sino al totale pagamento); vi) riconosciuto il privilegio generale ex art. 2751-bis c.c., n. 2), interamente per gli onorari e limitatamente agli ultimi due anni per i diritti, secondo il criterio per cui, mentre per gli onorari si tiene conto del momento in cui la prestazione professionale, unitariamente considerata, è stata portata a termine (anche se alcune attività siano state svolte in epoca anteriore al biennio, purchè risultino tra loro collegate, in quanto espressione del medesimo incarico), per i diritti, che maturano con il compimento delle singole prestazioni, la liquidazione va fatta in base alla tariffa vigente a quel momento, poichè per essi deve tenersi conto soltanto di quelle poste in essere nel biennio in questione (Cass. n. 10658 del 2011); vii) escluso che il privilegio in questione si estenda a IVA, CPA e spese generali, in quanto non costituenti accessori del credito nè rientranti nella nozione di retribuzione contemplata dall’art. 2751 bis c.c.

3. Avverso detto decreto l’avvocato Z., previa rimessione in termini giusta ordinanza interlocutoria n. 12861 del 23/05/2018, ha proposto ricorso per cassazione affidato a 14 motivi, corredato da memoria, cui l’intimata CMCA ha resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Con il primo motivo – rubricato “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2233 c.c. nonchè del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, artt. 2 e 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3” – si censura la decurtazione del 30% dei compensi operata a pagina 1 e 2 del decreto impugnato (con riguardo alle cause iscritte al nrg. 1527/91 e 1818/05), ritenuta “assolutamente ingiusta ed iniqua perchè poggia su una motivazione tanto platealmente evanescente quanto assolutamente inesplicata”. Identico vizio viene denunziato con il quarto motivo, in riferimento alla motivazione sviluppata a pagina 2 dello stesso decreto (con riguardo alle cause iscritte al nrg. 774/05 e 1818/05).

4.1. Entrambi i motivi sono inammissibili, poichè veicolano doglianze generiche e prive di autosufficienza, specie con riguardo all’esito delle liti (posto che i criteri generali di liquidazione possono essere corretti in considerazione anche dei risultati del giudizio e dei vantaggi conseguiti, a norma del D.M. n. 127 del 2004, art. 5, comma 3: cfr. Cass. n. 3251/2018) e alla presenza di specifiche note spese della parte vittoriosa (cui pure fanno riferimento i precedenti appositamente invocati dal ricorrente); inoltre, essi non chiariscono se siano stati violati i minimi tariffari, nè indicano analiticamente le voci e gli importi contestati.

4.2. Valga, al riguardo, l’insegnamento di questa Corte per cui “in sede di ricorso per cassazione, la determinazione del giudice di merito relativa alla liquidazione delle spese processuali può essere censurata solo attraverso la specificazione delle voci in ordine alle quali lo stesso giudice sarebbe incorso in errore, sicchè è generico il mero riferimento a prestazioni, che sarebbero state riconosciute in violazione della tariffa massima, senza la puntuale esposizione delle voci in concreto liquidate dal giudice, con derivante inammissibilità dell’inerente motivo” (Cass. n. 10409/2016; conf. Cass. n. 20904/2005).

5. Con il secondo mezzo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, “con riferimento alla causa distinta al nrg. 1527/1991 ove l’esito fu assolutamente favorevole alla Soc. Coop. CMCA”.

5.1. La censura presenta profili di inammissibilità e di infondatezza, poichè, per un verso, implica e richiede una diversa valutazione delle risultanze processuali, per altro verso attiene ad una valutazione che non risulta omessa, bensì diversamente effettuata dal giudice a quo, anche in considerazione del fatto che l’esito della causa in questione non risulta essere stato totalmente vittorioso (nonostante la consistente riduzione della condanna).

5.2. In ogni caso, per questa così come per tutte le ulteriori censure motivazionali va rimarcato come esse siano state formulate in difformità dai nuovi parametri dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis – il quale contempla ora l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo per l’esito della controversia; a tali fini, infatti, il ricorrente aveva l’onere di indicare – nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U, n. 8503/2014; conf., ex plurimis, Cass. n. 27415/2018).

6. Il terzo motivo, afferente l’omesso esame di un fatto decisivo “con riferimento alla causa distinta al nrg. 3885/2003 conclusasi con sentenza n. 25/2005 nonchè alla causa distinta al nrg. 774/2005 conclusasi con sentenza n. 1443/2014”, è inammissibile per le sopra richiamate ragioni ed anche per la sua genericità e ipoteticità, poichè veicola una doglianza relativa al possibile diverso esito delle cause in questione laddove non fosse sopravvenuta l’insolvenza, secondo un criterio di giudizio a posteriori di tipo prognostico.

7. Di analoghi profili di inammissibilità risente il quinto motivo, con cui ci si duole genericamente dell’omesso esame dell’esito positivo del procedimento iscritto al nrg. 1818/05.

8. Infondato è invece il sesto motivo, con cui si denunzia la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2751 bis c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla componente degli onorari che mantengono il privilegio anche oltre il biennio rispetto alla prestazione resa” e si prospetta anche una “manifesta contraddizione” del decreto impugnato, che però appare frutto di un travisamento della relativa ratio decidendi.

8.1. Invero, il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati da questa Corte in tema di privilegio generale sui beni mobili attribuibile ai compensi per prestazioni professionali, in caso di plurimi incarichi, con particolare riguardo al limite temporale degli “ultimi due anni di prestazione” previsto dall’art. 2751 bis c.c., n. 2, nel senso che: i) esso “va riferito al complessivo rapporto professionale, sicchè restano fuori dal privilegio i corrispettivi degli incarichi conclusi in data anteriore al biennio precedente la cessazione del complessivo rapporto” (Cass. n. 18685/2017, n. 20755/2015, n. 1740/2014); ii) sebbene “le prestazioni del professionista vanno valutate unitariamente, con riferimento al momento in cui sono richiesti o devono essere determinati gli onorari, ancorchè si riferiscano ad attività svolte oltre il biennio” (Cass. n. 7964/2009, n. 806/2001), tuttavia va preso in considerazione non già il complessivo rapporto professionale, bensì distintamente “ogni singola prestazione professionale al compimento della quale può essere compiutamente quantificato il compenso, anche alla luce del risultato raggiunto, come avviene, ad esempio, al termine di ogni grado di giudizio”, dovendosi appunto avere riguardo all’attività professionale “prestata nello specifico segmento procedurale autonomamente valutabile e pertanto generatore di un diritto al corrispettivo che tenga conto dell’opera prestata per una individuabile fase processuale e del risultato raggiunto” (Cass. n. 2446/2012); iii) con particolare riguardo alle prestazioni dell’avvocato, “mentre per gli onorari si tiene conto del momento in cui la prestazione professionale, unitariamente considerata, è stata portata a termine, sebbene alcune attività siano state svolte in epoca anteriore al biennio, purchè risultino tra loro collegate, in quanto espressione del medesimo incarico, per i diritti, che maturano con il compimento delle singole prestazioni, la liquidazione va fatta in base alla tariffa vigente a quel momento, poichè per essi deve tenersi conto soltanto di quelle poste in essere nel periodo in questione” (Cass. n. 10658/2011).

9. Il settimo, l’ottavo, il nono e il decimo motivo deducono, in varie guise, la violazione o falsa applicazione dell’art. 1193 c.c., comma 2, artt. 2233,2751 e 2751-bis c.c., nonchè (il solo ottavo) il D.M. n. 127 del 2004, art. 5 tutti con riferimento all’imputazione degli acconti ricevuti.

9.1. Si tratta di censure tutte inammissibili, poichè in parte ripetitive e in parte incomprensibili per difetto di autosufficienza, talune riferite ad errori di calcolo (semmai correggibili con il procedimento di correzione di errore materiale) talaltre consistenti in mere ipotesi di calcolo, tutte comunque dirette ad una rivisitazione del merito della decisione che, anche per la loro inadeguata formulazione, non è consentita in questa sede. In ogni caso, a pag. 3 del decreto impugnato risulta che per almeno due fatture è stato lo stesso avv. Z. a detrarre gli acconti ricevuti.

10. L’undicesimo motivo denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2751 bis c.c. avuto riguardo alla censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 in ordine al privilegio sul 15% T.F.”, prospettando di fatto un’omessa pronuncia o un obiter dictum a motivazione implicita.

10.1. La censura è infondata, alla luce del principio per cui “ai compensi dovuti ad un avvocato per lo svolgimento della sua attività professionale in materia giudiziale civile è applicabile il privilegio generale sui mobili a norma dell’art. 2751-bis c.c., n. 2, con riferimento alle voci qualificabili quali “diritti” ed “onorari”, ma con esclusione delle spese anticipate dal professionista, dato che il relativo credito non è riconducibile alla nozione di “retribuzione dei professionisti” di cui alla disposizione citata e, quindi, è sfornito di qualsiasi privilegio” (Cass. n. 6849/2011; coni. Cass. nn. 92/1999, 1211/1977, 3319/1973). Anche con specifico riguardo alle cd. spese generali (quantificate forfetariamente, in percentuale su diritti e onorari) è stato ribadito che esse, non essendo assimilabili ai diritti e agli onorari, non sono come tali riconducibili alla nozione di “retribuzione dei professionisti” di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 2, poichè “non v’è nesso “diretto” tra la “causa” del privilegio e le spese” (Cass. n. 26893/2013).

11. Il dodicesimo mezzo, seppure rubricato “violazione e falsa applicazione dell’art. 2751 bis c.c. avuto riguardo alla censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 in ordine al privilegio per IVA e CPC”, si limita a rappresentare che “l’IVA ed il 4% CPA non sono ben indicati con riferimento al quantum”, e che “se si dovesse ritenere il credito non assistito da privilegio ma in chirografo va correttamente determinato il QUANTUM dell’una e dell’altra componente”.

11.1. Così come formulata, la censura risulta inammissibile, poichè pare sostanzialmente segnalare (peraltro attraverso un’articolata ricostruzione di plurime ipotesi) un ipotetico errore materiale, ovvero di calcolo se non di tipo revocatorio.

12. Di analoga inammissibilità soffre il tredicesimo motivo, che, sotto la rubrica “violazione e falsa applicazione degli art. 1193 c.c., comma 2 e art. 2751 c.c. in relazione all’art. 2233 avuto riguardo alla censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 nella imputazione degli acconti a diritti e competenze, in ordine al privilegio per IVA e CPC”, si limita a prospettare “anche l’ipotesi assolutamente subordinata che si vadano ad imputare gli acconti in parte agli onorari, in parte ai diritti ed in parte al TF”, senza veicolare, di fatto, nè vizi nè censure.

13. Il quattordicesimo motivo lamenta la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, con riguardo alla disposta compensazione delle spese di lite in ragione della “parziale reciproca soccombenza”.

13.1. La censura è destituita di fondamento, alla luce del consolidato principio per cui “in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi” (Cass. n. 24502/2017 e n. 8421/2017), così come il “provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti”; ciò, appunto, perchè il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese (Cass. n. 19613/2017; conf. Cass. n. 406/2008).

13.2. Con specifico riferimento al regime normativo posteriore alle modifiche introdotte all’art. 91 c.p.c. dalla L. n. 69 del 2009, è stato ribadito che “in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., compensare in tutto o in parte le spese sostenute dalla parte vittoriosa, ma questa non può essere condannata neppure parzialmente a rifondere le spese della controparte, nonostante l’esistenza di una soccombenza reciproca per la parte di domanda rigettata o per le altre domande respinte, poichè tale condanna è consentita dall’ordinamento solo per l’ipotesi eccezionale di accoglimento della domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa” (v. Cass. n. 26918/2018 e n. 1572/2018).

13.3. Va altresì ricordato che anche “la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente” (Cass. n. 30592/2017 e n. 2149/2014).

13.4. Infine, questa Corte ha precisato che “la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92 c.p.c., comma 2), si verifica – anche in relazione al principio di causalità – nelle ipotesi in cui vi è una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che siano state cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero venga accolta parzialmente l’unica domanda proposta, sia essa articolata in un unico capo o in più capi, dei quali siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell’accoglimento anche meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo” (Cass. n. 10113/2018, n. 20888/2018).

14. Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore del controricorrente in Euro 5.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15 per cento, esborsi liquidati in Euro 200,00 ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

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