Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.14421 del 27/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29610-2016 proposto da:

TRENITALIA S.P.A. C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. AVEZZANA 2/B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO CAMMAROTA, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO TRAPANESE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2410/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/06/2016 R.G.N. 2018/2014.

RILEVATO CHE:

1. il Tribunale di Roma, con sentenza n. 12619 del 2013, previa revoca del decreto ingiuntivo emesso su istanza di M.A., condannava Trenitalia Spa, in favore del predetto M., al pagamento di Euro 59.215,52 (importo invero pari a quello dell’ingiunzione) a titolo di indennità di trasferta dall’1.6.1999 all’8.12.2005;

2. la Corte di appello di Roma, con la decisione impugnata (sentenza n. 2410 del 2016), respingeva il gravame di Trenitalia S.p.A.;

2.1. a fondamento della decisione, per quanto solo di rilievo nella presente sede, poneva le seguenti argomentazioni: a) il diritto del lavoratore scaturiva dalla sentenza del Tribunale di Catanzaro n. 540 del 2006, confermata dalla Corte di appello di Catanzaro n. 1515 del 2008, passata in cosa giudicata il 6.10.2009; b) era infondata l’eccezione di prescrizione quinquennale, trovando applicazione, nella fattispecie, il principio per cui la “la sentenza di condanna generica passata in giudicato – attesa la sua natura di vera e propria statuizione autoritativa che impone all’obbligato di adempiere ad una prestazione, anche se la determinazione di tale adempimento è rimandata – determina, nei confronti di coloro che hanno promosso il giudizio concluso con la condanna generica, l’assoggettamento dell’azione diretta alla liquidazione al termine (decennale) di cui all’art. 2953 c.c. (Cass. n. 19636 del 2005)”; c) era da respingersi il rilievo secondo cui l’indennità di trasferta non sarebbe spettata oltre l’anno 2000, trattandosi di deduzione già proposta e rigettata nel giudizio dinanzi al Tribunale di Catanzaro; d) l’accertamento contenuto nella sentenza passata in cosa giudicata poteva porsi a base del diritto richiesto anche in relazione al periodo del rapporto di lavoro successivo al 2003 (epoca di deposito del ricorso introduttivo dinanzi al Tribunale di Catanzaro), in applicazione del principio rebus sic stantibus, trattandosi di rapporto di durata; e) i conteggi sviluppati dal lavoratore non erano stati specificamente contestati: la contestazione aveva riguardato l’an debeatur e non l’importo concretamente quantificato dal lavoratore medesimo;

3. ha proposto ricorso per cassazione Trenitalia, fondato su tre motivi, ed illustrato con memoria;

4. ha resistito, con controricorso, il lavoratore.

CONSIDERATO CHE:

1. con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2934,2935 e 2948 c.c.; la censura afferisce alla statuizione di applicazione della prescrizione decennale; parte ricorrente assume che le sentenze del Tribunale di Catanzaro e della Corte di appello di Catanzaro non avrebbero potuto essere in alcun modo intese quali statuizioni autoritative che impongano all’obbligato di adempiere ad una prestazione, in quanto pronunce meramente dichiarative “avendo solo sancito il diritto di percepire l’indennità di trasferta non già il diritto (…) a vedersi corrisposto un credito certo, liquido ed esigibile”;

1.1. il motivo si arresta ad un rilievo di inammissibilità per inosservanza degli oneri di allegazione e specificazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6;

1.2. la censura si fonda su atti (sentenze del Tribunale e della Corte di appello di Catanzaro) riportati in ricorso per mera sintesi ma non nei passaggi salienti (vi è la mera trascrizione di un passaggio del solo dispositivo del Tribunale) e, dunque, in forma tale da non consentire al Collegio di valutare la decisività della questione;

1.3. si tratta di oneri (id est: oneri di trascrizione e di indicazione della sede processuale di rinvenimento degli atti rilevanti ai fini della decisione) che questa Corte afferma tanto in relazione a documenti e/o prove orali quanto in relazione ad atti processuali, la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., n. 3, di carenze motivazionali, ex art. 360 c.p.c., n. 5, o di un “error in procedendo” ai sensi dei nn. 1, 2 e 4 della medesima norma;

1.4. per il resto, la censura richiama il valore di documenti (lettera di messa in mora e relativa valenza interruttiva) non indicati nella sentenza impugnata e la cui valutazione avrebbe potuto farsi valere nei limiti del vizio di motivazione, qui, in ogni caso, precluso ai sensi e per gli effetti dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, a tenore del quale, il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme, come nella fattispecie di causa; la disposizione è applicabile ratione temporis ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dall’11 settembre 2012 (D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2); nel presente giudizio l’atto di appello è stato depositato nel 2014;

2. il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e atr. 324 c.p.c. nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;

2.1. la censura investe la statuizione della Corte di appello di Roma secondo cui non poteva essere rimessa in discussione la questione del riconoscimento dell’indennità di trasferta per il periodo successivo all’1.6.2000, trattandosi di “deduzione già proposta e rigettata nel giudizio dinanzi al Tribunale di Catanzaro, con sentenza confermata dalla Corte di appello di Catanzaro” nonchè quella ulteriore, secondo cui “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato” poteva porsi a base del diritto vantato dal M. anche in relazione al periodo del rapporto di lavoro successivo al 2003 (deposito del ricorso introduttivo dinanzi al Tribunale di Catanzaro), in applicazione del principio rebus sic stantibus;

2.2. secondo la parte ricorrente, la Corte di Appello di Roma avrebbe errato nel ritenere che la questione relativa alla spettanza dell’indennità di trasferta, dopo il 2000, fosse stata affrontata dai giudici di Catanzaro e, quindi, coperta da giudicato; la Corte di appello di Roma avrebbe dovuto, invece, considerare il definitivo trasferimento della sede di lavoro del M., a partire dall’1.6.2000, circostanza che escludeva il diritto all’indennità di trasferta;

2.3. la deduzione di violazione del giudicato incontra i medesimi limiti di ammissibilità già evidenziati in relazione al primo motivo; la valutazione di sussistenza (id est: di non sussistenza) di un giudicato esterno, da parte del giudice di legittimità, è possibile solo se la sentenza da esaminare venga messa a disposizione mediante trascrizione nel corpo del ricorso, derivandone in mancanza l’inammissibilità del motivo (ex plurimis, Cass. n. 16227 del 2014);

2.4. le considerazioni che precedono travolgono il vizio di motivazione, per il quale comunque varrebbero le considerazioni di inammissibilità indicate in sede di scrutinio del precedente motivo;

3. con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – è dedotto omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;

3.1. la critica investe l’affermazione secondo cui non vi sarebbe stata contestazione dei conteggi sviluppati dal lavoratore; ciò in quanto, nel ricorso di opposizione al decreto ingiuntivo e poi in sede di appello, la società aveva contestato i calcoli sviluppati dal M., tanto da elaborarne di propri;

3.2. anche il terzo motivo è inammissibile;

3.3. in disparte quanto già evidenziato con riferimento alla preclusione del vizio di motivazione nella fattispecie di causa, le censure non considerano che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 21 aprile 2016), oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”;

3.4. costituisce un “fatto”, agli effetti della menzionata norma, non una “questione” o un “punto”, ma: i) un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017); ii) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (cfr. Cass. n. 21152 del 2014; Cass., sez. un., n. 5745 del 2015); iii) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133 del 2014); iv) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass., sez.un., n. 8053 del 2014);

3.5. sono estranee all’ambito di applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non costituendo “fatti”, il cui omesso esame possa determinare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: i) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., sez.un., n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015); ii) in genere, le “questioni di diritto” (Cass. n. 5745 del 2015). A queste ultime va ricondotta la critica di cui al motivo in scrutinio che si sostanzia in un’erronea applicazione del principio di non contestazione;

3.6. la censura difetta, comunque, degli oneri di specificazione; la mancata trascrizione del ricorso di opposizione al decreto ingiuntivo impedisce, in ogni caso, al Collegio di valutare la fondatezza dei rilievi;

4. conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile, con le spese liquidate in dispositivo secondo soccombenza;

7. occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 6 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2019

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