Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.15165 del 04/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21772-2015 proposto da:

RFI – RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BARBERINI 47, presso lo studio dell’avvocato ANGELO PANDOLFO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

F.S., A.R., A.F., in proprio e in qualità di eredi di A. FRANCO, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO 2, presso lo studio dell’avvocato EZIO BONANNI, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

FERROVIE DELLO STATO S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 6812/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/09/2014 R.G.N. 2809/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/03/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA CIRIELLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO CARMELO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CRISTIANA PILO per delega verbale Avvocato ANGELO PANDOLFO;

udito l’Avvocato EZIO BONANNI.

FATTI DI CAUSA

1.- Con sentenza del 17.7.2014, la Corte d’appello di Roma ha accolto la originaria domanda degli eredi di A.F., accertandone il decesso per malattia professionale (mesotelioma peritoneale) collegata all’esposizione all’amianto, così riformando la sentenza di primo grado, che aveva escluso la prova della esposizione pericolosa.

La corte, sul rilievo che erroneamente il primo giudice avesse escluso di considerare le mansioni svolte dal de cuius tra l’anno 1966 e il 1973 (in periodo compatibile con l’ordinario periodo di latenza del mesotelioma peritoneale), in qualità di aggiustatore meccanico delle officine della Ferrovia dello Stato, a diretto contatto con vetture coibentate con amianto, è pervenuta all’accertamento del nesso causale tra le mansioni nocive e la malattia e quindi all’accoglimento della domanda, dopo aver disposto consulenza tecnica d’ufficio ed anche sulla scorta dell’accertamento svolto dall’INAIL ai fini della erogata rendita a superstiti.

2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione RFI RETE FERROVIARIA ITALIANA SPA, notificato anche alla società Ferrovie dello Stato s.p.a..

Hanno resistito con controricorso gli eredi di A.

Le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

2.1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente ha dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 421 c.p.c. anche in relazione all’art. 2697 c.c., in cui sarebbe incorsa la corte, esercitando i propri poteri d’ufficio per dare ingresso alla c.t.u., nonostante le carenze di allegazione ravvisabili nel ricorso introduttivo in cui non erano indicate con sufficiente grado di specificazione, secondo la ricorrente, le mansioni in concreto svolte dal de cuius nel periodo dal ‘66 al ‘73, gli strumenti di lavoro adoperati, le sostanze, i componenti con cui veniva in contatto, gli ambienti ove l’attività veniva svolta.

La corte avrebbe, dunque, dato ingresso alla valutazione del CTU sulla base di mere presunzioni che l’ A. avesse svolto le operazioni a rischio citate nel documento Inail e procedendo ad accertamenti investigativi ed esplorativi cui la consulenza, a sua volta generica, non avrebbe posto rimedio.

2.2. Con il secondo motivo di ricorso la società ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 2087 c.c., in cui sarebbe incorsa la corte territoriale affermando la responsabilità della società sulla base di tale ultima norma, in assenza di una specifica allegazione dei presupposti di tale forma di responsabilità. Avrebbero omesso in particolare gli aventi causa del de cuius di indicare le mansioni in concreto da questi svolte e non sarebbe stata svolta alcuna istruttoria per il periodo compreso tra il 66 e 72.

Avrebbe errato la corte, pertanto, nel far riferimento al “materiale probatorio acquisito” in relazione a fiale periodo nel quale, peraltro, i consulenti d’ufficio avevano ritenuto che massima fosse la esposizione alla fibra di amianto.

Avrebbe errato, ancora, la corte territoriale, nel ritenere che l’azienda non avesse adottato misure di protezione nel periodo in questione, facendo riferimento a una circolare emanata successivamente (nel 1979), così addossando al datore di lavoro l’omessa adozione di misure di prevenzione in un momento in cui la pericolosità dell’amianto non era ancora percepita, trascurando di considerare tutte le cautele adottate dall’azienda indicate puntualmente da quest’ultima nelle proprie difese.

3. Entrambi i motivi non possono trovare accoglimento in quanto, nonostante la veste formale che denuncia violazioni di legge, oggetto di critica è la valutazione del materiale probatorio operata dal giudice di merito, finalizzata ad incrinare l’accertamento di fatto da questi svolto, proponendosi, dunque, una diversa ricostruzione storica dei fatti, non consentita in sede di legittimità.

3.1. La ricorrente, in definitiva, lamenta ipotetiche violazioni di legge poste in essere dal giudice a quo, prescindendo – peraltro – totalmente dal considerare che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di Cassazione), mentre la allegazione – come prospettata nella specie da parte del ricorrente – di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Come ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice, lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (in termini, Cass. 5 giugno 2007, n. 13066, nonchè Cass. 20 novembre 2006, n. 24607, specie in motivazione; Cass. 11 agosto 2004, n. 15499, tra le tantissime).

3.2. Quanto al motivo con il quale ci si duole della violazione dell’art. 421 c.p.c., deve in questa sede darsi continuità al principio già ripetutamente affermato da questa Corte (Cass. civ., Sez. lav. 4/05/2012 n. 6753; 26/05/2010, n. 12856; 05/02/2007, n. 2379; 10/01/2005, n. 278) secondo cui nel rito del lavoro, stante l’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorchè le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 c.p.c., ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può in via eccezionale ammettere, anche d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento.

Nel caso di specie tale valutazione appare correttamente svolta dalla corte territoriale (cfr. pag. 4 ultimo capoverso e pag. 5), sulla scorta della accurata considerazione non solo delle allegazioni (riportate a pag. 4), ma anche degli accertamenti in fatto svolti dall’INAIL.

3.3. La sentenza di merito, quindi (cfr. pag. 6), sulla scorta della consulenza tecnica ammessa in ragione delle compiute allegazioni delle parti, ha ritenuto dimostrata la nocività delle mansioni che, come si desumeva anche dagli elementi documentali esaminati dal CTU, relativi a lavorazioni simili ed a certificazioni ed accertamenti tratti dalla banca dati dell’INAIL, comportavano il contatto con l’asbesto, che ricopriva le superfici ove si svolgeva il lavoro del de cuius, senza incorrere nelle denunciate violazioni di legge.

3.4. La Corte di merito ha, infine, correttamente affermato la responsabilità secondo i criteri di cui all’art. 2087 c.c., (cfr. pag. 7), non avendo il datore di lavoro, in presenza di prova della nocività delle mansioni e del nesso causale tra le stesse e la malattia (peraltro estremamente rara nella popolazione generale) fornito prova liberatoria, e, altresì, dando correttamente conto dell’assunto, più volte affermato da questa corte, relativo alla già nota conoscenza della nocività dell’amianto sin dagli anni ‘60 (v. per tutte, Sez. L, Sentenza n. 644 del 14/01/2005, Rv. 579285 – 01, relativa alla omessa predisposizione da parte delle Ferrovie dello Stato di strumenti di protezione dal rischio amianto sin dagli anni ‘60).

4. Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.

5.1. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 6000,00, per compensi professionali, ed Euro 200,00 per spese, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza, allo stato, dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 12 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019

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