Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.15173 del 04/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7008-2014 proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA “FORO ITALICO”, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A. GRAMSCI n. 20, presso lo studio degli avvocati MARIA TERESA SPADAFORA e GIAN CARLO PERONE, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANGELO SECCHI n. 9, presso lo studio dell’avvocato ANNA BIANCHINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FULVIO DE CRESCIENZO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5911/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/09/2013 R.G.N. 8585/2009.

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Roma ha parzialmente accolto l’appello di C.D. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato il ricorso, proposto nei confronti dell’Università degli Studi di Roma Foro Italico, volto ad ottenere la condanna dell’amministrazione convenuta al pagamento dell’indennità di risultato relativa all’anno 2005 nonchè dell’indennità accessoria mensile e dell’indennità di responsabilità per il periodo 1 gennaio 2005/31 dicembre 2007;

2. la Corte territoriale ha premesso che l’appellante aveva fruito di congedo straordinario per lo svolgimento di dottorato di ricerca, ai sensi della L. n. 476 del 1984, art. 2 come modificato dalla L. n. 448 del 2001, art. 52, comma 57, che riconosce il diritto del dipendente, ammesso alla frequenza del dottorato e non titolare di borsa di studio, a conservare il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza in godimento;

3. ad avviso della Corte capitolina la norma di legge, per il suo tenore letterale e per la sua ratio, non consente di escludere dalla garanzia di conservazione tutte le voci che compongono il salario accessorio, ivi comprese quelle dovute per il solo fatto dello svolgimento della prestazione lavorativa, bensì solo quelle componenti caratterizzate da aleatorietà, ossia di incerta corresponsione in tutto o in parte;

4. il giudice d’appello, quindi, ha ritenuto che dovessero essere corrisposte all’appellante sia l’indennità accessoria mensile che l’indennità di risultato, perchè l’accordo integrativo del 3 ottobre 2005 ne aveva previsto l’erogazione in misura fissa, a prescindere dalla ricorrenza di ulteriori condizioni;

5. ha escluso, invece, il diritto a percepire l’indennità di responsabilità, in quanto legata all’individuazione ed alla graduazione delle posizioni organizzative, delle funzioni specialistiche e delle responsabilità;

6. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Università degli Studi di Roma Foro Italico sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, ai quali C.D. ha resistito con tempestivo controricorso.

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo l’Università ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla L. n. 476 del 1984, art. 2 come modificato dalla L. n. 448 del 2001, art. 52, comma 57 nonchè al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 5” e rileva che l’interpretazione dell’art. 52 deve tener conto del divieto imposto alle pubbliche amministrazioni di erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese;

1.1. la ricorrente ne trae la conseguenza che il trattamento economico, la cui conservazione è garantita dal richiamato art. 52, è solo quello fondamentale e non ricomprende le voci collegate alla valutazione dell’effettivo apporto dei lavoratori al miglioramento della produttività dell’amministrazione e della qualità dei servizi;

1.2. aggiunge che lo svolgimento del dottorato non è assimilabile al servizio effettivo e che il legislatore ogni qual volta ha ritenuto di dover includere nel trattamento economico conservato al dipendente anche quello accessorio lo ha detto espressamente;

2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata “violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione all’accordo integrativo del 3/10/2005 nonchè violazione e falsa applicazione di norme dei contratti collettivi nazionali di lavoro in relazione all’art. 41, comma 4, del CCNL comparto Università 2002/2005 del 27/1/2005, all’art. 10, comma 1, lett. e) del CCNL 28.3.2006, nonchè all’art. 68, comma 2, lett. d) e art. 69 del CCNL 1998/2001 del 9.8.2000 e all’art. 88, comma 2, lett. d) e art. 89 del CCNL comparto Università 2006/2009 del 16/10/2008”;

2.1. in relazione all’indennità accessoria mensile, quantificata in misura fissa dal contratto integrativo, la ricorrente evidenzia che la Corte territoriale, nello statuire sulla natura della indennità, non poteva prescindere dal rinvio alla contrattazione nazionale, con la quale si era previsto che l’emolumento avrebbe riassorbito altre indennità, ossia quelle disciplinate dagli artt. 68 e 69 del CCNL 2000, correlate agli effettivi incrementi di produttività e di miglioramento qualitativo e quantitativo dei servizi;

2.2. anche l’art. 89 del CCNL 16.10.2008 prevede che l’attribuzione dei compensi può avvenire solo dopo la necessaria verifica e certificazione a consuntivo dei risultati totali o parziali conseguiti;

2.3. ad avviso della ricorrente, pertanto, l’indennità in questione, che al pari degli istituti che l’avevano preceduta era stata pensata per compensare l’incremento di produttività, non poteva essere attribuita al C. il quale, in quanto assente, non aveva concorso al miglioramento complessivo dell’ufficio;

3. con la terza critica l’Università censura il capo della sentenza impugnata relativo all’indennità di risultato e denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio” nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nelle quali la Corte territoriale sarebbe incorsa nell’interpretare l’accordo integrativo del 3.10.2005;

3.1. l’Università sostiene che il giudice d’appello avrebbe dovuto esaminare e valutare quanto dedotto nella memoria difensiva, con la quale era stato sottolineato che l’indennità di risultato andava a sostituire quella individuale disciplinata dall’accordo integrativo del 9.11.2001 e, quindi, era ancorata agli stessi presupposti, ossia alla presenza in servizio, alla partecipazione ad iniziative formative, all’innovazione degli assetti produttivi;

3.2. l’interpretazione dell’accordo del 3.10.2005 andava condotta alla luce delle previsioni contenute nella precedente intesa del 2001, il cui mancato esame si risolve, oltre che nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’errata applicazione dei criteri di ermeneutica contrattuale;

4. non sussiste il profilo di inammissibilità del primo motivo, denunciato dal controricorrente, perchè solo le questioni giuridiche implicanti accertamenti di fatto non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione, se non prospettate nei precedenti gradi di giudizio, non già quelle che attengono all’esatta individuazione ed interpretazione delle norme di legge, che la Corte di Cassazione, nella sua funzione nomofilattica, può rilevare anche d’ufficio (Cass. n. 18775/2017; Cass. n. 11868/2016; Cass. n. 3437/2014);

5. il motivo, peraltro, è infondato in quanto la Corte territoriale ha correttamente interpretato la L. n. 476 del 1984, art. 2come modificato dalla L. n. 448 del 2001, art. 52, comma 57;

5.1. la norma, nella sua versione originaria, si limitava a prevedere che “Il pubblico dipendente ammesso ai corsi di dottorato di ricerca è collocato a domanda in congedo straordinario per motivi di studio senza assegni per il periodo di durata del corso ed usufruisce della borsa di studio ove ricorrano le condizioni richieste. Il periodo di congedo straordinario è utile ai fini della progressione di carriera, del trattamento di quiescenza e di previdenza”;

5.2. con la L. n. 448 del 2001, art. 52 il legislatore ha inserito, nel citato art. 2, comma 1 due ulteriori periodi stabilendo che “In caso di ammissione a corsi di dottorato di ricerca senza borsa di studio, o di rinuncia a questa, l’interessato in aspettativa conserva il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza in godimento da parte dell’amministrazione pubblica presso la quale è instaurato il rapporto di lavoro. Qualora, dopo il conseguimento del dottorato di ricerca, il rapporto di lavoro con l’amministrazione pubblica cessi per volontà del dipendente nei due anni successivi, è dovuta la ripetizione degli importi corrisposti ai sensi del secondo periodo”;

5.3. la ratio della disposizione è già stata evidenziata in precedenti pronunce di questa Corte (Cass. n. 432/2019; Cass. n. 3096/2018; Cass. n. 10695/2017; Cass. n. 2422/2013), con le quali si è sottolineato che la legge del 2001 ha previsto il diritto dei dipendenti pubblici alla conservazione del trattamento economico al fine di incentivare l’arricchimento del bagaglio culturale dei dipendenti stessi, a prescindere da soglie di reddito;

5.4. nello stesso tempo, però, il legislatore ha fissato un periodo minimo di due anni di permanenza nel posto di lavoro successivamente al conseguimento del titolo, per consentire all’amministrazione di fruire delle conoscenze acquisite dal dipendente grazie agli studi post-universitari, ed in tal modo “ha ritenuto di contemperare il diritto allo studio del pubblico dipendente con l’interesse della pubblica amministrazione, stabilendo, da una parte, l’incondizionata erogazione di un emolumento economico (la borsa di studio o la retribuzione) e dall’altra una condizione di stabilità del rapporto di pubblico impiego, che giustifica la deroga, per il periodo di svolgimento del dottorato, al principio generale di sinallagmaticità”;

5.5. la questione qui controversa, che attiene all’individuazione delle componenti della retribuzione che concorrono a formare il “il trattamento economico… in godimento”, va risolta, ad avviso del Collegio, tenendo conto, da un lato, del tenore letterale della disposizione, dall’altro delle finalità che la stessa persegue;

5.6. quanto al primo aspetto è significativo che il legislatore abbia omesso qualsiasi richiamo alla distinzione fra trattamento economico fondamentale e trattamento accessorio, operata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 e, in precedenza, dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 49 come sostituito dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 23 ed abbia, invece, utilizzato la dizione onnicomprensiva che compare nell’art. 2, comma 3, dello stesso decreto, nella parte in cui, ai fini del riassorbimento, attribuisce rilievo al complessivo “trattamento economico in godimento”;

5.7. il tal modo il legislatore ha voluto estendere la garanzia della conservazione a tutti gli emolumenti spettanti al dipendente in ragione della qualifica rivestita, escludendo solo quelli caratterizzati da aleatorietà, perchè subordinati alla ricorrenza di ulteriori condizioni, da verificare di volta in volta in relazione alle effettive modalità di svolgimento della prestazione;

5.8. al riguardo va, infatti, osservato che la L. n. 448 del 2001 è stata approvata in un momento storico in cui la contrattazione collettiva era già intervenuta a pieno titolo a disciplinare il trattamento economico dei dipendenti dei vari comparti ed aveva incluso nel trattamento accessorio anche emolumenti caratterizzati dalla predeterminatezza e dalla continuità dell’erogazione (si pensi all’indennità di amministrazione per il comparto ministeri, di ente per il personale degli enti locali, di ateneo per i dipendenti delle università), sicchè la dizione volutamente generica ed onnicomprensiva, utilizzata dal legislatore nel dettare una disposizione destinata a valere per la totalità dei dipendenti pubblici, esprime, al pari del già richiamato art. 2, la volontà di garantire la conservazione di tutte le voci retributive che, a prescindere dalla qualificazione alle stesse data dalle parti collettive, risultino connesse alla posizione “ordinaria” rivestita e siano svincolate dalla valutazione della prestazione lavorativa resa;

5.9. detta esegesi, fondata sul tenore letterale della norma, tiene conto anche della finalità della disposizione e del bilanciamento di interessi che la stessa esprime, perchè, una volta previsto il pagamento della retribuzione a prescindere dal nesso sinallagmatico con la prestazione lavorativa, solo l’aleatorietà dell’emolumento può giustificare la sua sottrazione alla garanzia concessa dal legislatore;

5.10. non è pertinente il richiamo al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7 perchè la disposizione, nella parte in cui fa divieto alle amministrazioni pubbliche di erogare trattamenti accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese, si riferisce all’ipotesi del normale funzionamento del sinallagma negoziale, mentre nella fattispecie viene in rilievo la norma speciale, con la quale il legislatore ha voluto, sostanzialmente, sospendere l’obbligazione gravante a carico del dipendente e riconoscere, ciò nonostante, il diritto dello stesso a ricevere il corrispettivo, pur in assenza di prestazione;

6. parimenti infondato è il secondo motivo, perchè correttamente la Corte territoriale ha ritenuto il carattere fisso e continuativo dell’indennità accessoria mensile, prevista dall’art. 41, comma 4, del CCNL 27.1.2005 per il personale del comparto università;

6.1. con la disposizione contrattuale in parola le parti collettive hanno previsto che “Nell’ambito della contrattazione integrativa ed a valere sulle risorse del Fondo per le progressioni economiche e per la produttività collettiva ed individuale di cui all’art. 67 del CCNL 9/8/2000, al netto di quelle previste dal comma 1, lett. f, gli Atenei istituiranno un’indennità accessoria mensile, erogabile per dodici mensilità. Tale emolumento riassorbe e sostituisce le eventuali indennità già corrisposte con carattere di generalità.”; 6.2. successivamente, con il CCNL 28.3.2006, art. 10, lett. e), è stato aggiunto all’ultimo periodo l’inciso ” e non è decurtabile se non in caso di sciopero”, con il quale è stato ribadito il carattere fisso e continuativo della voce retributiva, carattere già desumibile dal chiaro tenore letterale della disposizione originaria, che ne aveva previsto l’attribuzione senza subordinarla a nessun’altra condizione e rinviando alla contrattazione integrativa solo la quantificazione dell’importo, da corrispondersi mensilmente;

6.3. anche il CCNL 6.10.2008 ribadisce detta natura dell’indennità perchè, nel disciplinare all’art. 88 le modalità di utilizzazione del fondo per le progressioni economiche e per la produttività, precisa che il fondo stesso deve essere utilizzato per “… c) corrispondere compensi per la remunerazione di compiti che comportano oneri, rischi, o disagi particolarmente rilevanti nonchè la reperibilità collegata alla particolare natura dei servizi che richiedono interventi di urgenza; d) erogare compensi diretti ad incentivare la produttività ed il miglioramento dei servizi; e) incentivare le specifiche attività e prestazioni correlate alla utilizzazione che specifiche disposizioni di legge finalizzano alla incentivazione di prestazioni o di risultati del personale; f) indennità mensile”;

6.4. l’indennità mensile, quindi, viene mantenuta distinta dalle altre voci del trattamento accessorio e non risulta collegata nè a particolari modalità della prestazione (lett. c) nè all’incentivazione della produttività, dei risultati ed al miglioramento dei servizi (lett. d ed e);

6.5. la tesi sostenuta dalla ricorrente, secondo cui l’erogazione dell’indennità sarebbe subordinata alle medesime condizioni richieste in precedenza dall’art. 69 del CCNL 2000, è chiaramente smentita dal tenore letterale della clausola contrattuale che a dette condizioni non fa rinvio e, al contrario, nel prevedere che l’emolumento “riassorbe e sostituisce le eventuali indennità già corrisposte con carattere di generalità”, sancisce il totale e definitivo superamento della disciplina previgente;

7. il terzo motivo è inammissibile nella parte in cui ravvisa il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 nell’omesso esame dell’accordo del 9.11.2001, con il quale erano stati dettati i criteri per l’erogazione dell’indennità individuale, tutti implicanti la presenza in servizio del dipendente;

7.1. le Sezioni Unite di questa Corte hanno evidenziato che “l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. S.U. n. 8053/2014);

7.2. la censura esula all’evidenza dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, sia perchè il contenuto delle intese che avevano preceduto la contrattazione integrativa del 3.10.2005 non integra un “fatto storico”, sia in quanto è comunque carente la decisività del rilievo, posto che la precedente contrattazione integrativa, invocata dalla ricorrente, si riferiva ad una diversa indennità, si era svolta nella vigenza del CCNL 9.8.2000, e non poteva orientare in merito alla natura dell’indennità di risultato che, in relazione alle previsioni del CCNL 27.1.2005, in sede decentrata, era stata riconosciuta per intero a tutto il personale, limitatamente agli anni 2004 e 2005, “nelle more del perfezionamento dei relativi criteri”, da definire entro il 31 dicembre 2005 e da valere a partire dall’anno 2006;

7.3. per il resto il motivo, pur denunciando nella rubrica la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., si risolve in un’inammissibile critica della valutazione di merito espressa dalla Corte territoriale che, esaminato il testo contrattuale, ha ritenuto di dover escludere ogni carattere di aleatorietà dell’importo liquidato per l’anno 2005, in quanto riconosciuto a tutti i dipendenti, a prescindere dalla qualità della prestazione dagli stessi resa e dal raggiungimento di obiettivi o risultati;

7.4. il Collegio ribadisce e fa proprio l’orientamento già espresso da questa Corte secondo cui “l’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra” (Cass. n. 11254/2018);

7.5. è stato precisato al riguardo che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto e, quindi, in sede di legittimità il ricorrente che denunci la violazione dei canoni legali di ermeneutica deve, non solo fare esplicito riferimento alle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (cfr. fra le più recenti Cass. n. 27136/2017);

7.6. i richiamati principi trovano applicazione anche qualora si discuta dell’interpretazione di clausole della contrattazione integrativa perchè ” la regola posta dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63 che consente di denunciare direttamente in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi, deve intendersi limitata ai contratti ed accordi nazionali di cui all’art. 40 del predetto D.Lgs., con esclusione dei contratti integrativi contemplati nello stesso articolo, in relazione ai quali il controllo di legittimità è finalizzato esclusivamente alla verifica del rispetto dei canoni legali di interpretazione e dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione sufficiente e non contraddittoria” (Cass. 9.6.2017 n. 14449);

7.7. nel caso di specie la ricorrente non ha precisato da quale canone ermeneutico la Corte territoriale si sarebbe discostata nel valorizzare il tenore letterale dell’accordo e si è limitata a riproporre la diversa esegesi non condivisa dal giudice d’appello, sollecitando un giudizio di merito, non consentito in sede di legittimità;

8. in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, perchè la sentenza impugnata è conforme al principio di diritto che il Collegio ritiene di dovere enunciare nei termini che seguono;

8.1 “il dipendente pubblico ammesso a frequentare corsi di dottorato di ricerca, che non fruisca di borsa di studio o rinunci alla stessa, conserva, ai sensi della L. n. 476 del 1984, art. 2 come modificato dalla L. n. 448 del 2001, art. 52,comma 57, il diritto a percepire il trattamento economico in godimento presso l’amministrazione di appartenenza, comprensivo di tutte le voci retributive spettanti in ragione della qualifica rivestita, con esclusione dei soli compensi caratterizzati da aleatorietà, perchè subordinati alla ricorrenza di ulteriori condizioni, da verificare in relazione alle effettive modalità di svolgimento della prestazione”;

9. alla soccombenza consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

9.1. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 16 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019

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