Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.15177 del 04/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13175-2015 proposto da:

M.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.B.

MORGAGNI 2/A, presso lo studio dell’avvocato UMBERTO SEGARELLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI ZINGARELLI;

– ricorrente –

contro

D.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASSIA 240, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO BELLONI, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONIO BELLONI, ARIANNA BELLONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2125/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 31/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/02/2019 dal Consigliere SERGIO GORJAN;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale CAPASSO LUCIO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Antonio BELLONI, difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

D.F., in proprio e quale titolare dell’omonima impresa edile, ebbe ad evocare in giudizio avanti il Tribunale di Rieti M.M. – sua cugina – per sentirla condannare al pagamento del saldo prezzo in relazione ad appalto per la realizzazione, su terreno comune, di un fabbricato, al risarcimento del danno per l’inadempimento da parte della cugina nel pagamento del prezzo pattuito e per sentir dichiarare la divisione del bene comune tra le parti.

Resistette la M., contestando la fondatezza dell’avverse pretese, specialmente la chiesta divisione del bene comune, e svolgendo domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto di appalto per inadempimento dell’appaltatore con le conseguenti restituzioni e ristoro danni.

Anche l’attore modificava la sua originaria domanda di adempimento del contratto in risoluzione per inadempimento della M..

Il Tribunale reatino, ad esito della trattazione istruttoria, dichiarava risolto il contratto d’appalto per inadempimento della M., accertando l’entità dei pagamenti dalla stessa nelle more eseguiti, e rigettava ogni altra domanda mossa dalle parti, ritenendo inammissibile la domanda di divisone del bene comune.

Propose gravame il D., cui resistette la M. che pure essa propose appello incidentale.

La Corte romana adita, con prima sentenza non definitiva n. 2106/10 resa il 1.1.2.2009, ebbe ad esaminare le questioni proposte dalle parti con i reciproci appelli circa il contrasto sul contratto d’appalto ed accolse parzialmente il gravame mosso dal D., mentre rigettò l’appello incidentale proposto dalla M..

Osservava il Collegio romano come il consulente tecnico poteva acquisire documentazione strettamente necessaria a fornire risposta adeguata ai quesiti proposti dal Giudice;

come le argomentazioni tecniche e le conclusioni illustrate dal consulente tecnico fossero condivisibili con accertamento del debito, di sensibile ammontare, a titolo di residuo prezzo da parte della M.;

come, in ragione della sensibile somma a titolo di saldo prezzo dovuta al cugino appaltatore, sussistesse la dedotta inadempienza in capo alla M. con conseguente condanna della debitrice al pagamento della somma di Euro 32.536,78;

come non poteva comunque trovar accoglimento la richiesta di restituzione dell’assegno, che il D. consegnò in garanzia al padre della M., stante che il prenditore non era stato evocato in questa causa;

come era risultato provato che le variazioni relativamente al progetto concordato tra le parti erano state pure concordate, sicchè rettamente era al riguardo stata ammessa prova orale;

come effettivamente erano prive di pregio le reciproche domande di risarcimento dei danni poichè la M. era stata inadempiente, mentre il D. non aveva sofferto alcun effettivo pregiudizio per il tempo scorso sino all’ultimazione delle opere, stante la necessità della concessione in sanatoria per gli abusi edilizi dallo stesso posti in essere;

come era ammissibile la domanda di divisione configurando la pattuizione di indivisibilità di durata decennale, secondo legge, una condizione dell’azione e, non già, presupposto processuale da sussistere all’avvio della lite divisoria;

come la M. non aveva versato in causa i documenti, cui ancorava l’invocata cosa giudicata riguardo l’eccepita inammissibilità della domanda di divisione del bene comune.

Con la seconda sentenza non definitiva n. 2125/14 emessa il 3.3.2014, i1 Collegio romano provvedeva a disporre la divisione del bene comune tra le parti secondo apposito progetto divisionale elaborato dal consulente tecnico, rimettendo ad ulteriore trattazione le operazioni di divisione.

La M. ha proposto ricorso per cassazione avverso ambedue le sentenze non definitive rese dalla Corte romana, articolando otto motivi di censura.

Resiste con controricorso il D. ed ambedue le parti hanno depositato memorie difensive.

All’odierna udienza pubblica, sentite le conclusioni del P.G. – rigetto ricorso – e dei difensori delle parti, la Corte adottava decisione siccome illustrato in presente sentenza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso proposto da M.M.R. ha parziale pregio giuridico ed in tal misura va accolto.

In limine deve la Corte rilevare l’infondatezza dell’eccezione circa la tardività del proposto ricorso – in relazione alla sentenza n. 2106/10 – sollevata dal D., in quanto detta sentenza da ritenersi di carattere parziale poichè definiva completamente dei temi di lite e, non già, da ritenersi sentenza non definitiva, con possibilità di riserva dell’impugnazione.

In conseguenza a detta riqualificazione del provvedimento impugnato, risultava scorso il termine di decadenza dall’impugnazione al momento della notifica del ricorso per cassazione.

L’eccezione svolta appare priva di fondamento giuridico e va disattesa.

Difatti, come costantemente insegna questo Supremo Collegio – Cass. SU n. 711/1999, Cass. sez. 2 n. 4618/07, Cass. sez. 3 n. 28467/13 -, lo scrimine utile all’individuazione della sentenza non definitiva rispetto a quella parziale ha carattere meramente formale e, non già, sostanziale attraverso una valutazione della natura e struttura delle questioni decise, siccome pare opinare parte resistente.

Nella specie, la Corte romana non solo ebbe a definire espressamente siccome sentenza non definitiva il provvedimento adottato sub n. 2106/10, ma pure non ebbe nè a separare i giudizi, nè a statuire sulle spese, elementi formali tipici, secondo al richiamato insegnamento di legittimità, della sentenza non definitiva. Va poi rilevata l’inammissibilità del deposito documentale effettuato dalla M. con la nota difensiva, poichè trattasi di documento non previsto dalla norma ex art. 372 c.p.c..

Con il primo mezzo d’impugnazione proposto la ricorrente denunzia violazione delle disposizioni normative ex art. 1111,1112 e 1965 c.c. nonchè art. 324 c.p.c. in relazione alla statuizione del Collegio romano circa la ritenuta ammissibilità della domanda di divisione del bene comune.

Osserva la M. come, con l’accordo di natura transattiva del 1992, i1 D., non già, ebbe ad assumere impegno di non chiedere la divisione, bensì a rinunziare all’azione tesa alla divisione, sicchè detta azione giudiziale non può più esser proposta.

Inoltre osservava come il patto di rimanere in comunione, per la durata consentita dalla legge, si prospetti, non già, quale condizione dell’azione, bensì presupposto processuale.

Non sussiste la dedotta violazione di legge sotto entrambi i profili lumeggiati in ricorso.

Difatti, come anche ricorda la stessa impugnante, ex art. 1111 c.c., comma 1, è facoltà del comunista poter sempre chiedere la divisione del bene comune, sicchè la rinunzia all’azione intrapresa per pervenire alla divisione del bene comune non comporta il venir meno definitivo della facoltà di chiedere la divisione, poichè così previsto dalla legge.

Quanto poi alla natura di presupposto processuale del patto di non chiedere la divisione, disciplinato dalla norma art. 1111 c.c., comma 2 va rilevato come detto patto non già condiziona la validità dell’instaurato procedimento – natura propria della situazione qualificata siccome presupposto processuale -, bensì solo la possibilità dell’attore di ottenere sentenza favorevole – natura propria della condizione dell’azione -.

Difatti, entro il termine decennale dalla pattuizione, il Giudice dovrà rigettare la domanda di divisione proposta, mentre se la pronunzia interviene scorso detto termine, nulla osta alla decisione favorevole.

L’argomento critico portato dalla M. per individuare nel patto di rimanere in comunione un presupposto processuale si fonda sull’osservazione che la disposizione in comma 2 opera riferimento alla norma portata nel comma 1, che disciplina il diritto del comunista di domandare, anche, giudizialmente la divisione.

In effetto però il disposto art. 1111 c.c., ex comma 2 si limita a disciplinare l’eccezione alla libertà della parte di chiedere la divisione, rappresentata dalla durata del patto di rimanere in comunione, senza cenno alcuno alla facoltà di agire in giudizio di cui al comma 1.

Con la seconda ragione di doglianza la M. rileva violazione della norma ex art. 112 c.p.c. con conseguente nullità della sentenza adottata dalla Corte romana poichè non fu valutata la sua eccezione, fondata sul giudicato ostativo portato nella sentenza resa dal Tribunale di Rieti nel 1988, in relazione alla precedente domanda di divisione svolta dal D..

Il dedotto vizio non sussiste atteso anche la stessa argomentazione critica, esposta dalla M. in ordine al primo motivo d’impugnazione, con la quale si duole della valutazione data dal Collegio romano proprio alla sua tesi difensiva fondata sul giudicato rappresentato dalla sentenza del Tribunale di Rieti del 1988 e dalla successiva transazione.

Inoltre la Corte territoriale ha puntualmente rilevato come non vi sia adeguata prova del dedotto giudicato ed al riguardo la M., se indica l’esistenza in atti del dispositivo della sentenza di prime cure, nulla deduce con relazione all’esito del giudizio d’appello, nelle cui more intervenne la transazione, pure elemento probatorio ritenuto rilevante ai fini di ritenere sussistente il dedotto giudicato.

Dunque non sussiste la denunziata omessa pronunzia sull’eccezione avanzata, poichè invece detta questione risulta appositamente esaminata dalla Corte distrettuale.

Con la terza ragione di doglianza la ricorrente lamenta violazione delle norme ex artt. 1111 e 1112 c.c. in quanto il Collegio romano non ebbe ad adeguatamente considerare l’incidenza, anche sotto il profilo del valore economico del bene comune, della natura unitaria del titolo amministrativo abilitativo alla realizzazione della costruzione sul lotto comune di terreno edificabile.

L’argomentazione critica, veicolata sotto il profilo della violazione di legge, in effetti consiste nella riproposizione della tesi difensiva, già motivatamente disattesa dalla Corte territoriale, senza un effettivo confronto con le argomentazioni esposte dai Giudici romani in sentenza n. 2125/2014.

In detto provvedimento, pure oggetto d’impugnazione, risulta appositamente esaminata l’incidenza della concessione ad edificare unitaria sulla divisibilità in concreto le bene, e la Corte distrettuale ebbe a motivatamente escludere un tanto.

Quanto poi alla questione dell’incidenza della disposta divisione sul valore economico del bene assegnato a ciascun comunista rispetto al valore del bene unitario, la stessa s’appalesa siccome nuova in questa sede poichè la M. non specifica, nella sua argomentazione critica, quando e come la stessa fu prospettata al Giudice d’appello, limitandosi a lamentare genericamente una omessa considerazione della questione.

Con il quarto mezzo d’impugnazione la ricorrente deduce violazione delle regole di diritto desumibili dagli artt. 183,184 e 194 c.p.c. in tema di documentazione esaminabile e valutabile da parte del consulente tecnico, posto che la Corte ebbe a ritenere legittima l’acquisizione di documentazione – non versata dalle parti – da parte del consulente nell’ambito del suo incarico.

La censura risulta priva di pregio, in primo luogo, perchè trattandosi di nullità sanabile, ex art. 157 c.p.c. – Cass. sez. 3 n. 15747/18 -, era specifico onere – non adempiuto – dell’impugnante precisare di aver sollevata tempestiva eccezione al riguardo nel corso della trattazione istruttoria non appena verificatasi la dedotta irregolarità.

In secondo luogo è consentito, secondo l’insegnamento di questo Supremo Collegio richiamato appositamente dalla Corte romana – conf. Cass. sez. 1 n. 15774/18 -, al consulente l’acquisizione di informazioni necessarie alla compiuta risposta ai quesiti posti, come ha motivatamente ritenuto la Corte romana essere avvenuto nella specie.

A fronte di detta motivazione l’impugnante si limita a svolgere argomentazione meramente alternativa, operando cenno ad alcuni dei documenti acquisiti dal consulente presso Pubblici Uffici, che appunto lumeggiano la necessità della loro acquisizione al fine di compiuta risposta ai quesiti posti dal Giudice.

Con la quinta doglianza la M. deduce omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, che viene individuato nella carenza delle conclusioni ed argomentazioni illustrate dal consulente tecnico, fatte proprie ai fini della decisione, dalla Corte d’Appello.

All’evidenza non ricorre il vizio denunziato, che afferisce al’omesso esame di un fatto e, non già, all’omessa valutazione di un mezzo istruttorio, siccome insegna costantemente questa Suprema Corte – Cass. SU n. 8053/14 -, di qui l’inammissibilità della censura.

Le censure svolte dalla M. sub numeri sei, sette ed otto attengono alla questione correlata al contratto d’appalto intercorso tra le parti ed effettivamente la doglianza mossa con l’ottavo mezzo d’impugnazione appare fondata e va esaminata prioritariamente sulle censure mosse con i motivi sei e sette, che rimangono assorbite in dipendenza di tale accoglimento.

Con I”ottava doglianza la M. lamenta violazione delle norme sostanziali circa la disciplina dell’appalto in relazione alla ritenuta ammissibilità, prima, ed utilizzabilità, poi, della prova testimoniale circa l’esistenza di accordo tra le parti contrattuali relativamente alle variazioni al progetto eseguite dall’appaltatore.

La ricorrente osserva come la Corte capitolina abbia utilizzato e la prova orale espletata e la prova per presunzioni per concludere come non risultava assodato che le variazioni al progetto eseguite fossero da ricondurre alla sola volontà dell’appaltatore con conseguente non applicabilità del disposto ex art. 1659 c.c. in punto prova scritta – Cass. sez. 2 n. 19099/11 -.

Così statuendo il Collegio romano, effettivamente, non s’è attenuto al disposto ex art. 1659 c.c. siccome denunziato dalla M., posto che deve essere certo che le variazioni al progetto furono disposte da committente ovvero di comune accordo tra le parti per aversi applicazione della norma ex art. 1661 c.c. comportante anche la libertà di prova.

Viceversa il Giudice d’appello, sulla scorta dell’apprezzamento degli esiti della prova orale – presenza frequente in cantiere della M. e richiesta di una variante poi non realizzata – e di argomenti logici dall’esito di detta prova desunti – conoscenza delle varianti eseguite dal cugino appaltatore e previsione contrattuale di esecuzione di varianti – ha concluso che risultava “tutt’altro che pacifica” la circostanza dedotta dalla M. che le varianti furono eseguite d’iniziativa dall’appaltatore D. con la conseguente ricaduta sull’onere probatorio.

Difatti era onere probatorio dell’appaltatore dimostrate che le variazioni erano state disposte dal committente ovvero concordate, poichè al riguardo trova applicazione la norma ex art. 1659 c.c. – prova scritta – dell’accordo raggiunto sul punto dalle parti contrattuali ovvero disposizione specifica impartita dal committente, nella specie mancante.

Non assume rilievo l’osservazione del D. che egli cumulava la posizione di committente ed appaltatore sicchè poteva disporre le varanti realizzate, posto che l’impegno assunto contrattualmente con la cugina M. lo poneva, nei riguardi della stessa, nella sola posizione di appaltatore, con i conseguenti obblighi.

Quindi la sentenza n. 2106/10 – che ebbe a statuire sul punto – va cassata in relazione alla questione circa la prova scritta – necessaria stante il contrasto sul punto tra le parti – che l’eseguite varianti del progetto furono disposte dalla committente M. ovvero concordate.

Le doglianze svolte sub motivi sei e sette dalla M. afferiscono a nullità della sentenza per aver la Corte capitolina omesso di valutare alcune argomentazioni difensive, relative all’inadempimento imputatole, ovvero a violazione delle regole di diritto in tema di adempimento delle obbligazioni ed omesso esame su un punto decisivo sempre in tema di ritenuto suo inadempimento.

L’accoglimento dell’ottavo motivo di ricorso comporta la cassazione, in parte qua – contratto d’appalto -, della sola sentenza non definitiva n. 2106/2010 resa dalla Corte d’Appello di Roma ed il rinvio per nuovo esame alla medesima Corte altra sezione, che provvederà pure a disciplinare le spese di lite di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie l’ottavo motivo di ricorso, rigetta i primi cinque motivi e dichiara assorbiti il sesto ed il settimo motivo, cassa la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2106/10 resa il 1.12.2009 e rinvia alla Corte d’Appello di Roma altra sezione in relazione a quanto accolto anche per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019

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