Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.15234 del 04/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22250-2017 proposto da:

ADER – AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, in persona del Presidente pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che le rappresenta e difende; ope legis

– ricorrenti –

contro

O.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 91, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO LUCISANO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARIO GARAVOGLIA, MARIA SONIA VULCANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 273/2/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di TORINO, depositata il 21/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/03/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CONTI ROBERTO GIOVANNI.

FATTI E RAGIONI DELLA DECISIONE La Gistar s.r.l. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, contro l’Agenzia delle entrate, impugnando la sentenza resa dalla CTR Campania, indicata in epigrafe che, in accoglimento dell’appello proposto dall’ufficio, ha riformato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento emesso a suo carico per la ripresa a tassazione di IVA e IRES per l’anno 2008. Secondo la CTR, risultando che la verifica posta a base dell’accertamento si era svolta presso gli Uffici dell’amministrazione e non all’interno dei locali del contribuente, non poteva trovare applicazione la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7.

L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.

Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sotto il profilo, così rubricato, dell’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Nell’esposizione del motivo la ricorrente prospetta la novità delle domande proposte in appello, la nullità della sentenza per essere stata emessa nei confronti di un soggetto estraneo al giudizio di secondo grado che sarebbe stato evocato in primo grado, ancora lamentando l’implausibilità del percorso logico seguito dalla CTR e la contraddittorietà della sentenza.

Orbene, l’integrale formulazione della censura, che si compone di parti riprodotte di atti processuali senza indicazione delle norme di legge violate e sempre all’interno di un motivo rubricato sotto il profilo della violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non può dirsi rituale.

Ed invero, in materia di ricorso per cassazione, l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse – cfr. Cass., n. 26790/2018, Cass., S.U., n. 9100/2015 -. In conclusione, la censura è inammissibile, non consentendo alla Corte l’individuazione delle singole questioni prospettate, per di più indirizzando la Corte verso una verifica documentale che non le è consentita in relazione alla tipologia di vizio dedotta nel motivo stesso.

Con il secondo motivo si deduce la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7. La CTR avrebbe errato nell’escludere il mancato rispetto del termine dilatorio di cui alla ricordata disposizione, la stessa avendo valore imperativo, nè avendo l’Ufficio dedotto l’esistenza di ragioni d’urgenza idonee a superare l’applicazione del termine dilatorio.

Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 53,57 e 58. La CTR avrebbe posto a base della decisione una questione nuova, non dedotta dall’Agenzia delle entrate e sulla base di un’impugnazione inammissibile per assenza di motivi specifici. Con il quarto motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 comma 2, dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. La CTR sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione, avendo il giudice rilevato una questione non sollevata dall’Agenzia, facendo riferimento a fatti non emersi nel processo verbale redatto dalla Guardia di finanza.

I motivi di ricorso appena menzionati meritano un esame congiunto riguardando, nella sostanza, l’operato della CTR. Il giudice di appello, investito dell’appello con il quale l’ufficio aveva prospettato la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, da parte del giudice di primo grado che aveva accolto la censura esposta dalla parte contribuente, ha accolto l’impugnazione rilevando che la verifica posta a base dell’accertamento era stata compiuta all’interno degli Uffici dell’amministrazione, non trovando pertanto applicazione la previsione di cui al ricordato art. 12 – tanto emerge dallo stesso ricorso per cassazione della parte ricorrente (cfr. pag.5 penultimo periodo) -.

Orbene, va premesso che la censura concernente l’inammissibilità dell’appello per mancanza di motivi specifici è inammissibile, non avendo la ricorrente riprodotto il contenuto del motivo di appello.

Occorre infatti dare continuità all’indirizzo di questa Corte, a cui tenore l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità – cfr. Cass. n. 22880/2017 -.

Orbene, la parte ricorrente non si è uniformata ai superiori principi.

Ciò detto, non ricorre il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata che, investita dall’Agenzia in ordine alla decisione di primo grado che aveva accolto il ricorso del contribuente ritenendo violato la L. n. 212 del 2000, art. 12,comma 7, abbia escluso la ricorrenza della violazione sulla base di un indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, poi confortato dalle Sezioni Unite della Cassazione – Cass., S.U., n. 24823/2015 – secondo il quale non è ipotizzabile l’applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, per le verifiche c.d. a tavolino.

Ed infatti, la circostanza che l’Agenzia non abbia indicato tale specifico profilo, ponendo in discussione la correttezza della sentenza impugnata, non è in grado di inficiare la decisione del giudice di merito che abbia riscontrato l’assenza dei presupposti applicativi della L. n. 212 del 2000, art. 12, sotto il profilo dell’ultrapetizione e/o dell’esame di una domanda non proposta dall’appellante.

Il tema di indagine devoluto al giudice di appello dall’Agenzia rientrava sicuramente nel perimetro delle questioni esaminate dal giudice di primo grado e non richiedeva, per la sua trattazione, alcuna specifica allegazione da parte dell’appellante, attenendo alla verifica della ricorrenza dei presupposti applicativi del ricordato art. 12 alla quale il giudice di appello era tenuto proprio in relazione alla censura esposta dall’Agenzia.

Detto questo, la censura di merito che la ricorrente prospetta laddove la CTR avrebbe escluso l’applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nella parte in cui tutela il principio del contraddittorio è infondata, proprio in relazione alla piena coerenza della statuizione rispetto ai principi espressi, con riguardo ai tributi non armonizzati, dalle Sezioni Unite della Corte – cfr. la già ricordata Cass., S.U., n. 24823/2015 -.

Quanto alla censura, di analoga portata, relativa ai tributi armonizzati – che in astratto potrebbe venire in rilievo nel presente giudizio, visto che l’accertamento atteneva altresì all’IVA – v’è da dire che anche tale censura è infondata.

E’ senz’altro vero che in tema di accertamento, il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non opera nell’ipotesi di accertamenti cd. a tavolino, salvo che riguardino tributi “armonizzati” come l’IVA, ma non è men vero che in tale ultima ipotesi il contribuente che faccia valere il mancato rispetto di detto termine è in ogni caso onerato di indicare, in concreto, le questioni che avrebbe potuto dedurre in sede di contraddittorio preventivo – cfr. Cass. n. 27420/2018 -. Onere di allegazione di un pregiudizio concreto che, nel caso di specie, la ricorrente non ha documentato.

Sulla base di tali considerazioni, il ricorso va respinto.

Le spese seguono la soccombenza, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, commi 1 bis e 1 quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizi oche liquida in favore dell’Agenzia delle entrate in Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, commi 1 bis e 1 quater.

Così deciso in Roma, il 27 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019

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