LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. SCALDAFFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29903-2017 proposto da:
TORELLI DOTTORI SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCEI della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato UBALDO SASSAROLI;
– ricorrente –
contro
CARONTE SPA, incorporante della Società Mirto Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 288, presso lo studio dell’avvocato LUIGI STRANO, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 619/2017 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 28/08/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata dell’08/01/2019 dal Consigliere Relatore Dott. DI MARZIO MAURO.
RILEVATO
CHE:
1.- Torcili Dottori S.p.A. propone ricorso per cassazione per due mezzi illustrate da memoria, nei confronti di Caronte S.p.A., incorporante Mirto S.r.l., contro la sentenza del 28 agosto 2017 con cui la Corte d’appello di Perugia ha dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione per nullità di un lodo arbitrale che aveva parzialmente respinto la sua domanda proposta in sede arbitrale in dipendenza della esecuzione di alcuni contratti di appalto.
2. – Caronte S.p.A. resiste con controricorso.
CONSIDERATO
CHE:
3. – Il primo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 112 e 113 c.p.c. per erronea qualificazione giuridica del secondo motivo di appello sotto il profilo dell’art. 829 c.p.c, comma 1, n. 11", censurando la sentenza impugnata per aver erroneamente ritenuto, in ciò indotta dalla stessa qualificazione impropria prospettata da essa Torcili Dottori S.p.A., che il secondo motivo di impugnazione per nullità, concernente l’incompletezza dell’attività svolta dal consulente tecnico d’ufficio nominato in sede arbitrale, chiamato a svolgere un’indagine percipiente che aveva invece omesso, fosse diretto a far valere la violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia.
Il secondo motivo denuncia: ” Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 112 e 113 c.p.c. per erronea qualificazione giuridica del secondo motivo di appello sotto il profilo dell’art. 829 c.p.c, comma 1, n. 12", censurando la sentenza impugnata, in collegamento con il precedente motivo, sull’assunto che l’incompletezza della consulenza tecnica d’ufficio, in ragione dell’omessa indagine percipiente, avrebbe determinato omessa pronuncia sulla domanda.
RITENUTO CHE:
4. – Il Collegio ha autorizzato la redazione del provvedimento in forma semplificata.
5.1. – 11 ricorso è inammissibile.
5.1.1. – L’inammissibilità discende per un verso, con riguardo ad entrambi i motivi, dall’applicazione del principio in forza del quale l’interpretazione della domanda e delle eccezioni rientra nel compito del giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere sindacato in Cassazione sotto il profilo del vizio di motivazione e non anche per il suo contenuto (v. p. es. già Cass. 13 luglio 1965, n. 1479), naturalmente entro i limiti in cui il sindacato della motivazione è tuttora consentito, e cioè nell’ipotesi in cui essa non soddisfi il requisito del “minimo costituzionale” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053): soglia, quella del “minimo costituzionale”, nel caso di specie senz’altro rispettata, giacchè la qualificazione della domanda è stata compiuta sulla base del richiamo alla espressa prospettazione di parte impugnante.
E, se è pur vero che il principio testè ricordato, secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) trattandosi in tal caso della denuncia di un eri-or in procedendo che attribuisce alla Corte di cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti (Cass. 10 ottobre 2014, n. 21421; Cass. 25 ottobre 2017, n. 25259), è altrettanto vero che, nel caso in esame, il ricorso, al di là del generico riferimento in rubrica all’art. 112 c.p.c. (peraltro erroneamente svolto in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 e non al n. 4 per di più unitamente all’ulteriore riferimento all’art. 113 c.p.c., non richiamato a proposito) non contiene affatto una censura di inosservanza del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
E’ difatti cosa nota che tale principio comporta il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda di merito. In giurisprudenza è stato in tal senso più volte affermato che il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (Cass. 19 giugno 2004, n. 11455; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19475; Cass. 11 gennaio 2011, n. 455; Cass. 24 settembre 2015, n. 18868).
Va da sè che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica, in particolare, quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (Cass. 4 ottobre 2011, n. 20311; Cass. 20 settembre 2013, n. 21612; Cass. 11 settembre 2015, n. 17956).
E’ dunque palese che le censure proposte, entrambe volte a lamentare che la Corte d’appello abbia disatteso il secondo motivo di impugnazione per nullità, diretto a far valere l’incompletezza dell’indagine svolta dal consulente tecnico d’ufficio nominato in sede arbitrale, il quale non avrebbe dato corso all’indagine percipiente affidatagli dagli arbitri, non hanno nulla a che vedere con il paradigma dell’art. 112 c.p.c., ma mirano a rimettere in discussione l’affermazione del giudice di merito secondo cui detto motivo poneva in discussione la valutazione di merito compiuta dagli arbitri, valutazione invece insindacabile in sede di impugnazione per nullità.
5.1.2. – Per altro verso l’inammissibilità dei due motivi di ricorso per cassazione discende dal rilievo che la sentenza impugnata non ha soltanto affermato che il motivo di nullità volto a far valere l’incompletezza dell’indagine peritale, di natura percipiente, fosse diretto a rimettere in discussione la valutazione di merito compiuta dagli arbitri, ma ha altresì aggiunto che detta indagine peritale non aveva affatto natura percipiente: “l’assunto è anche in fatto fondato su una circostanza non vera, quale la natura “percipiente” della CTU, apparendo invece dal tenore dei quesiti che al consulente fosse stato affidato un incarico di tipo contabile, da espletare sulla base dei documenti agli atti (e con espunzione anche di documentazione prodotta in corso di causa)” (così a pagina 11-12 della sentenza impugnata).
Orbene, tale rado decidendi, di per sè idonea a sostenere, in parte qua, la decisione impugnata, non è validamente censurata, giacchè la ricorrente, attraverso la trascrizione di alcuni brani dei quesiti rivolti dagli arbitri al consulente tecnico d’ufficio, ha da un lato inammissibilmente sollecitato una nuova valutazione della natura della dell’indagine peritale commessa dagli arbitri, già insindacabilmente compiuta dal giudice di merito, e, dall’altro lato, lo ha fatto attraverso una citazione dei quesiti mancante della localizzazione del documento (v. Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; Cass. 20 novembre 2017, n. 27475), con conseguente inammissibilità della censura anche sotto il profilo del numero 6 dell’art. 366 c.p.c..
6. – Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 9.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi ed il resto per compenso, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso) a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2019