LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25917/2017 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLO TOSI;
– ricorrente –
contro
C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 19, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO PANZARANI, rappresentata e difesa dall’avvocato MAURIZIO CIAN;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 568/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 31/08/2017 R.G.N. 1125/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/03/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato FRANCESCA BONFRATE per delega verbale Avvocato PAOLO TOSI;
udito l’Avvocato MAURIZIO CIAN.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte di appello di Venezia, pronunziando quale giudice del rinvio, ha confermato la illegittimità del licenziamento disciplinare intimato a C.S. da Poste Italiane s.p.a. sulla base di contestazione che addebitava alla lavoratrice, ai sensi dell’art. 54, comma 6, lett. a) c.c.n.l. applicabile, l’instaurazione, nell’ufficio preposto alla contabilizzazione degli importi ricevuti dai portalettere nell’attività di notifica degli atti giudiziari, di una prassi secondo la quale le somme consegnate dai predetti non erano registrate e trasmesse con conto corrente all’ufficio competente, ma messe in una busta, con la creazione di un fondo cassa anomalo che sarebbe dovuto servire per ripianare eventuali errori contabili; al momento della scoperta del fondo da parte società datrice nella busta era stata rinvenuta la somma di 800 Euro, con ammanco che all’esito di successive verifiche contabili era risultato pari a Euro 8.468,00; la contestazione addebitava, inoltre, alla dipendente aver fatto uscire per il recapito ai destinatari i contrassegni e le tassate senza rispettare l’ordine delle date di arrivo.
1.1. Il giudice del rinvio, per quel che ancora rileva, ha ritenuto la condotta della C. – che aveva ammesso di avere istituito la prassi contestata e di non avere mai verificato che le somme contenute nel fondo fossero utilizzate per il fine per cui lo stesso era stato istituito fidandosi ciecamente dei colleghi ed anche del personale esterno che gravitava nell’ufficio – espressione di negligenza rilevante, tenuto conto del ruolo di responsabilità dalla stessa rivestito rispetto alle colleghe di pari livello, dell’anzianità di servizio e di altre circostanze. Premesso, quindi, che la società non aveva mai contestato alla dipendente l’appropriazione o sottrazione di somme, ha ritenuto, all’esito della verifica demandata dalla sentenza rescindente in punto di riconducibilità della condotta della C. alla ipotesi sanzionate dalla norma collettiva richiamata dalla parte datrice in sede di licenziamento – ipotesi ulteriori rispetto a quelle prese in considerazione dalla sentenza cassata – che l’accertamento della reale entità e gravità del primo comportamento addebitato, tenuto conto delle concrete circostanze ed, in particolare, dell’assenza di dolo della dipendente, dolo che anche sotto il profilo della intenzionalità del danno cagionato alla datrice di lavoro costituiva elemento comune di tutte le fattispecie di rilievo disciplinare punite dal contratto collettivo con sanzione espulsiva, non giustificava il recesso datoriale; la prima condotta oggetto di addebito poteva, infatti, essere al più ascritta a fattispecie punite con sanzione conservativa; analogamente quanto alla ulteriore condotta addebitata, rappresentata dalla uscita delle tassate in giornate prefissate diverse da quelle di effettivo arrivo all’ufficio, inadempienza che anche sotto il profilo della proporzionalità non appariva tale da giustificare il licenziamento. Il giudice di rinvio ha, inoltre, escluso il ricorrere dei presupposti per la conversione, a mente del contratto collettivo, del recesso per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Poste Italiane s.p.a. sulla base di otto motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.
3. Entrambe le parti hanno depositato memoria, sia in riferimento alla precedente adunanza camerale, fissata per il giorno 22.11.2018, all’esito della quale la causa è stata rinviata a nuovo ruolo, sia in riferimento alla odierna udienza pubblica.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso Poste Italiane s.p.a. deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, censurando la sentenza impugnata per violazione del dictum della sentenza rescindente. Assume che la considerazione e valorizzazione della circostanza della mancata appropriazione o conoscenza da parte della C. della sottrazione da parte di terzi delle somme mancanti, era estranea alla verifica demandata dal giudice di legittimità; si duole, inoltre, che non fosse stato conferito rilievo, in contrasto con le indicazioni del giudice di legittimità, alla posizione rivestita dalla C. quale responsabile del servizio.
2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 54, comma 6, lett. a) c.c.n.l. Poste Italiane s.p.a., censurando la interpretazione della norma collettiva alla stregua della quale la Corte di merito aveva escluso la integrazione della fattispecie giustificativa del licenziamento. In particolare contesta che per l’integrazione della fattispecie di illecito uso… e connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi descritta dalla norma in oggetto fosse necessaria la prova del dolo specifico e cioè della consapevolezza nella C. della sottrazione da parte di terzi delle somme mancanti o, anche, la prova che la connivenza fosse stata realizzata al solo fine di recare danno alla società o di trarne vantaggio personale. Assume, infatti, che sotto il profilo dell’elemento soggettivo era sufficiente il dolo diretto, quale rappresentazione e volizione del fatto costituente l’addebito disciplinare, elementi questi pacificamente ricorrenti nel caso in esame.
3. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2119 c.c., censurando la sentenza impugnata in quanto, pur riconoscendo la sussistenza degli inadempimenti contestati e la relativa gravità, aveva omesso di valutare la condotta della lavoratrice sotto il profilo della incidenza della stessa sulla lesione del vincolo fiduciario con riferimento alla possibilità di prosecuzione del rapporto.
4. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 53, comma 4, c.c.n.l. Poste Italiane s.p.a. del 14.4.2011 in combinato disposto con l’art. 2119 c.c.. Censura la sentenza impugnata per avere omesso, in violazione dei parametri di proporzionalità fissati dalla richiamata norma collettiva, di considerare la condotta ascritta alla dipendente sotto il profilo dei “gradi di negligenza o imperizia” e della “prevedibilità dell’evento”, trascurando gli ulteriori, riscontrati, episodi di anomalia operativa inclusi nella contestazione, relativi alla vicenda dei contrassegni che indicavano una data di arrivo all’ufficio non corrispondente a quella effettiva.
5. Con il quinto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dalla considerazione della entità del danno sofferto da Poste, danno quanto meno pari a Euro 8.600,00 ma da presumere ancora maggiore tenuto conto che lo stesso era stato calcolato sui soli mod. 28/1 rinvenuti all’interno dell’ufficio postale.
6. Con il sesto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 54, comma 5, lett. c) e lett. d), c.c.n.l. Poste, in combinato disposto con la L. n. 604 del 1966, art. 3, censurando la sentenza impugnata per non avere ritenuto la condotta ascritta riconducibile all’ipotesi sanzionata dalla norma collettiva con il licenziamento con preavviso.
7. Con il settimo motivo, deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 comma 5, censurando la sentenza impugnata per avere applicato la tutela reale e non la sola tutela indennitaria, pur avendo accertato la sussistenza del fatto materiale contestato e la relativa gravità.
8. Con l’ottavo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, censurando la sentenza impugnata per avere considerato, al fine della verifica dell’eventuale aliunde perceptum, il solo lasso temporale coincidente con i dodici mesi “coperti dalla indennità” risarcitoria, vale a dire il periodo compreso tra il 20/9/2012 e il 20/9/2013.
9. Il primo motivo di ricorso è infondato.
9.1. Si premette che la cassazione delle sentenze – non definitiva e definitiva – del Tribunale di Venezia è stata motivata dall’accoglimento del terzo motivo di ricorso per cassazione proposto da Poste Italiane s.p.a. con il quale era denunziata violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e art. 54, comma 6, lett. A) CCNL Poste 14 aprile 2011 (art, 360. n. 3 c.p.c.). La sentenza rescindente (Cass. n. 17093 del 2016) si è così espressa in merito: La Corte territoriale, infatti, ha errato nell’interpretazione dell’art. 54, comma 6, lett. a) del CCNL, nonchè del principio dell’immutabilità della contestazione disciplinare. Il rilevo in forza del quale “non vi sono prove della sottrazione o dell’appropriazione delle somme da parte della lavoratrice, ma solo di un ammanco di cassa riferibile ad una procedura anomala e contraria alle direttive aziendali” (si veda la sentenza non definitiva oggetto d’impugnazione), non è concludente in relazione al complessivo tenore della richiamata disposizione contrattuale, la quale fa riferimento non solo alle condotte di sottrazione e appropriazione, ma anche a quelle di “illecito usò e “connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi”. Ne consegue che i fatti contestati ben possono ricondursi alle summenzionate ipotesi, pure rientranti nella previsione collettiva oggetto di contestazione, mentre l’evidenziata divergenza tra contestazione disciplinare e condotta sanzionata è solo apparente. Ciò che rileva, infatti, ai fini del riscontro della corrispondenza tra contestazione e censura, anche in funzione del corretto esercizio del diritto di difesa, è l’identità dei fatti (nel caso in esame sostanzialmente ammessi e comunque risultanti dalla relazione ispettiva, come indicato in sentenza) e non la sussunzione dei medesimi nell’una o nell’altra delle ipotesi contemplate dalla contrattazione collettiva (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 6499 del 22/03/2011, Rv. 616419). Al contempo, in punto di valutazione in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, va rilevato che non vale a sminuire la condotta addebitata alla Caste/buono la circostanza che della irregolare procedura comportante l’ammanco di cassa fossero al corrente altre due dipendenti, destinatarie esclusivamente di sanzioni conservative, risultando pacifico in atti che la predetta “è stata individuata dalla relazione ispettiva come colei che gestiva in via pressochè esclusiva la contabilità relativa a questo servizio” (pg. 13 della sentenza) e tale circostanza deve essere presa in considerazione ai fini della valutazione della lesione dell’elemento fiduciario.
9.2. Da tanto si evince che al giudice del rinvio è stato chiesto di rivalutare la condotta accertata con riferimento alla ulteriori ipotesi contemplate dalla previsione collettiva richiamata costituite da illecito usò e connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi e con riferimento allo specifico ruolo di responsabilità della C. rispetto alle altre due dipendenti coinvolte, sanzionate con misura conservativa. Tale dictum risulta sostanzialmente rispettato posto che la sentenza impugnata ha espressamente dimostrato di ricondurre la condotta contestata all’ambito delle ipotesi ulteriori di illecito uso e connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi e, rispetto a tali ipotesi, sulla base di un concreto accertamento delle circostanze di fatto – non validamente incrinato dalla odierna ricorrente – ha ritenuto, in sintesi, non integrata la giusta causa di licenziamento e quindi sproporzionato il licenziamento (v. sentenza, pag. 12 e sg.). Dalle argomentazioni sviluppate dal giudice del rinvio si evince, in particolare, che il mancato impossessamento di somme, la mancata conoscenza da parte della C. che altri le avessero sottratte, la mancata prova del fine di recare danno alla società o trarne vantaggio personale (sentenza, pag. 13, terzultimo capoverso) non sono stati considerati dal giudice del rinvio quali elementi integranti la fattispecie di rilievo disciplinare ma quali elementi sulla cui base, con ragionamento presuntivo, la Corte di merito ha ritenuto di escludere la sussistenza del dolo della lavoratrice nella realizzazione delle condotte, dolo inteso, non – come assume la odierna ricorrente – come dolo specifico, ma come rappresentazione e volizione del fatto oggetto di sanzione disciplinare.
9.3. Quanto al ruolo di responsabilità rivestito dalla C. nell’ambito dell’ufficio al quale era addetta, si rileva che, contrariamente a quanto assume parte ricorrente, il giudice del rinvio ha espressamente mostrato di prendere in considerazione tale posizione laddove ha configurato quale espressione di negligenza rilevante la condotta tenuta dalla lavoratrice (sentenza, pag. 11, ultimo capoverso) di talchè, anche sotto questo specifico profilo, è da escludere che la Corte di merito sia incorsa in violazione della sentenza rescindente.
10. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
10.1. Quanto sopra osservato in tema di circostanze utilizzate dal giudice del merito quale base del ragionamento presuntivo (v. parag. 9.2) esclude, innanzitutto, che al giudice del rinvio sia ascrivibile l’errore di avere ritenuto necessario il dolo specifico per la integrazione delle condotte ascritte. In relazione poi al complesso delle censure sviluppate con il motivo in esame in tema di corretta identificazione dell’elemento soggettivo destinato a sorreggere la condotta di rilievo disciplinare, la sentenza impugnata è da condividere considerato che la fattispecie descritta dalla norma relativa alla connivente tolleranza concettualmente implica una conoscenza della sottrazione delle somme in questione da parte di terzi o comunque di condotte illecite altrui di talchè, una volta escluso – con accertamento di fatto non validamente censurato – il ricorrere di tale conoscenza, correttamente la Corte di merito ha ritenuto il fatto addebitato non riconducibile alla previsione collettiva.
11. Il terzo motivo di ricorso è infondato sia in quanto in base alla sentenza rescindente la verifica demandata al giudice del rinvio risultava limitata al solo aspetto della corrispondenza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, della condotta addebitata alla previsione collettiva, sia in quanto dalla complessiva argomentazione della Corte di merito emerge che vi è stata valutazione implicita della inconfigurabilità della lesione del vincolo fiduciario laddove le condotte contestate sono state ritenute meno gravi di quelle sanzionate con misura espulsiva dalla norma collettiva (v. in particolare l’affermazione relativa alla non proporzionalità della sanzione espulsiva riferita al secondo addebito e alla configurazione del primo addebito come espressione di negligenza rilevante e non di atteggiamento doloso).
11.1. Le ulteriori deduzioni della parte ricorrente, incentrate sulla configurabilità in concreto di una ” giusta causa” di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c., risultano inammissibili posto che non individuano, come prescritto (Cass. n. 6498 del 2012, Cass. n. 5095 del 2011), alcuno specifico contrasto con i criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, nei parametri astratti ai quali ha fatto riferimento il giudice di merito; le critiche articolate, infatti, tendono, piuttosto, a contestare la valutazione operata sotto il profilo della mancata o inadeguata considerazione di alcune circostanze di fatto e, investono, quindi il giudizio di proporzionalità, censurabile in sede di legittimità solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. n. 8293 del 2012,Cass. n. 21965 del 2007,) e, quindi, trovando applicazione, ratione temporis, il testo attualmente vigente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo mediante la denunzia dell’omesso esame di un fatto decisivo e controverso, oggetto di discussione tra le parti, neppure formalmente prospettata.
12. Il quarto motivo di ricorso risulta inammissibile per le medesime ragioni evidenziate nel paragrafo precedente in quanto, pur formalmente denunziando violazione di norme di contratto collettivo, investe la concreta valutazione di non proporzionalità della sanzione espulsiva riferita alla seconda condotta oggetto di addebito, valutazione riservata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici, come nel caso di specie (cfr, tra le altre, Cass. n. 144 del 2008, Cass. n. 21965 del 2007, Cass. n. 12634 del 2003, Cass. n. 313 del 2003, Cass. n. 6790 del 2002).
13. Il quinto motivo di ricorso è infondato, sia perchè secondo quanto evincibile dalla sentenza impugnata il giudice del rinvio ha mostrato di avere ben presente il danno conseguente alla condotta addebitata (sentenza, pag. 10, primo capoverso) sia perchè il relativo accertamento era estraneo alla verifica demandata dalla sentenza rescindente, sia, infine, perchè elemento privo di decisività, nel senso chiarito da Cass. Sez. Un. 8053 del 2014, al fine della integrazione della fattispecie ascritta, potendo al più venire in rilievo, in concorso con altre circostanze, sulla valutazione, riservata al giudice del merito, di proporzionalità della sanzione irrogata.
14. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile in quanto privo di pertinenza con le ragioni alla base della decisione impugnata incentrata, in conformità dell’accertamento demandato dalla sentenza rescindente, sulla riconducibilità delle condotte ascritte alla ipotesi sanzionata con il licenziamento senza preavviso dall’art. 54, comma 6, lett. a) c.c.n.l. concernente l’illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme, o beni di spettanza o di pertinenza della Società o ad essa affidati, o infine per connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi. Tantomeno parte ricorrente dimostra, mediante la completa ed adeguata esposizione dei fatti di causa, come prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che nel giudizio di merito era stata posta la questione della riconducibilità delle condotte ascritte alle ipotesi di cui all’art. 54, comma 5, lett. c) e lett. d), c.c.n.l., che punisce con il licenziamento con preavviso, rispettivamente la irregolarità, trascuratezza o negligenza, ovvero per inosservanza di leggi o di regolamenti o degli obblighi di servizio dalle quali sia derivato pregiudizio alla sicurezza ed alla regolarità del servizio con gravi danni alla Società o a terzi, o anche con gravi danni alle persone (lett. c) e aver occultato fatti e circostanze relativi ad illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di spettanza o di pertinenza della Società o ad essa affidati (lett. d)).
15. Il settimo motivo di ricorso è infondato. La sentenza impugnata ha ritenuto le condotte addebitate “al più” ascrivibili a fattispecie sanzionate con misure conservative dal contratto collettivo ed a tal fine ha richiamato il comma 3 dell’art. 54 c.c.n.l. che punisce con la sospensione dal servizio fino a quattro giorni la inosservanza di doveri ed obblighi di servizio da cui sia derivato un pregiudizio alla regolarità del servizio stesso ovvero agli interessi della Società o un vantaggio per sè o per i terzi, se non altrimenti sanzionabile e con la sospensione fino a dieci giorni in genere qualsiasi negligenza o inosservanza di leggi o regolamenti o degli obblighi di servizio deliberatamente commesse, anche per procurare indebiti vantaggi a sè o a terzi, ancorchè l’effetto voluto non si sia verificato e sempre che la mancanza non abbia carattere di particolare gravità, altrimenti sanzionabile. Da tanto deriva, premesso che parte ricorrente nulla deduce in ordine all’eventuale difetto di tipizzazione della condotta addebitata in relazione alle ipotesi sanzionate dal contratto collettivo con misura conservativa, che la sentenza impugnata, laddove ha riconosciuto la applicabilità della tutela reale e non di quella indennitaria, è coerente con la condivisibile giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, in tema di licenziamento disciplinare, qualora il fatto accertato rientri fra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, è corretta l’individuazione del regime sanzionatorio nella L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 (Cass. n. 25949 del 2018, Cass. n. 18823 del 2018, Cass. n. 13178 del 2017).
16. L’ottavo motivo di ricorso è inammissibile 16.1. La sentenza impugnata ha escluso in concreto la detraibilità dalla indennità risarcitoria, attribuita in misura pari a dodici mensilità di retribuzione, dell’eventuale aliunde perceptum o percipiendum rilevando l’assenza di redditi diversi dalla retribuzione dovuta alla lavoratrice per la prestazione resa alla società. Ha ritenuto che unico periodo utile ai fini del risarcimento e della eccezione in questione era quello compreso tra il 20.9.2012 ed il 20.9.2013. Parte ricorrente, nel censurare la statuizione sul punto, non chiarisce le ragioni per le quali la sentenza impugnata avrebbe dovuto prendere in considerazione un periodo diverso da quello indicato come “utile” dalla Corte di merito; tantomeno dimostra, con specifico riferimento agli atti di causa, che il periodo considerato non corrispondeva a quello di effettiva estromissione della lavoratrice, essendo rimasto indimostrato il preteso errore di diritto, in tesi ascritto alla sentenza impugnata, rappresentato – secondo quanto si evince dalla sintetica illustrazione del motivo -, dall’avere la Corte di merito fatto coincidere i dodici mesi al quale aveva parametrata la indennità risarcitoria con quelli in relazione ai quali andava verificato l’aliunde perceptum.
17. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente alle spese di lite.
18. Sussistono i presupposti per l’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 21 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2019
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