LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24039-2018 proposto da:
K.T. elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA dello CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato DANIELA VIGLIOTTI;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI, 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso il decreto n. R.G. 47057/2017 del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 17/07/9018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/04/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CAMPESE EDUARDO.
FATTI DI CAUSA
1. Con decreto del 17 luglio 2018, il Tribunale di Milano ha respinto l’opposizione proposta dal cittadino pakistano K.T., nei confronti del Ministero dell’Interno, avverso il provvedimento di diniego della sua domanda di protezione internazionale.
1.1. Ha ritenuto il Tribunale che: a) il ricorrente (sprovvisto di passaporto e, dunque, non compiutamente generalizzato), di religione musulmana sciita, il quale aveva posto a fondamento della domanda di protezione sussidiaria il pericolo di essere discriminato o ucciso da parte dei suoi familiari, sunniti, avesse narrato una vicenda non credibile per una pluralità di incongruenze e contraddizioni; b) avuto riguardo alla situazione sociale e politica del Paese di provenienza, le deduzioni del difensore del ricorrente fossero assolutamente generiche e totalmente prive di agganci alla vicenda personale del suo assistito, e comunque non tali da impedire un rientro ivi di quest’ultimo, atteso che, da quanto desumibile dal sito viaggisicuri del Ministero degli Esteri, aggiornato al 21 giugno 2018, oltre che dalle azioni di ferma reazione poste concretamente in essere dallo Stato Pakistano contro i tentativi destabilizzatori di matrice terroristica, doveva escludersi, nella zona di provenienza del ricorrente, l’esistenza di un conflitto armato interno) nel senso) indicato dalla Corte di Giustizia, Sez. IV, nella sentenza Diakitè del 30 gennaio 2014; c) a fondamento della domanda di protezione umanitaria non potesse invocarsi la generale situazione di incertezza di quel Paese, necessitando, invece, un potenziale rischio specifico ed individuale di violazione di diritti umani fondamentali correlato alla predetta situazione. Il ricorrente, peraltro, nemmeno aveva raggiunto un sufficiente grado di integrazione sociale ed indipendenza economica, lavorando con contratto a termine di tre mesi presso una ditta cinese di borse a Pisa.
2. Per la cassazione del decreto K.T. ha proposto ricorso per quattro motivi, resistito, con controricorso, dal Ministero dell’Interno.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:
I) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, per non avere il Tribunale di Milano applicato, nel caso di specie, i principi in materia di attenuazione dell’onere della prova gravante in capo al richiedente la protezione internazionale;
II) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 51 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere il Tribunale di Milano riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita dell’odierno deducente in ragione della generale situazione sociale e politica del suo Paese di provenienza;
III) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, per non avere il Tribunale assolto l’onere di cooperazione istruttoria gravante in capo all’autorità giudiziaria adita, censurando la decisione impugnata per essersi il giudice limitato ad una valutazione sommaria e superficiale della situazione attuale del Pakistan e in particolare della zona di provenienza del ricorrente, giacchè, come risultante da diversi siti Internet e dalle informazioni comunemente utilizzate nella materia, tale Paese sarebbe caratterizzato da una situazione riconducibile alla previsione normativa tale da giustificare la protezione sussidiaria;
IV) violazione e falsa applicazione del testo unico sull’immigrazione, art. 5, comma 6, e art. 19, per non avere il tribunale riconosciuto la protezione umanitaria in ragione del livello di integrazione e di radicamento raggiunto dal ricorrente nel nostro Paese, tenuto conto delle condizioni generali di duello di provenienza.
2. I primi due motivi, scrutinabili congiuntamente perchè connessi, sono inammissibili.
2.1. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, ‘art. 2, comma 1, lett. g) e b), conformemente al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. j) e g), definisce “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il “cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e i1 quale non può, o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.
2.1.1. La definizione di “danno grave” è fornita dal successivo art. 14, il quale lo identifica: a) nella condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) nella minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
2.2. Posto che nel caso di specie è stata dedotta a fondamento della domanda di protezione sussidiaria l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, occorre rammentare che, come questa Corte ha già chiarito. Cass. n. 780 del 2019; Cass. n. 14006 del 2018; Cass. n. 13858 del 2018), in tema di protezione sussidiaria dello straniero, prevista nella fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), l’ipotesi considerata implica, alternativamente: i) o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale; u ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel Paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia.
2.2.1. A tale ultimo riguardo, il giudice è, come è noto, tenuto, anche d’ufficio, a verificare – elettivamente attraverso lo scrutinio dei cd. c.o.i., country of origin informations, oppure di altra documentazione, comunque, disponibile, tra cui i rapporti conoscitivi elaborati dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (reports), integrando gli stessi fonti qualificate, sia perchè equiparati a quelli elaborati da altri organismi riconosciuti come di comprovata affidabilità, sia perchè provenienti da un dicastero istituzionalmente dotato di competenze, informative e collaborative, nella materia della protezione internazionale – se nel Paese di provenienza sia oggettivamente sussistente una situazione di violenza indiscriminata talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente. Per converso, non è configurabile un dovere di cooperazione istruttoria con riguardo alla situazione personale del richiedente, dovendo a tal riguardo viceversa il giudice soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista, nel suo complesso, dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5;
2.2.2. Tanto premesso, il tribunale milanese ha correttamente tenuto ben distinto il piano della situazione personale del richiedente da quello della situazione complessiva del Paese di provenienza: i) quanto al primo aspetto, il giudice di merito, con valutazione non sindacabile in questa sede, ha ritenuto che il racconto del ricorrente, laddove aveva esposto le ragioni che gli facevano temere di essere discriminato ucciso da parte dei familiari per motivi religiosi, avesse narrato una vicenda intrinsecamente (e non per mancanza di prova) non credibile per una pluralità di incongruenze e contraddizioni; ii) circa il secondo aspetto, il medesimo giudice ha affermato che, sulla base degli accertamenti effettuati attraverso l’analisi della documentazione di cui si e già detto, potessè escludersi la sussistenza, nella zona di provenienza del ricorrente, di una situazione di conflitto armato e quindi di violenza indiscriminata.
2.2.3. Tali valutazioni, compiute sulla base della pertinente documentazione indicata, attengono al merito della controversia e si sottraggono al sindacato di legittimità eli questa Corte, tanto più che si richiamano a provvedimenti giudiziari asseritamente pervenuti a soluzioni diverse quanto alla situazione politico sociale del Pakistan, ma in considerazione di documentazione informativa risalente ad epoca antecedente.
2.2.4. Quanto oggi esposto da K.T., argomentando le censure in esame, si risolve, sostanzialmente – benchè formalmente prospettato come vizio di violazione di legge – in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo, cui il primo intenderebbe opporre una diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie utilizzate dal già menzionato tribunale: ciò non è ammesso, però, nel giudizio di legittimità, che m)n può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè la più recente Cass. n. 8758 del 2017).
3. Parimenti inammissibile è il terzo motivo.
3.1. Il dovere di cooperazione istruttoria indubbiamente gravante sul giudice, nella materia in discorso, non è infatti richiamato a proposito, dal momento che il tribunale ha effettuato compiutamente l’accertamento che doveva, utilizzando la documentazione già menzionata, mentre il motivo fa riferimento r., in particolare, pag. 14-15) ad elementi istruttori di segno diverso la cui esistenza non risulta dedotta nella fase di merito, sicchè per tale aspetto la censura risulta essere nuova.
4. Inammissibile, infine, ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., è anche il quarto motivo, fin da ora precisandosi che il suo esame avverrà sulla base della disciplina, afferente la cd. protezione umanitaria, anteriore a quella introdotta dal D.L. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 132 del 2018: questa Corte, infatti, ha recentemente sancito (cfr. Cass. n. 4890 del 2019) che “la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito dalla L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dal del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima – come quella in esame. – dell’entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge”.
4.1. Questa Corte ha già avuto modo di affermare, recentemente ribadendoli) (cfr. Cass. n. 780 del 2019), che tra i motivi per i duali è possibile accordare la protezione umanitaria non rientrano, di per sè, l’integrazione sociale e lavorativa in Italia (cfr. Cass. n. 25075 del 2017). In tale prospettiva, è stato ulteriormente chiarito che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (cfr., Cass. n. 4455 del 2018).
5.1.1. Emerge, allora, con chiarezza che i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6” (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455). Di guisa che la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede, di per sè, alcun rilievo, salvo emerga che essa ha prodotto specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale.
4.2. Nella specie, il tribunale ha fatto debita applicazione del principio che precede, osservando che il ricorrente, maggiorenne, non ha raggiunto un sufficiente grado di integrazione sociale ed indipendenza economica, lavorando con contratto a termine di tre mesi presso una ditta cinese di borse a Pisa. In ragione di cio, delle sue buone doti di autonomia e capacità di apprendimento, del suo elevato livello di istruzione, del fatto di non aver denunciato patologie e nel suo Paese vivono i fratelli e le sorelle, il giudice a duo ha ritenuto non sussistere insormontabili difficoltà ad un suo reinserimento sociale e lavorativo nel suo Paese di provenienza. Affermazione, questa, conforme al principio di diritto di cui si è dato conto e, nel merito, evidentemente insindacabile in sede di legittimità.
5. Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio di legittimità regolate dal principio di soccombenza, altresì rilevandosi che, dagli atti, il processo risulta esente dal contributo unificato, sicchè non trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2019, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso, e condanna K.T. al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 9 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2019