Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.16062 del 14/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11897/2015 proposto da:

C.C., rappresentata e difesa dall’Avvocato FIORENZO SIGNORINI ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in DESIO, VIA MONSIGNOR CATTANEO 21;

– ricorrente –

contro

G.D.C., rappresentato e difeso dall’Avvocato MARIO GIANNARINI, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in ROMA, VIA GAVORRANO 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3962/2014 della CORTE d’APPELLO di MILANO, depositata il 6.11.2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 6/03/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione in opposizione al decreto ingiuntivo n. 2574/2011, emesso dal Tribunale di Monza, C.C. conveniva in giudizio l’avv. G.D.C.. Con il suddetto decreto era stato ingiunto alla C. il pagamento del compenso dell’attività professionale svolta dall’avv. G. per la pratica di successione del defunto marito. Deduceva la medesima come l’esoso compenso non risultasse adeguatamente parametrato allo scaglione di riferimento indicato dalla Tariffa allegata al D.M. n. 127 del 2004, applicabile all’epoca; che alcune delle attività per le quali era stato richiesto il compenso fossero state prestate da soggetti diversi dall’avv. G.; contestava i compensi per la prestazione di due ricorsi redatti quando il professionista non aveva ancora conseguito il titolo di avvocato.

Si costituiva in giudizio l’avv. G., chiedendo il rigetto dell’opposizione e spiegando domanda riconvenzionale per l’ulteriore importo di Euro 23.447,62, pari alla differenza tra quanto asseritamente allo stesso dovuto e quanto liquidato dall’Ordine degli Avvocati di Monza, chiedendo altresì la condanna della C. al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 3.108,72 per attività svolta, ma non inclusa nella richiesta di liquidazione.

Con sentenza del 18.2.2013, il Tribunale di Monza rigettava l’opposizione e confermava il decreto ingiuntivo opposto; rigettava le domande riconvenzionali, compensando le spese.

Contro tale sentenza proponeva appello la C., riproponendo le medesime censure mosse al decreto ingiuntivo.

Si costituiva in giudizio l’appellato, che chiedeva il rigetto dell’impugnazione.

Con sentenza n. 3962/2014, depositata in data 6.11.2014, la Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello, condannando l’appellante alle spese di lite del grado di appello.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione C.C. sulla base di due motivi; resiste l’Avv. G. con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “Erronea e falsa applicazione della norma di diritto degli artt. 2 e 5 della Tariffa in materia stragiudiziale allegata al D.M. n. 127 del 2004”, in quanto il giudice di primo grado, nonostante la specifica censura mossa dalla C., non aveva provveduto ad individuare il corretto valore della pratica, inficiando così l’operazione logico-giuridica di liquidazione del compenso; ed in quanto anche la Corte di merito è incorsa in errore, là dove ha ritenuto, in maniera del tutto apodittica, che il Tribunale avesse determinato il compenso tra il minimo e il massimo, come previsto dall’art. 1, comma 2 della citata Tariffa. Osserva la ricorrente che non sia possibile affermare la congruità del compenso tra un minimo e un massimo in assenza della preventiva individuazione del valore della pratica e dello scaglione applicabile, che avrebbe dovuto essere determinato con riferimento al valore della quota dell’asse ereditario spettante alla ricorrente e non sull’intero asse ereditario. L’affermazione della Corte distrettuale, secondo cui l’appellante non avrebbe fornito la prova che l’importo ritenuto congruo dal Tribunale si ponesse in violazione di specifica disposizione tariffaria, sarebbe dunque priva di pregio, in quanto l’appellante deduceva che il Giudice di primo grado avesse violato la norma di legge che imponeva l’individuazione del valore della pratica e poi dello scaglione.

1.2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la “Erronea e falsa applicazione della norma di diritto dell’art. 1, comma 2 della Tariffa in materia stragiudiziale allegata al D.M. n. 127 del 2004”, che impone al Giudice, nel determinare gli onorari fra il minimo e il massimo, di tenere conto del valore e della natura della pratica, del numero e dell’importanza delle questioni trattate, del pregio dell’opera prestata, dei risultati e vantaggi conseguiti dal cliente. Per la ricorrente, il Tribunale aveva applicato in maniera superficiale tale norma, facendo riferimento alle sole voci di maggior importo presenti nella notula, ritenendole eccessive, mentre il professionista, per sua stessa ammissione, aveva assistito la ricorrente nella predisposizione della documentazione necessaria alla pubblicazione del testamento (già redatto per atto pubblico), all’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario (senza indicare le ragioni per cui fosse opportuna tale procedura) e alla redazione della denuncia di successione.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica, oltre che per analoga modalità di formulazione, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente. Essi non possono trovare accoglimento.

2.1. – In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

2.2. – Ciò premesso, va rilevato che è consolidato il principio di questa Corte secondo cui, in tema di liquidazione del compenso per l’esercizio della professione forense – nel regime (pacificamente applicato nella fattispecie, ratione temporis), antecedente al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 27 – il cliente deve fornire la prova che l’avvocato abbia svolto l’attività difensionale con imperizia o comunque con impegno inferiore alla comune diligenza, ben potendo, altrimenti, liquidarsi le singole voci al di sopra del minimo tariffario, mentre spetta al professionista, a norma dell’art. 2697 c.c., dar prova delle circostanze che, nel caso concreto, giustifichino l’eventuale maggiore compenso rispetto ai massimi previsti, restando, in difetto, applicabile la tariffa nell’ambito dei parametri ordinari (Cass. n. 9237 del 2015; Cass. n. 22087 del 2007).

Così ripartito l’onere della prova in materia, va rilevato che la Corte distrettuale – a fronte del contestato vizio di omessa pronuncia del Tribunale circa la censura mossa al decreto ingiuntivo, liquidato con importo calcolato D.M. n. 127 del 2004, ex art. 5, comma 3, su valore di asse ereditario pari al doppio di quello effettivo emergente dalla dichiarazione di successione ha ritenuto infondata la censura, poichè nè il Consiglio dell’Ordine di Monza che aveva liquidato il compenso, nè il Tribunale che lo aveva ritenuto equo (così effettuando una valutazione commisurata ai criteri indicati nell’art. 1, comma 2, della Tariffa medesima) avevano fatto riferimento ad un preciso scaglione di valore; nè per altro verso l’appellante aveva allegato o dimostrato che l’importo in parola si ponesse in violazione di precisa e specifica disposizione tariffaria (sentenza impugnata, pag. 1). E che, inoltre, la Corte – riguardo alla censura rivolta al Tribunale che, a dire dell’appellante, aveva errato nell’accogliere la domanda di controparte, nonostante il professionista non avesse assolto al proprio onere probatorio circa l’attività effettivamente svolta in favore della stessa – ha ritenuto tale censura inammissibile, in quanto generica nell’indicare in cosa esattamente consistesse l’inadempimeneto lamentato e le ragioni per cui l’importo liquidato non potesse essere considerato proporzionato e congruo; e infondata, come emergente dalla puntuale ricostruzione effettuata dall’appellato quanto all’esatto adempimento del proprio mandato professionale (sentenza impugnata, pag. 2).

2.3. – Trattasi di apprezzamento sottratto al vaglio di legittimità in quanto congruamente motivato. Infatti, il giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, ricavata dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

Peraltro, il ricorso lascia trasparire una implicita e pur riscontrabile sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando il ricorrente di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

3. – Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore di parte controricorrente. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il pagamento del doppio contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla refusione delle spese di lite in favore del controricorrrente che liquida in complessivi Euro 2.500,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2019

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