Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.17049 del 26/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4418/2017 proposto da:

V.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 32, presso lo studio dell’avvocato PERROTTA CASAGRANDE, rappresentato e difeso dagli avvocati LUCIANO BOCCARUSSO, MARIO ANZISI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, *****;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 13/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/03/2019 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

I FATTI DI CAUSA 1.- Nel 2014 V.F. agì in giudizio affermando di aver subito la violazione del suo diritto a non essere sottoposto a detenzione in condizioni inumane, durante i periodi detentivi trascorsi negli Istituti penitenziari di ***** (dal 29.09.2010 al 22.02.2012) e chiese il risarcimento del danno sulla base dei parametri indicati dalla L. n. 354 del 1975, art. 35-ter, comma 3, concludendo per la condanna del Ministero della Giustizia alla corresponsione della somma di Euro 8 per ogni giorno di detenzione “inumana e degradante”.

2. – Si costituì l’Avvocatura dello Stato, eccependo l’inammissibilità dell’azione risarcitoria per equivalente in quanto l’istante, pur non essendo più ristretto in carcere, aveva ancora una pena da espiare essendo stato disposto nei suoi confronti l’affidamento in prova al servizio sociale (e quindi avrebbe se del caso potuto richiedere solo la riparazione in forma specifica, e non quella per equivalente).

3. – Il Tribunale di Napoli accolse l’eccezione di inammissibilità, affermando che il legislatore distingue tra coloro che si trovano ancora in regime di detenzione, ai quali riconosce il risarcimento in forma specifica e coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva, ai quali viene invece attribuito un risarcimento pecuniario; la legge non prende espressamente in considerazione l’ipotesi del condannato ammesso ad una misura alternativa alla detenzione. Ciò premesso, il tribunale ritenne che la soluzione interpretativa preferibile fosse quella fondata sulla ratio della norma, che tende a privilegiare il risarcimento in forma specifica rispetto a quello per equivalente, con la conseguenza di consentire l’accesso al rimedio “premiale” dello sconto della pena per tutta la sua durata compreso, dunque, l’eventuale periodo espiato in una misura alternativa alla detenzione.

4. – In seguito a tale pronunciamento, il ricorrente presentava, in data 21.10.2016, istanza di revoca del provvedimento ex art. 742 c.p.c., che, in data 14.12.2016, veniva dichiarata inammissibile.

5. – Contro il decreto emesso dal Tribunale di Napoli, notificato il 14.12.2016, propone ricorso per Cassazione, affidato ad un unico motivo ed illustrato da memoria, V.F..

Il Ministero della Giustizia non ha svolto, in questa sede, attività difensiva.

LE RAGIONI DELLA DECISIONE Con l’unico motivo di ricorso, si deduce la violazione della L. n. 354 del 1975, art. 35-ter, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorrente lamenta che, con riguardo al tipo di tutela (in forma specifica, davanti al Magistrato di sorveglianza, o per equivalente, davanti al Tribunale civile) cui abbia diritto colui che abbia terminato, almeno allo stato, la propria detenzione in carcere e sia stato ammesso al regime alternativo extramurario – nel caso di specie, all’affidamento al servizio sociale – il tenore letterale dell’art. 35-ter, deponga in senso contrario alla possibilità di chiedere lo sconto di pena e nel senso invece di riconoscere a chi lamenti le inumane condizioni di detenzione subite il diritto alla sola tutela risarcitoria per equivalente.

Il ricorrente deduce infatti che il comma 3 della disposizione citata preveda quale unico requisito legittimante il ricorso al Giudice civile che la parte abbia terminato di espiare la pena detentiva “in carcere”, facendo espresso riferimento alla detenzione inframuraria.

Il motivo non è fondato.

La L. n. 354 del 1975, art. 35 ter, introdotto dal D.L. n. 92 del 2014, art. 1, conv. con modif. dalla L. n. 117 del 2014, prevede due forme alternative di riparazione del pregiudizio conseguente alla detenzione in condizioni inumane cui associa anche la competenza di un diverso organo giudiziario.

L’opzione per l’una o l’altra forma di tutela non è rimessa alla scelta del danneggiato ma alla sussistenza delle condizioni indicate dalla legge.

Per il condannato che sia ancora in condizioni di detenzione è prevista la forma riparatoria in forma specifica della riduzione della pena detentiva ancora da espiare, da richiedere con istanza presentata dal detenuto al magistrato di sorveglianza.

Il comma 3, prevede invece che chi abbia subito durante il suo periodo detentivo il pregiudizio conseguente alla detenzione in condizioni inumane, ma abbia terminato di espiare la pena detentiva in carcere possa proporre l’azione, anche personalmente, dinanzi al tribunale civile, per ottenere non più la riparazione in forma specifica, inattuabile essendo terminato il periodo detentivo, ma la tutela per equivalente.

La legge quindi privilegia, per chi è in condizioni di fruirne, in conformità ai principi generali, la tutela riparatoria in forma specifica, consistente nel rimedio premiale della riduzione della pena ancora da espiare, in quanto essa è ritenuta maggiormente satisfattiva, rimuovendo la causa stessa del pregiudizio, ovvero limitando il periodo di detenzione in considerazione delle condizioni degradanti in cui si è svolta la sua concreta espiazione, mentre pone in posizione meramente residuale l’accesso alla tutela per equivalente, che può essere utilizzata (azionandola dinanzi al giudice civile) per compensare chi abbia effettivamente subito un periodo di detenzione in condizioni inumane, se e in quanto tale condizione sia terminata.

La norma non affronta nè risolve esplicitamente il problema del tipo di tutela accessibile da chi, pur non avendo ancora terminato di espiare la pena, si trovi però nel momento in cui presenta la sua domanda non ristretto in carcere perchè sottoposto ad una misura alternativa (nel caso di specie, affidamento in prova ai servizi sociali).

Tuttavia, tenuto conto della ratio della norma che, come sopra indicato, è quella di privilegiare il risarcimento in forma specifica, consistente nel rimedio premiale dello “sconto” della pena residua, rispetto a quello per equivalente, attivabile solo se la condizione detentiva è ormai definitivamente conclusa, e tenuto conto anche della strutturazione non alternativa, a scelta del danneggiato, dei due rimedi, ma della scelta legislativa di consentire l’accesso alla riparazione per equivalente solo ove non sia più possibile quella in forma specifica, si ritiene che il rimedio della reintegrazione in forma specifica sia quello unicamente attivabile anche da chi si trovi a dover scontare una misura alternativa alla detenzione, e quindi non sia attualmente soggetto alla restrizione in carcere.

Va premesso che l’istanza ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., è uno strumento di riparazione di natura atipica, con carattere prevalentemente indennitario, che ha origine nella violazione di obblighi gravanti “ex lege” sull’amministrazione penitenziaria e trae il suo fondamento non dalla legge ordinaria che lo ha introdotto, ma direttamente nella CEDU (v. Cass. S.U. n. 11018 del 2018) (di tal che la domanda, con la quale si prospetta una violazione del divieto di sottoporre un soggetto detenuto a trattamenti inumani o degradanti, è ammissibile anche per i pregiudizi subiti anteriormente al 26 giugno 2014).

Il problema in esame è stato già esaminato e risolto, peraltro, dalla Cassazione penale, le cui conclusioni si condividono appieno, che ha avuto modo di precisare, richiamando Corte Cost. n. 204 del 2016, che il rimedio pecuniario è alternativo a quello della riduzione di pena in tutte le ipotesi in cui, pur in presenza di un trattamento inumano o degradante, il magistrato di sorveglianza versa nell’impossibilità di operare nell’immediatezza siffatta riduzione di pena (Cass. pen. 32280 del 2018, a proposito della situazione di un detenuto condannato all’ergastolo).

In tutti gli altri casi, in cui ci sia una pena ancora da scontare, il rimedio predisposto dall’ordinamento è quello dell’istanza rivolta al magistrato di sorveglianza per ottenere una riduzione della durata della pena residua.

Va a questo proposito puntualizzato che il condannato ammesso ad una misura alternativa non ha formalmente terminato di espiare la pena detentiva poichè si tratta di una misura provvisoria, revocabile con il ripristino del regime di detenzione, e che costituisce nient’altro che una forma di esecuzione della pena detentiva (come già affermato da Cass. pen. 47052 del 2017: “In tema di rimedi conseguenti alla violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti di soggetti detenuti o internati, appartiene al magistrato di sorveglianza la competenza a provvedere sull’istanza riparatoria di cui alla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 35-terOrd. pen., proposta da soggetto in affidamento in prova ai servizi sociali, in quanto la misura alternativa costituisce una forma di esecuzione della pena detentiva”).

Inoltre, appare più ragionevole, nell’ottica premiale della riduzione di pena, che anche il soggetto più meritevole, ammesso alla pena alternativa possa beneficiare dell’effetto premiale della riduzione del periodo ancora comunque da scontare in condizioni limitative della libertà personale, rispetto a quello meno meritevole, eventualmente rimasto in detenzione, che comunque potrebbe beneficiarne lo stesso per legge.

Deve ritenersi infine che, il presupposto necessario per accedere al beneficio della riparazione in forma specifica mediante lo “sconto” sulla pena residua, da richiedere al Tribunale di sorveglianza, sia il perdurante stato di restrizione del richiedente e non l’attualità del pregiudizio (in quanto il richiamo contenuto nell’art. 35-ter ord. pen. al pregiudizio di cui all’art. 69 ord. pen., comma 6, lett. b), opera ai fini dell’individuazione dello strumento processuale di cui si può avvalere il detenuto e del relativo procedimento, ma non si riferisce al presupposto della necessaria attualità del pregiudizio che rileva, invece, ai fini del diverso rimedio del reclamo, previsto dal citato art. 69, la cui finalità è quella di inibire la prosecuzione della violazione del diritto individuale da parte dell’amministrazione penitenziaria). In questo senso si è espressa Cass. pen. 19674 del 2017, che peraltro in motivazione aggiunge che deve, comunque, considerarsi attuale il pregiudizio che non è stato eliminato attraverso una forma di riparazione, anche se la causa che lo ha prodotto si sia temporalmente verificata nel passato.

Piuttosto, ciò che è necessario ai fini della tutela in forma specifica è che la domanda riguardi pregressi periodi di carcerazione afferenti alla pena tuttora in corso di espiazione e non periodi di espiazione già conclusi (principio affermato da Cass. pen. 983 del 2017, in relazione ad un detenuto agli arresti domiciliari, in relazione alla cui condizione la Corte ha specificato che, diversamente, chi è sottoposto a detenzione domiciliare per periodi di carcerazione estranei alla pena in corso di espiazione, versando in una situazione assimilabile a quella di un soggetto libero, gode soltanto della più limitata tutela civilistica).

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nulla sulle spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.

Non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in quanto il processo risulta esente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in quanto il processo risulta esente.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2019

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