Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.17053 del 26/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3558/2016 proposto da:

EDISON SPA, in persona del GENERAL COUNSEL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MANZI, rappresentata e difesa dagli avvocati GIUSEPPE MAZZARELLA, PAOLO GIOVANNI GILDO CASELLA;

– ricorrente –

contro

CALCESTRUZZI PALERMO SRL;

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

AGENZIA NAZIONALE PER L’AMMINISTRAZIONE E LA DESTINAZIONE DEI BENI SEQUESTRATI ALLA MAFIA in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– resistenti –

avverso la sentenza n. 18/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 10/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/03/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del 1 motivo di ricorso Edison;

udito l’Avvocato GIUSEPPE MAZZARELLA e PAOLO GIOVANNI GILDO CASELLA.

FATTI DI CAUSA

Edison S.p.a. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 18/2015 della Corte d’Appello di Palermo, depositata il 10/01/2015, affidandosi a due motivi, illustrati con memoria ex art. 380 bis c.p.c..

L’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la destinazione dei beni confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata non ha svolto attività difensiva, ma ha chiesto di partecipare all’udienza di discussione della causa, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

Il Ministero dell’interno, non intimato, ha depositato la medesima richiesta.

Si dà atto che la controversia, assegnata alla Sesta sezione civile, era stata rimessa alla trattazione in Pubblica udienza, con ordinanza interlocutoria n. 634/2018 del 19/12/2017 Nel 1984 la S.p.a. Calcestruzzi Palermo cedeva alla S.p.a. Calcestruzzi, divenuta Calcemento S.p.a. ed ora Edison S.p.a., il proprio pacchetto azionario, detenuto da C.A., B.A., T.G. e P.S. e, con separato atto, prometteva di vendere un terreno di sua proprietà, sito in *****, a B.A., C.A. e P.S. per Lire 300.000.000.

Il corrispettivo della cessione azionaria, pari a Lire 1.100.000.000, veniva frazionato in quattro rate, ad eccezione di quanto dovuto a T.G. che, invece, veniva corrisposto immediatamente.

Nel 1989 C.A. e P.S. cedevano pro soluto ad B.A. il loro credito derivante dalla cessione azionaria.

Nel 1994 Calcestruzzi Palermo alienava il bene oggetto del preliminare di vendita ad B.A. ed addebitava al proprio unico socio EDISON S.p.a., ancora inadempiente agli obblighi derivanti dalla cessione azionaria nei confronti di B.A., il corrispettivo della vendita e gli oneri fiscali, per un totale di Lire 366.000.000. Tale somma veniva iscritta nei bilanci della società Calcestruzzi S.p.a., poi recepiti dalla Edison S.p.a. Contestualmente la società alienante comunicava a Calcestruzzi S.p.a. di avere, “nel rispetto (…) delle sapute intese”, trasferito il terreno, dando esecuzione all’obbligazione da quest’ultima assunta nei confronti dei venditori delle azioni. La Calcestruzzi S.p.a. dava riscontro a tale comunicazione riservandosi di effettuare le necessarie verifiche.

Nel 2002 la società Calcestruzzi Palermo, assumendo di essere creditrice nei confronti di Edison S.p.a. – il cui pacchetto azionario, acquistato dalla Calcestruzzi Palermo era stato nelle more sequestrato e confiscato ai sensi della L. n. 575 del 1965 – di Euro 189.023,23 al netto degli interessi, conveniva la società debitrice, dinanzi al Tribunale di Palermo, perchè fosse condannata al pagamento di quanto dovuto.

Il Tribunale di Palermo, con sentenza n. (5013/2008, respingeva la domanda attorea, ritenendo la relativa pretesa creditoria non adeguatamente suffragata. Ad avviso del giudice, infatti, perchè il pagamento diretto da parte di Edison S.p.a. a favore di Calcestruzzi Palermo estinguesse contemporaneamente il debito di Edison verso B.A., derivante dalla cessione di quote azionarie, e quello di B.A. verso la Calcestruzzi Palermo avente titolo nell’acquisto del terreno, sarebbe stato necessario un accordo tra le parti di delegazione o di espromissione o di accollo, della cui ricorrenza non era stata fornita la prova, non bastando, a tale scopo, il rinvio a “risapute intese” nè l’approvazione dei bilanci da parte della società debitrice.

La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza oggetto della odierna impugnazione, investita del gravame da Calcestruzzi Palermo S.p.a., modificando la decisione di prime cure, condannava Edison S.p.a. a pagare alla, società appellante Euro 189.023,23.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo Edison S.p.a. lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1988,2377,2697,2709 e 2720 c.c..

Gli errori attribuiti alla sentenza impugnata sono:

a) l’averla condannata al pagamento senza prova del fatto costitutivo dell’obbligazione;

b) l’avere omesso di considerare che il bilancio della Calcestruzzi Palermo recava menzione nella nota, che di esso costitutiva parte integrante, dell’avvenuta contestazione dell’esistenza del credito; di conseguenza, non poteva attribuirsi alla delibera assembleare del 16/06/1998 la valenza probatoria di una ricognizione di credito;

c) l’aver omesso di considerare che nel bilancio della Calcestruzzi Palermo del 2013, l’ultimo approvato prima che la società venisse cancellata dal registro delle imprese, il credito nei confronti della Edison era scomparso con conseguente cessazione della materia del contendere e che, comunque, la cancellazione dal registro delle imprese della società prima del passaggio in giudicato della sentenza impugnata era da intendersi come manifestazione implicita di rinunciare al credito;

d) il non aver dichiarato cessata la materia del contendere, nonostante da tutti i bilanci della Calcestruzzi Palermo, pubblicati nel Registro delle imprese di Palermo solo il 19/01/2015, cioè dopo la sentenza impugnata, si evincesse che il socio unico della Calcestruzzi Palermo, essendo stata questa cancellata dal registro delle imprese, era l’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei beni confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata cui, a pena di inammissibilità, avrebbe dovuto essere indirizzato il ricorso.

La questione della cessazione della materia del contendere, pur non essendo la prima sottoposta allo scrutinio di questa Corte, deve essere esaminata preliminarmente risultando assorbente rispetto alle restanti prospettazioni ed al successivo motivo di ricorso.

Essa si fonda sul presupposto che la società, cancellatasi dal registro delle imprese in data 17/02/2015, dopo la sentenza favorevole di appello, ma prima del suo passaggio in giudicato, abbia rinunciato tacitamente al diritto di credito nei confronti dell’attuale società ricorrente e che quindi non lo abbia trasferito al suo unico socio l’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Occorre verificare se sia applicabile al caso di specie il principio di diritto stabilito da questa Corte, a Sezioni unite, con la sentenza n. 6070 del 12 marzo 2013, secondo cu, ai fini che qui interessano: ” (…) qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale (…): b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo”.

Va considerato che la pretesa azionata in giudizio dalla società Calcestruzzi Palermo, prima con l’atto di citazione in giudizio e poi con l’atto di appello, integra, ad avviso di questa Corte, quell’attività ulteriore, il cui espletamento da parte del liquidatore non consente di ritenere che la società abbia tacitamente dimostrato, con la cancellazione, di volervi rinunciare. Il liquidatore ha coltivato il giudizio fino alla sentenza favorevole di secondo grado. Ciò che gli si rimprovera, infatti, non è di aver disposto la cancellazione della società durante lo svolgimento del giudizio di appello, ma di non avere atteso l’eventuale passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado: la sentenza della Corte d’Appello che, accogliendone il gravame, riconosceva alla società estinta il diritto di ottenere da parte di Edison 5.p.a. il pagamento di Euro 189.023,23 oltre agli interessi legali dal 24/06/1994 al soddisfo, è stata pubblicata il 10/01/2015 e la cancellazione della società è avvenuta (solo) successivamente il 17/02/2015, quindi, non nelle more del giudizio di appello, ma dopo il suo esito favorevole per la società cancellata, quando ancora pendeva il termine per ricorrere per cassazione avverso detta sentenza (sul rilievo dell’attività processuale del liquidatore al fine di escludere la ricorrenza di una rinuncia tacita al diritto cfr. Cass. 06/04/2018, n. 8582).

A conferma di tale conclusione vale anche la giurisprudenza secondo cui si può postulare agevolmente che la società cancellandosi abbia manifestato una volontà abdicativa solo a fronte di “mere pretese (…) cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo del bilancio finale di liquidazione. Ad analoghe conclusioni può logicamente pervenirsi nel caso in cui un diritto di credito, oltre che controverso, non sia neppure liquido: di modo che solo un’attività ulteriore da parte del liquiidatore – per lo più consistente nell’esercizio o nella coltivazione di un’apposita azione giudiziaria – avrebbe potuto condurre a renderlo liquido, in vista del riparto tra i soci dopo il soddisfacimento dei debiti sociali. In una simile situazione la scelta del liquidatore di procedere senz’altro alla cancellazione della società dal registro, senza prima svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o a farlo liquidare, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo. Ma quando, invece, si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci (al netto dei debiti), un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare meno giustificata (…)” (Cass., Sez. Un., 12/03/2013, n. 6070).

In tal caso, la cancellazione della società comporta il venir meno della sua soggettività e della sua capacità giuridica e determina l’instaurarsi di un regime di contitolarità o di comunione indivisa tra i soci dei rapporti non venuti meno e il trasferimento ai medesimi della legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva (Cass. 30/07/2012, n. 12796).

Peraltro, uno dei presupposti per addivenire alla pronuncia di cessazione della materia del contendere è che la cancellazione della società dal registro delle imprese sia stata frutto di una scelta.

Nel caso di specie non è dato sapere se la società si sia cancellata volontariamente (non essendo stato prodotta in giudizio la delibera di cancellazione), pur dopo avere ottenuto una sentenza favorevole, che aveva fatto seguito alla coltivazione costante dell’azione giudiziaria per due gradi di giudizio.

Sulla scorta dei rilievi formulati, non è possibile ravvisare gli estremi di una inequivoca volontà abdicativa della società, ostativa alla trasmissione del diritto di credito al socio unico, essendo il suo comportamento suscettibile di assumere una connotazione inferenziale non univoca, nè grave nè concordante. (Cass. 06/04/2018, n. 8582).

Superata la questione della cessazione della materia del contendere, si può passare allo scrutinio delle restanti prospettazioni.

Costituisce principio più volte applicato, da cui non vi è ragione di discostarsi, che l’apprezzamento dell’efficacia probatoria del bilancio a favore della società costituisce una deroga alla regola, di cui all’art. 2709 c.c., che, giustificata dall’esigenza di impedire la precostituzione della prova di quanto si pretende da un altro, circoscrive l’efficacia probatoria delle scritture contabili quale mezzo di prova contro l’imprenditore che le ha predisposte.

Tale deroga non trova ostacolo nell’art. 2710 c.c., atteso che l’eventualità che le scritture contabili facciano prova a favore del soggetto che le ha tenute è subordinata alla ricorrenza di specifici e predeterminati presupposti oggettivi e soggettivi.

La regola che si applica è, infatti, quella espressa dall’art. 2377 c.c., che trova il suo fondamento nell’efficacia vincolante delle delibere assembleari conformi alla legge e allo statuto nei confronti di tutti i soci, ancorchè non intervenuti e dissenzienti.

Tale regola, applicata alla delibera assembleare di approvazione del bilancio da cui emergano ragioni creditorie della società nei confronti del socio, impone a quest’ultimo di impugnare la delibera di approvazione del bilancio, ove intenda sottrarsi all’accertamento in essa contenuto circa la sussistenza del credito vantato dalla società nei suoi confronti.

L’applicazione della regola di vincolatività della delibera di approvazione del bilancio che trova la sua matrice nell’art. 1372 c.c., cioè nella forza di legge del contratto, in luogo di quella relativa all’efficacia probatoria delle scritture contabili, si riflette sulla portata della sua efficacia probatoria: le scritture contabili sono, infatti, sottoposte al principio del prudente apprezzamento da parte del giudice, la delibera assembleare fa invece piena prova della ricorrenza del credito della società verso il socio.

In altri termini, il bilancio regolarmente approvato ha efficacia di piena prova circa la sussistenza del credito della società nei confronti del socio, derivandone che non è permesso al socio contrastare con ogni mezzo i dati risultanti dalla documentazione contabile; il socio ha una strada obbligata onde sottrarsi e contestare l’accertamento nei suoi confronti del credito della società che risulti dal detto documento contabile: promuovere l’impugnazione della delibera di approvazione del bilancio.

L’unico correttivo a tale regola è costituito dalla verifica che il credito appaia chiaramente indicato nel bilancio d’esercizio oggetto di approvazione da parte dell’assemblea, cosicchè il socio possa averne adeguata contezza in vista di determinarsi a promuovere – se ritiene errata o illegittima la pretesa della società nei suoi confronti – l’impugnazione della relativa delibera.

Il fatto, invece, che l’effettiva sussistenza di un credito venga contestato dal debitore, o anche che lo stesso risulti ormai litigioso, non incide sulla necessità della sua iscrizione nell’attivo del bilancio. L’eventuale carattere contestato o litigioso del credito viene a rilevare, piuttosto, nel quadro della valutazione che, in sede di confezione del bilancio, occorre dare allo stesso.

Secondo quanto dispone la norma dell’art. 2426 c.c., i crediti “sono rilevati in bilancio”, “tenendo conto (…) del valore di presumibile realizzo”. Questa disposizione, infatti, non si limita a imporre agli amministratori di tenere adeguato conto dell’effettiva capacità di adempimento del debitore e del suo patrimonio, ma pure richiede un’attenta valutazione sulla effettiva “consistenza giuridica” della pretesa.

Nè ciò comporta, come sembra paventare il ricorrente, rimettere la determinazione di poste attive del bilancio all’arbitrio degli amministratori: le relative valutazioni affidandosi non già a una semplice e generica discrezionalità, bensì a uno specifico giudizio tecnico-professionale di ragionevolezza (cfr., in specie, Cass., 23/06/ 2008, n. 17033, nonchè Cass., 18/03/2015, n. 5450). Della valutazione così compiuta – in particolare, dell’eventuale scarto della rilevazione di bilancio rispetto al nominale del credito – daranno poi conto pure le notizie fornite dalla nota integrativa, come anche, nel caso occorrente, dalle “informazioni complementari necessarie allo scopo” di cui all’art. 2423 c.c., comma 2. (Cass. 02/10/2018, n. 23948).

Tali principi fin qui declinati in astratto, applicati alla fattispecie concreta, impongono di dare avallo alla decisione impugnata che, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, non ha fatto leva solo sul bilancio, annichilendo le indicazioni contenute nella nota integrativa (la quale, una volta appostato correttamente il credito nell’attivo dello stato patrimoniale ha contribuito a chiarire l’indicazione del credito iscritto nel bilancio quanto all’entità, alla causale, al soggetto debitore), ma sul documento contabile considerato nel suo complesso, quindi comprensivo dei contenuti della nota integrativa (artt. 2427 e 2427 bis c.c.) in quanto la stessa, oltre a costituire parte integrante e sostanziale del bilancio d’esercizio (art. 2423 c.c., comma 1) è appositamente destinata a fornire chiarimenti e integrazioni rispetto ai dati numerici contenuti nello stato patrimoniale (e nel conto economico).

E’ evidente che il giudice del merito ha preso atto tanto della iscrizione del credito nel bilancio di esercizio quanto della contestazione verbale dello stesso da parte del socio/debitore di cui recava menzione la nota integrativa; applicando la giurisprudenza di questa Corte ha, tuttavia, ritenuto che la delibera di approvazione del bilancio nel quale risultava iscritto il credito della società verso il socio facesse piena prova circa la ricorrenza dello stesso e che la contestazione verbale che pure risultava annotata nella nota integrativa non fosse idonea a scalfirne l’efficacia probatoria.

Peraltro, considerato che il socio/debitore era presente quando era stata adottata la delibera di approvazione del bilancio e non risulta che fosse intervenuto sul contenuto del documento contabile chiedendo che si apportassero le eventuali modifiche ritenute necessarie od opportune, è da ritenersi che egli avesse contribuito con il proprio comportamento a rendere vincolante nei suoi confronti il contenuto della delibera assembleare.

E’ del tutto irrilevante soffermarsi a valutare se, votando, quindi contribuendo con la propria manifestazione di volontà ad approvare la situazione patrimoniale, avesse riconosciuto il proprio debito (Cass. 10/11/2005, n. 21831) – peraltro, la giurisprudenza di legittimità esclude che il voto sia configurabile come ricognizione di debito, essendo quest’ultima un negozio unilaterale recettizio volto a rafforzare la posizione del creditore destinatario della dichiarazione, o come confessione, in quanto non sorretta daill’animus confitendi, avendo il conto economico, come il bilancio di cui esso è parte, finalità meramente informative in ordine alla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società”: Cass. 17/12/1997, n. 12768.

Il fatto che dal bilancio di esercizio 2013 esso non figurasse, perchè, come precisato nella nota integrativa, era stato svalutato fino all’azzeramento per effetto della sentenza del Tribunale di Palermo n. 6013/2008, esso non ha la rilevanza attribuitagli dal ricorrente (la cessazione della materia del contendere): significa che, in applicazione del principio secondo cui i crediti si iscrivono in bilancio secondo il valore del loro presumibile realizzo, dopo il provvedimento di primo grado la possibilità di realizzo del credito era pari a zero e pertanto in maniera contabilmente ineccepibile era stata fatta emergere tale situazione.

Per di più tale argomento è introdotto in maniera contraddittoria dalla società ricorrente che ha sempre preteso ed invocato l’applicazione dell’art. 2709 c.c., giacchè, secondo tale norma, le scritture contabili costituiscono prova dei fatti sfavorevoli all’imprenditore, non di quelli a lui favorevoli; perciò avrebbe dovuto trarne la conseguenza che la mancata iscrizione di un credito in tali documenti non poteva costituire prova dell’inesistenza del credito medesimo (Cass. 25/10/ 1984 n. 5422; Cass. 15/12/1987 n. 9284).

2. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la ricorrente deduce l’omesso esame del fatto che il rappresentante legale della Calcestruzzi Palermo aveva rilasciato quietanza, con atto notarile, della somma per cui è stata emessa la sentenza di condanna al pagamento.

2.1. Il motivo è inammissibile.

La società ricorrente non tiene conto che la vendita del terreno dalla Calcestruzzi Palermo ad B.A. era parte di una operazione più complessa con cui Edison S.p.a., pagando direttamente il corrispettivo della cessione azionaria a favore di Calcestruzzi Palermo, estingueva contemporaneamente il suo debito verso B.A., derivante dalla cessione di quote azionarie, e quello di B.A. verso la Calcestruzzi Palermo avente titolo nell’acquisto del terreno.

Perciò la quietanza rilasciata ad B.A. da parte della società Calcestruzzi Palermo, inserendosi all’interno di questa operazione, sulla cui ricorrenza deve intendersi formato il giudicato, non essendo stata fatta oggetto di impugnazione, non assume i caratteri e la valenza che la ricorrente le attribuisce.

3. Ne consegue il rigetto del ricorso.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

5. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti per porre a carico della società ricorrente l’obbligo del pagamento del doppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore dell’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei beni confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata, liquidandole in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2019

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