LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29169/2017 proposto da:
R.L., R.G., R.A., R.C., R.I., R.P., RO.GI., rappresentati e difesi dall’avv. Massimo Ferrari e domiciliati presso lo studio dell’avvocato Francesco Tallarico, in Roma, c.rso Trieste, n. 199.
– ricorrente –
contro
FACE SPA, in liquidazione, in persona dei liquidatori, rappresentata e difesa dagli avvocati Armando Croce e Alessandra Croce e domiciliata presso lo studio dell’avvocato Alessandro Orsini, via degli Scipioni, n. 256/B, Roma.
– controricorrente –
Avverso la sentenza n. 2155/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 8.6.2017;
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 4 aprile 2019 Dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI.
FATTI DI CAUSA
I ricorrenti sono eredi o aventi causa di un affittuario di fondo, per rapporto sorto in epoca prebellica.
La società FACE spa ha agito nei loro confronti per far valere la risoluzione del rapporto agrario, nel quale sono subentrati i ricorrenti, il ripristino ed il risarcimento dei danni, sul presupposto, peraltro, che gli attuali utilizzatori sono privi della qualità di coltivatori diretti e dunque detengono senza titolo.
Il Tribunale, accertato che i detentori del fondo avevano realizzato opere edilizie senza titolo, ha pronunciato la risoluzione per grave inadempimento e condannato al pagamento delle somme occorrenti per la riduzione in pristino.
La decisione di primo grado è stata confermata in appello.
Ricorrono per Cassazione i detentori del fondo, con quattro motivi, due dei quali attengono alla corrispondenza tra la diffida e la domanda giudiziale, e gli altri due alla legittimazione attiva e passiva.
V’è costituzione della società Face spa, con controricorso, e successive memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano violazione della L. n. 203 del 1982, art. 46, assumendo che non vi sarebbe stata coincidenza tra l’oggetto del preavviso di lite ed il petitum del ricorso. In particolare, mentre con il preavviso la società concedente avrebbe preannunciato la domanda di condanna al ripristino, poi con la domanda giudiziale ha invece chiesto condanna al costo del ripristino, dunque al risarcimento.
Il secondo motivo è analogo al primo, in quanto i ricorrenti lamentano violazione della L. n. 203 del 1982, art. 5, sul presupposto che, sempre con l’atto di preavviso, la società non indicava tra i possibili rimedi, suscettibili di sanare l’inadempimento, quello di pagare il costo del ripristino, costo che ha successivamente chiesto con la domanda.
Queste difformità tra la diffida e la domanda giudiziale, e la stessa incompletezza della prima, renderebbero, ad avviso dei ricorrenti, non procedibile la domanda giudiziale, come è sancito dalle citate norme.
La corte di appello, pertanto, avendo ritenuto sufficiente la diffida e corrispondente il suo contenuto alla successiva domanda, avrebbe violato le suddette disposizioni di legge.
Entrambi i motivi sono infondati.
E’ vero che la disposizione di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 46 (secondo la quale chi intenda proporre in giudizio una domanda relativa ad una controversia in materia di contratti agrari è tenuto ad esperire il preventivo tentativo di conciliazione dinanzi agli appositi organi) va interpretata nel senso che intanto il precetto normativo in essa contenuto potrà dirsi osservato in quanto, in sede giudiziaria, sia avanzata una pretesa del tutto identica a quella fatta valere in sede di tentativo di conciliazione, per essere identici sia le persone, sia il “petitum”, sia la “causa petendi”, non essendo all’uopo, sufficiente una identità solo parziale di tali elementi (Cass. 10482/2001).
Ma è altresì vero che questa identità è rispettata quando la domanda giudiziale è una riduzione delle richieste contenute con la diffida, in modo tale che il più (di questa ultima) contenga il meno (di quella).
Risulta, anche dai passi della diffida riportati in ricorso, che in sede di conciliazione la società ha preannunciato di chiedere la riduzione in pristino ed il risarcimento dei danni. Con la domanda giudiziale ha chiesto invece solo la rifusione del costo di riduzione in pristino.
Ma ciò che più conta, è quanto segue.
La ratio della norma (art. 46 citato) è di consentire al conducente il fondo di rimediare all’inadempimento attuando la volontà di chi intima.
Da questo punto di vista, l’obiezione (che appartiene al secondo motivo in modo più diretto ed esplicito) dei ricorrenti di non essere stati avvisati che tra le possibilità v’era quella di pagare il costo, è del tutto pretestuosa, e fuori dalla ratio della suddetta disposizione.
Infatti, il costo del ripristino presuppone quest’ultimo. Non si tratta di una modalità alternativa di adempimento, come avviene tra esecuzione specifica e risarcimento per equivalente. Il costo del ripristino non è affatto una modalità alternativa al ripristino, ma è la medesima cosa, salvo che è attuata da soggetto diverso, che poi pretende il pagamento delle spese sostenute.
Con la conseguenza che aver chiesto il ripristino è la stessa cosa che avere chiesto, dopo che tale pretesa è rimasta inadempiuta, il costo per provvedervi direttamente.
Cosi che, tra la richiesta fatta in vista della conciliazione (ripristino dei luoghi) e quella fatta con la domanda giudiziale (pagamento del costo di ripristino) non v’è affatto differenza, come potrebbe esservi tra due modalità alternative di un rimedio (risarcimento e reintegrazione), ma v’è conseguenzialità: non essendo adempiuta la richiesta di ripristino, il concedente può chiedere la condanna alla rifusione dei costi che deve sopportare lui per provvedervi direttamente.
Nè si può dire che, ed è la censura appartenente al secondo motivo, se fosse stata fatta la richiesta di pagamento dei costi in sede di conciliazione, i ricorrenti l’avrebbero accolta pagando il dovuto e sanando l’inadempimento, posto che il pagamento dei costi di ripristino, per la natura delle cose stesse, presuppone che si provveda al ripristino; non può offrirsi il pagamento di un costo di ripristino cui però non si provvede.
2.- I motivi terzo e quarto censurano violazione delle norme sulla legittimazione attiva (il terzo) e passiva (il quarto).
Sotto l’aspetto giuridico, trattandosi per il resto di censure in fatto, v’è da considerare che la società, per poter agire per il rilascio del fondo, previa risoluzione del contratto, non doveva dimostrare di essere proprietaria come assumono i ricorrenti, bensì titolare della posizione attiva del rapporto contrattuale di affitto. L’azione di risoluzione contrattuale presuppone che si abbia diritto fondato sul contratto e non sulla proprietà del bene, e cosi quella di rilascio, che è personale, e non reale.
Per il resto, la coincidenza del terreno occupato con le particelle indicate in domanda, è questione di fatto, risolta con motivazione sufficiente dalle corti di merito, e qui non censurabile.
Il ricorso va respinto e le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite, che liquida in complessive 5000,00 Euro, oltre 200,00 Euro di spese generali, dando atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.
Così deciso in Roma, il 4 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2019