Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.17078 del 26/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24204-2018 proposto da:

Q.A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato CLAUDINE PACITTI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE presso la CORTE SUPREMA di CASSAZIONE;

– intimato –

avverso il decreto n. RG. 54/2018 del TRIBUNALE, di CAMPOBASSO, depositato il 26/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/03/2019 dal Consigliere Relatore Dott. LAURA TRICOMI.

RITENUTO

CHE:

Il Tribunale di Campobasso, con il decreto in epigrafe indicato, ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione internazionale presentata da Q.A.G., proveniente dal Pakistan, il quale ha proposto ricorso per cassazione con un mezzo, corredato da memoria; il Ministero dell’Interno ha replicato con controricorso.

CONSIDERATO

CHE:

Il Collegio condivide la proposta di definizione della controversia notificata alla parte costituita nel presente procedimento, alla quale sono state mosse osservazioni critiche con la memoria, che si disattendono per le ragioni di seguito esposte.

Con l’unico motivo, il ricorrente si duole dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, lamentando la mancata valutazione della situazione di violenza ed instabilità diffusa in Pakistan, desumibile da fonti ufficiali quale il rapporto annuale di Amnesty International 2014/2015, ed in particolare nella regione di provenienza del Punjab, da cui si evidenzierebbe il grave rischio a cui andrebbe incontro in caso di rientro in patria.

Si duole, quindi, che il Tribunale abbia ritenuto lacunose e inattendibili le dichiarazioni del richiedente esclusivamente valutando quando riportato nel verbale di diniego, senza disporre l’audizione dello stesso, nè visionare la videoregistrazione del colloquio e sostiene che ciò costituirebbe violazione del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, conv. con modif., dalla L. 13 aprile 2017, n. 46. Lamenta, infine, che non si sia tenuto conto del suo inserimento nel mondo del lavoro dal settembre 2017.

Il motivo è inammissibile.

Innanzi tutto va osservato che il Tribunale, in applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 11, inserito dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, conv., con modif., dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, ha proceduto alla fissazione dell’udienza di comparizione delle parti e che non risulta, alla stregua del ricorso, che il richiedente abbia avanzato richiesta di audizione o altre richieste istruttorie.

Va quindi considerato che la pronuncia reiettiva è fondata sulla condivisione da parte del Tribunale del giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente in merito alle ragioni che lo avevano condotto all’espatrio.

In proposito va ricordato che tale ratio decidendi è da sola idonea a fondare la pronuncia, atteso che “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori.” (Cass. 27/06/2018, n. 16925, cfr. Cass. 30/10/2018, n. 27503) che non ricorre nel presente caso, ed il ricorrente non ha articolato alcuna specifica censura in merito.

A ciò va aggiunto che il vizio motivazionale dedotto non solo non risponde al modello legale (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014), giacchè non è indicato alcun fatto di cui sia stato omesso l’esame, ma non è nemmeno focalizzato su detta ratio decidendi e sulle dichiarazioni ed i fatti narrati dal richiedente: questi infatti si è limitato a lamentare che il Tribunale non abbia disposto l’audizione o visionato la videoregistrazione, senza illustrare quali elementi di fatto significati avrebbero potuto essere desunti all’esito di tali attività, posto che il Tribunale aveva provveduto a fissare, come prescritto, l’udienza di comparizione ed egli avrebbe avuto l’onere di avanzare eventuali richieste istruttorie proprio in fase di merito.

Con riferimento specifico alla protezione umanitaria è opportuno aggiungere che il ricorrente non ha allegato ragioni personali di vulnerabilità diverse da quelle esaminate per le altre forma di protezione e che la riscontrata non individualizzazione dei motivi umanitari non può esser surrogata dalla situazione generale del Paese, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti. La sentenza impugnata, peraltro, ha accertato l’insussistenza di condizioni di insicurezza in Pakistan, idonee ad integrare le fattispecie legali per il riconoscimento della protezione internazionale, con riguardo sia al pericolo di atti persecutori nei suoi confronti, sia alla violenza indiscriminata derivante da conflitto armato, sia implicitamente al rischio di subire la violazione dei diritti fondamentali. Si tratta, anche in tal caso, di un apprezzamento di fatto, con il quale è stato esclusa la sussistenza delle condizioni sostanziali per il riconoscimento della protezione richiesta, che impropriamente il ricorrente vorrebbe sovvertire, al di là di quanto consentito dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Va altresì osservato che anche il prospettato inserimento nel mondo del lavoro, ove riscontrato, non sarebbe sufficiente ad integrare i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria posto che “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.” (Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

– Dichiara inammissibile il ricorso;

– Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.100,00= oltre spese prenotate a debito;

– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 19 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2019

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