Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.17243 del 27/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. PERRINO Angel – Maria –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. MUCCI Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 22748/2015 R.G. proposto da:

AGMIN Italy srl rappresentata e difesa dagli avv. Gregorio Leone ed Aldo Bulgarelli, con domicilio eletto in Roma, via L. Luciani, n. 42, presso lo studio dell’avv. Lorenza Roberta Leone;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane e dei Monopoli, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

E contro

AGEA – Agenzia per le erogazioni in agricoltura- rappresentata e difesa dall’avv. Roberto Lucisano presso il cui studio è

domiciliata in Roma, via Crescenzio n. 91;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste del 19 novembre 2014, depositata il 24 febbraio 2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 21 febbraio 2019 dal Consigliere Enrico Manzon;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Kate Tassone, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del terzo motivo, assorbiti gli altri;

uditi gli Avv. Lorenza Roberta Leone in sostituzione dell’avv. Gregorio Leone, Fabio Cirulli in sostituzione dell’avv. Claudio Lucisano e Paolo Gentili,

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 19 novembre 2014, depositata il 24 febbraio 2015, la Corte d’appello di Trieste, giudicando in sede di rinvio, riformava la sentenza n. 230/2003 del Tribunale di Trieste e per l’effetto rigettava le domande (in principalità: accertamento negativo della sua titolarità passiva dell’obbligazione daziaria dedotta in lite; in subordine: diritto di rivalsa nei confronti di AGEA) proposte da AGMIN Italy srl nei confronti dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli e di AGEA – Agenzia per le erogazioni in agricoltura, accertando la legittimità delle pretese doganali oggetto della lite.

La Corte territoriale osservava in particolare:

-che originario oggetto della lite era la sussistenza e la titolarità passiva dell’obbligazione daziaria inerente l’importazione in Italia di un ingente quantitativo di latte prodotto in Ungheria (al tempo 2001- non ancora Stato membro dell’UE) e destinato ad essere devoluto alle persone bisognose, tramite Istituzioni caritative nazionali;

-che dopo alterni esiti dei primi due gradi di merito, la Corte di cassazione aveva statuito che detta obbligazione doganale sussisteva, posto che nel caso di specie non spettava l’esenzione daziaria pretesa dalla riassumente appellata, in quanto non applicabile l’art. 65 del Regolamento CEE n. 918/1983, quanto piuttosto il Regolamento CEE n. 3149/1992(entrambi inerenti le forniture alimentari benefiche, ma riguardando diverse fattispecie attuative di esse);

-che conseguentemente, in sede di rinvio trattavasi soltanto di stabilire chi fosse il titolare passivo dell’obbligo di pagamento delle imposte doganali inerenti l’importazione de qua, avendo il giudice di legittimità accolto la censura di vizio motivazionale su tale punto mossa alla prima decisione di appello;

-che, sulla base delle prove documentali in atti, dovendosi qualificare la fattispecie contrattuale tra AGMIN ed AGEA come “contratto atipico-misto” di fornitura/trasporto (del latte), non rilevando l’esistenza di accordi modificativi/integrativi successivi, fatta applicazione del Reg. CEE 3149/1992, non essendo dunque l’agenzia statale mai divenuta proprietaria delle merci importate prima della sua “comunitarizzazione”, tale obbligazione gravava esclusivamente sulla AGMIN quale fornitrice/importatrice delle merci stesse.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la AGMIN deducendo tre motivi.

Resistono con controricorso l’Agenzia delle dogane e dei monopoli e l’AGEA.

AGMIN ed AGEA successivamente hanno depositato una memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE Con il primo motivo -ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3- la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione dell’art. 4, Reg. CEE 3149/1992, poichè la Corte territoriale, affermata la piana applicabilità di tale fonte comunitaria a conseguenza della pronuncia di rinvio della Corte di cassazione (n. 11929/2012), le ha imputato la titolarità passiva dell’obbligazione daziaria oggetto di lite, escludendo che AGEA potesse divenire proprietaria del latte ungherese importato prima della sua immissione in “libera pratica” previo pagamento delle imposte doganali stesse.

In particolare AGMIN sostiene che, a causa di un vizio “genetico” del bando di gara che l’aveva vista vittoriosa, detto regolamento comunitario non sia invece applicabile nel caso di specie, posto che l’art. 4 dello stesso, prevede che alla gara per l’aggiudicazione della fornitura debbano partecipare il numero minimo di 3 offerenti, mentre nel caso di specie gli offerenti erano stati soltanto 2, essendo stato peraltro l’altro partecipante escluso dalla gara per aver presentato la propria offerta in modo formalmente irregolare. Ne deduce la ricorrente che, essendosi la gara svolta secondo modalità non corrispondenti alle disposizioni della fonte comunitaria de qua, il contratto dedotto in lite, indipendentemente dalla sua qualificazione, deve considerarsi sottratto a tale speciale disciplina. La censura è inammissibile.

La stessa infatti, come puntualmente dedotto dalle controricorrenti, si basa su di un’eccezione del tutto nuova ossia sul fatto che la gara che l’ha vista aggiudicataria della fornitura in oggetto sia illegittima e perciò annullabile, per difetto del numero minimo dei partecipanti.

Tale allegazione, da considerarsi indubbiamente quale eccezione in senso stretto, poichè amplia il perimetro fattuale del thema decidedum, non può certamente essere proposta per la prima volta in questo giudizio.

Con il secondo motivo -ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3- la ricorrente si duole della violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 6-7, art. 4, sub (recte, n.) 18, 201, Reg. CEE 2933 (recte, 2913) del 1992, poichè la Corte d’appello, sulla base di un’erronea qualificazione del rapporto contrattuale dedotto in lite, ne ha quindi tratto conseguenze giuridiche in contrasto con tali disposizioni legislative interne ed unionali.

In particolare AGMIN contesta la correttezza dell’affermazione del giudice del rinvio che la fattispecie negoziale in oggetto debba ricondursi ad un contratto “misto-atipico” di fornitura/trasporto di latte con la, pure avversata, conseguente deduzione che l’acquisto della proprietà della merce da parte di AGEA non poteva che seguire alla sua importazione e con la considerazione finale che l’obbligo di pagamento dei tributi doganali la gravasse in via esclusiva, quale proprietaria/importatrice della merce medesima.

Afferma di contro la ricorrente che il contratto dedotto in lite deve essere qualificato come compravendita di “cosa futura”, la quale essendo venuta ad esistenza presso il produttore ungherese (al tempo non ancora “comunitario”), in base al principio consensualistico ex art. 1376 c.c., nello stesso momento era passata in proprietà dell’acquirente AGEA in quel luogo “non territoriale”.

Sostiene peraltro AGMIN che anche se si dovesse ritenere che il contratto de quo integri la fattispecie della permuta, sempre in virtù di detto generale principio giuridico codicistico civile, il luogo di acquisto del latte da parte di AGEA era da affermarsi il medesimo.

Da tali considerazioni in ordine alla, diversa, qualificazione del rapporto contrattuale inter partes e quindi, in particolare e soprattutto della diversa individuazione del luogo di trasferimento della proprietà del latte all’agenzia pubblica acquirente, la ricorrente deduce anzitutto, la violazione da parte della Corte territoriale del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 6e 7, , in quanto, per un verso, secondo la prima disposizione legislativa, ai fini dell’IVA nei contratti di compravendita di cose mobili il “momento” di effettuazione dell’operazione imponibile si individua in quello della “consegna o spedizione”, essendo stato il latte spedito dall’Ungheria, in esecuzione del complementare contratto di trasporto stipulato inter partes; per altro verso, in base alla seconda disposizione legislativa, un’operazione può considerarsi “territoriale” solo se riguarda beni mobili “nazionali, comunitari o vincolati al regime della temporanea importazione”.

Secondo la medesima ricorrente infatti l’avvenuto acquisto da parte di AGEA del latte in Ungheria, mediante una conseguente e corretta applicazione delle due disposizioni legislative evocate, portava all’esclusione dell’imponibilità IVA delle cessioni, appunto per il difetto del presupposto generale della “territorialità”.

AGMIN sostiene peraltro anche la violazione dell’art. 201 CDC (vigente ratione temporis), essendo stata l’operazione di importazione del latte effettuata da AGEA, proprio perchè era divenuta proprietaria del latte al momento della sua produzione in Ungheria, non potendosi dunque in alcun modo attribuirle l’obbligazione daziaria corrispondente, unicamente gravante su AGEA, in detta qualità di proprietaria/importatrice delle merci in oggetto.

La ricorrente aggiunge un ulteriore profilo di violazione della normativa doganale unionale (applicabile ratione temporis) ed in particolare dell’art. 4 CDC, n. 18, , poichè nella bolletta doganale quale importatore è stato indicato AGEA e non avendo mai assunto essa ricorrente la qualità di “dichiarante”, prevista quale presupposto di quella di “debitore” dall’art. 201 CDC, comma 3,.

La censura è inammissibile e comunque infondata.

Va ribadito che “Nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata la qualificazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, ma debbono essere proposte sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., o dell’insufficienza o contraddittorietà della motivazione, e, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, debbono essere accompagnate dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti (la cui ricerca, che integra un accertamento di fatto, è preliminare alla qualificazione del contratto), al fine di consentire, in sede di legittimità, la verifica dell’erronea applicazione della disciplina normativa” (ex pluribus Cass. n. 13587 del 04/06/2010).

La critica mossa con il mezzo in esame alla operazione di ermeneusi qualificatoria negoziale della Corte d’appello di Trieste collide all’evidenza con tale principio di diritto.

La ricorrente infatti, senza alcuna specifica e puntuale denuncia circa la violazione delle regole codicistiche in materia di interpretazione dei contratti, propone una diversa valutazione del rapporto contrattuale dedotto in lite e la offre quale paradigma di revisione delle relative considerazioni di merito del giudice del rinvio, così, in sostanza, richiedendo un tipo di sindacato pacificamente non consentito nel giudizio di legittimità.

Va tuttavia comunque rilevato che il giudice del rinvio ha correttamente effettuato l’inquadramento giuridico della fattispecie, secondo la normativa, unionale ed interna, applicabile alla medesima, fedelmente seguendo le indicazioni della sentenza n. 11929/2012 di questa Corte.

Con tale pronuncia si è anzitutto statuito, irretrattabilmente, che la lex contratti è il Reg. 3149/1992, essendo accertato in fatto già dal primo giudice di appello che nel caso di specie si tratti di distribuzione di latte alle persone bisognose nel territorio comunitario, secondo una procedura pubblica di assegnazione dell’incarico di fornitura/trasporto mediante gara.

Nella sentenza questa Corte ha poi anche sancito che “In base alle disposizioni di tale Regolamento, le forniture di derrate alimentari nel caso latte – da distribuire ai bisognosi residenti nel territorio della CEE, dovevano essere acquisite dalle scorte d’intervento, “reperibili sul mercato comunitario”. Ne deriva che, alla stregua della disciplina comunitaria, specificamente applicabile, le operazioni di acquisizione e fornitura del latte, dovendosi, interamente, svolgere all’interno dei Paesi della Comunità, non ponevano problemi di importazione da paesi extracomunitari e, quindi, di pagamento di diritti doganali e, conseguentemente, escludevano l’esigenza di una disposizione pattizia che le stesse regolasse. Nè, a conclusioni diverse da quelle qui rassegnate, in adesione all’operato del Giudice di appello, può indurre l’allegata circostanza, che la società è stata nella necessità di procedere all’acquisto del latte in Paese extracomunitario (Ungheria), sia pure da stabilimento della Parmalat Italia, a motivo che nel territorio della comunità non era riuscita a rinvenire le quantità necessarie ad evadere l’impegno. A parte ogni considerazione circa la pertinenza e fondatezza di tale circostanza ed in ordine alla compatibilita dell’aggiudicazione con le regole fissate dal bando di gara, ritiene il Collegio, che la stessa, comunque, non possa assumere rilievo, agli effetti di che trattasi, tenuto conto che eventuali difficoltà di approvvigionamento afferiscono all’alea propria dell’attività imprenditoriale e che nel partecipare alla gara, indetta con bando pubblico prevedente espressamente acquisizioni di prodotti comunitari, era da tenere in conto anche il rischio, peraltro liberamente e volontariamente assunto con la formulazione dell’offerta, che sul territorio comunitario il dato prodotto non era reperibile e che lo stesso sarebbe stato prodotto e confezionato presso uno stabilimento della Parmalat Italia sito in Ungheria. In buona sostanza, la società, aveva ben chiaro che il bando di gara prevedeva che il latte venisse acquisito nell’ambito delle scorte comunitarie dei Paesi della Comunità Europea e, ciò nonostante, si è indotta a fare una “singolare” offerta nella quale veniva esplicitamente indicato che lo stabilimento di produzione e confezionamento del prodotto era quello della Parmalat Italia ubicato in paese extracomunitario, cioè Ungheria; offerta, peraltro, sulla base della quale veniva effettuata l’aggiudicazione e disposti i controlli ispettivi. Quindi una ponderata e precisa scelta imprenditoriale, della quale erano prevedibili conseguenze e possibili effetti, fra i quali quello, inevitabile in presenza di acquisizione extracomunitaria, del pagamento dei diritti doganali”.

Tali statuizioni sono state “ben lette ed applicate” dalla Corte territoriale, essendo chiaro che le medesime non potevano che limitare il, rinnovato, sindacato di merito del giudice del rinvio alla sussistenza di accordi sopravvenuti (implicante una valutazione della documentazione in atti, in quel primo giudizio di legittimità considerata omessa e quindi causante l’accoglimento della relativa specifica censura; v. infra) che avessero modificato le condizioni del bando di gara e della successiva aggiudicazione.

In altri termini deve comunque considerarsi preclusa dalla sentenza n. 11929/2012 di questa Corte una nuova valutazione qualificatoria della fattispecie contrattuale dedotta in lite sulla base del sinallagma genetico, quale scaturente dalla procedura di gara pubblica ed in particolare dalla aggiudicazione della commessa, non potendo essa che riflettere le disposizioni regolamentari comunitarie in applicazione delle quali la stessa è avvenuta.

Sicchè la qualificazione del contratto de quo come negozio atipico “misto” di fornitura (forse meglio, somministrazione) e trasporto di latte è non solo appunto del tutto coerente con le considerazioni giuridiche della sentenza di rinvio, ma anche del quadro normativo unionale di riferimento, non potendosene in alcun modo “geneticamente” configurare una compravendita ovvero una permuta.

In piena e fedele attuazione del Reg. CEE 3149/1992 I’AGEA doveva infatti procurare a soggetti bisognosi comunitari latte che loro sarebbe stato trasferito tramite Istituzioni preposte; in questo senso, come, lo si ripete, già affermato nella prima sentenza resa da questa Corte, l’agenzia pubblica non poteva avere se non un compito di intermediazione, secondo le sue finalità istituzionali, avvenendo il trasferimento della proprietà del latte direttamente dall’impresa fornitrice alle Istituzioni deputate alla successiva cessione dello stesso ai beneficiari finali.

Secondo questo preciso schema negoziale ed in base alla regola data dalla disciplina unionale di approvvigionamento “comunitario” del genere di prima necessità in questione, la prestazione di “fornitura” doveva essere assoggettata ad IVA, ovviamente assente ogni previsione relativa ai tributi doganali, che risultano dovuti solo a causa della scelta di AGMIN dell’approvvigionamento “extracomunitario”, che a quello schema negoziale/quella disciplina unionale risulta estraneo, ancorchè da essi non impedito.

Peraltro, come appena sopra accennato, la C.A. di Trieste ha altresì escluso che dagli atti si possa desumere che il sinallagma genetico, stipulato secondo la previsione regolamentare comunitaria, sia stato successivamente modificato/integrato nel senso patrocinato da AGMIN e questo accertamento di fatto non è tangibile ai fini dello scrutinio del mezzo de quo, quindi per valutare la sussistenza delle dedotte violazioni di legge, bensì, esclusivamente come appena sotto si illustrerà, in termini di vizio motivazionale.

Ne deriva pertanto l’insussistenza delle violazioni di legge interna (D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 6,7) ed Euro unitaria (art. 4 CDC, n. 18 e art. 201 CDC, comma 3) dedotte dalla ricorrente, essendo corretta l’esclusione da parte della Corte territoriale di qualsivoglia acquisto di AGEA del latte oggetto del contratto al di fuori del territorio unionale, con conseguente assoggettamento ad IVA della prestazione di AGMIN e correlativa assunzione da parte di essa della qualità di “importatore”, pertanto, come tale, soggetto passivo dei tributi doganali pretesi dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli.

Con il terzo motivo -ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5- la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione tra le parti, poichè la Corte d’appello di Trieste, inottemperando il dictum della sentenza n. 11929/2012 di questa Corte, non ha valutato adeguatamente e congruamente le evidenze documentali di causa e ne ha conseguentemente distorto il proprio giudizio di merito specificamente sul punto dell’acquisizione della proprietà di AGEA del latte fornito suo tramite già presso gli impianti produttivi ungheresi.

In particolare AGMIN incentra il mezzo sull’omessa valutazione del verbale di aggiudicazione definitiva e sul contratto, complementare a quello di fornitura, di trasporto del latte; critica peraltro anche la valutazione data dal giudice del rinvio in ordine alla ricusazione opposta da AGEA della sua fattura “IVA esclusa” e del contratto de quo nella parte riguardante il controllo di qualità del latte devoluto ad un’impresa terza (Bureau Veritas srl).

La censura è inammissibile e comunque infondata.

Va anzitutto premesso e ribadito che “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014).

La motivazione della sentenza impugnata esula senz’altro dai paradigmi di patologia processuale individuati nel principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale.

Peraltro, la C.A. triestina, inevitabilmente ferma -come detto sopra-la sussunzione del quadro contrattuale originario nella disciplina del Reg. CEE 3149/1992 e quindi confermata l’irrilevanza contrattuale dell’origine della merce, al fine commessole di valutare la sussistenza di accordi successivi modificativi/aggiuntivi in ordine alla cessione della merce stessa in Ungheria (all’epoca non facente parte dell’UE) al fine della territorialità IVA e del pagamento dei dazi, ha compiutamente analizzato le fonti probatorie documentali che le sono state specificamente indicate nella sentenza di rinvio.

La Corte territoriale infatti ha, puntualmente, considerato:

– la lettera di aggiudicazione definitiva, escludendone la cessione della merce de qua “allo stato estero”, dunque senza IVA D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 7, quindi traendone il convincimento che la cessione della merce medesima doveva avvenire in Italia;

– la fattura AGMIN (n. 64/2001 del 27 agosto 2001) contrastante con tale previsione di aggiudicazione, affermandone l’unilateralità, quindi l’irrilevanza contrattuale, anche a fronte di una pronta risposta ricusativa di AGEA;

– l’effettuazione di controlli di qualità sul latte e le condizioni del trasporto, negandone l’efficacia probatoria a sostegno della tesi dell’appellata/riassumente che il latte fosse ceduto ad AGEA in Ungheria.

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 10.000 per ciascuna controricorrente oltre spese prenotate a debito per l’Agenzia delle dogane e dei monopoli ed oltre 1 5 % per contributo spese generali ed accessori di legge per AGEA.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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