LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –
Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –
Dott. NOCELLA Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24824/2016 R.G. proposto da:
BETA IMMOBILIARE srl, subentrante alla SPORTING CLUB srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv. Franco Gallo e Federico Carpi, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via Giuseppe Mazzini n. 9/11;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna n. 1787/1/16 del 16 luglio 2015, depositata il 29 giugno 2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 marzo 2019 dal Consigliere Enrico Manzon.
RILEVATO
che:
Con sentenza n. 1787/1/16 del 16 luglio 2015, depositata il 29 giugno 2016, la Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. 275/6/13 della Commissione tributaria provinciale di Ferrara che aveva accolto i ricorsi proposti da Sporting Club srl contro gli avvisi di accertamento per II.DD. ed IVA 2004-2005.
La CTR, per ciò che qui rileva, in difformità totale rispetto a quanto opinato dai primi giudici, osservava che il quadro indiziario complessivo sul quale si basavano gli atti impositivi impugnati induceva a ritenere fondata in fatto la tesi agenziale dell’inesistenza delle operazioni commerciali (vendita di prodotti per l’edilizia) oggetto delle pretese erariali.
Il giudice tributario di appello, in particolare, rilevava che la venditrice/fatturante Eurogroup srl si era apparentemente approvigionata da società facenti capo a V.G. che erano però risultate prive di struttura amministrativa/operativa, sicchè potevano essere considerate società c.d. “cartiere”; che un altro preteso fornitore ( Z.L.B.) si era dichiarato mero prestanome, mentre altri “fornitori” indicati nelle fatture avevano escluso ogni rapporto con la società; che vi era una sostanziale coincidenza tra i materiali che Eurogroup aveva contabilizzato in acquisto dalle imprese presunte fornitrici e quelli che aveva poi fatturato in vendita alle società del “Gruppo T.” (di cui pacificamente faceva parte l’appellata), per cui si doveva presumere che si trattasse degli stessi materiali; che conseguentemente si doveva ritenere che Eurogroup in parte utilizzasse le fatture di acquisto fittizie per proprie indebite deduzioni/detrazioni (rispettivamente ai fini delle II.DD. e dell’IVA) ed in parte – nettamente prevalente – “filtrasse” tali fatture alle società del “Gruppo T.”; che l’assunto era corroborato dalle consonanti dichiarazioni del V. e dello Z., in quanto il primo non era stato in grado di indicare ove fosse la documentazione contabile afferente alle attività delle sue “aziende”, mentre il secondo aveva ammesso di essere un mero prestanome, a copertura della fittizietà dei rapporti commerciali tra Eurogroup e le società da lui rappresentate.
Specifica attenzione la CTR dedicava poi al valore probatorio delle dichiarazioni rese alla GdF da M.S., già dipendente di Eurogroup, affermandone la piena attendibilità, e concludeva pertanto per l’adeguato assolvimento da parte dell’Agenzia delle entrate dell’onere probatorio, che le gravava, in ordine alla “inesistenza” soggettiva delle operazioni oggetto delle riprese fiscali.
Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione Beta Immobiliare srl, quale incorporante della società contribuente verificata, deducendo nove motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
La ricorrente successivamente ha depositato una memoria.
CONSIDERATO
che:
Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112, c.p.c., poichè la CTR ha omesso di pronunciare in ordine all’eccezione, da essa sollevata in primo grado e specificamente riproposta in appello, di inapplicabilità nel caso di specie della speciale disciplina c.d. del “raddoppio dei termini” di decadenza per l’emissione dell’atto impositivo di recupero delle II.DD. e dell’IVA o, in subordine, quantomeno dell’IRAP, così peraltro violando le modifiche alla stessa introdotte con la legge di stabilità per il 2016 (L. 208 del 2015, art. 1, comma 132);
Va premesso che il motivo muove da un’esatta constatazione, atteso che la sentenza impugnata non contiene alcuna traccia di argomentazione, nemmeno “narrativa”, sull’eccezione de qua.
Va tuttavia ricordato che “Alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando il vizio concerna una questione di diritto, sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (Cass. nn. 21257/ 2014; 21168/2015).
Il principio va applicato nel caso di specie, posto che, non essendo in contestazione che gli avvisi riguardino le annualità 2004/2005 e che siano stati notificati il 17-18 maggio 2011, risulterebbe del tutto inutile cassare sul punto la sentenza impugnata e rinviare al giudice tributario di appello per l’esame della questione.
Ciò precisato, l’eccezione è infondata con riguardo all’IVA ed all’IRES.
Va infatti ribadito, in adesione all’indirizzo costante e consolidato di questa Corte, che:
– “In tema di accertamento tributario, i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per l’IRPEF e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, per l’IVA, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza (fra molte, Cass. nn. 9322 del 11/04/2017, 10345 del 26/04/2017; 23628 del 09/10/2017), senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, il cui art. 1, comma 132, ha introdotto, peraltro, un regime transitorio che si occupa delle sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio – non oggetto di abrogazione – di cui al D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, comma 3, in virtù del quale la nuova disciplina non si applica nè agli avvisi notificati entro il 2 settembre 2015 nè agli inviti a comparire o ai processi verbali di constatazione conosciuti dal contribuente entro il 2 settembre 2015 e seguiti dalla notifica dell’atto recante la pretesa impositiva o sanzionatoria entro il 31 dicembre 2015" (Cass. nn. 16728 del 9/8/2016, 26037 del 16/12/2016, 11620 del 14/5/2018).
Nella specie è pacifico che la fattispecie dedotta in causa fosse astrattamente sussumibile in una previsione incriminatrice penale tra quelle che provocano l’effetto del “raddoppio dei termini” (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2), che peraltro è stata effettivamente contestata ai legali rappresentanti della società contribuente, e che gli avvisi sono stati emessi prima del 31 dicembre 2015: la ricorrente sostiene dunque a torto che l’Agenzia fosse decaduta dal proprio potere di accertamento in materia di II.DD. ed IVA.
E’ invece fondato il profilo della censura de qua che concerne l’IRAP, dovendosi dare seguito all’ulteriore principio di diritto per il quale “In tema di accertamento, il cd. “raddoppio dei termini”, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43,non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poichè le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali” (Cass. n. 10483 del 03/05/2018).
Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112, c.p.c., poichè la CTR non si è pronunciata sulla sua eccezione di invalidità degli avvisi di accertamento impugnati a causa della violazione del principio, anche unionale, dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, non essendovi nella motivazione di tali atti impositivi alcun riscontro alle controdeduzioni formalmente da essa espresse in sede di verifica.
In via preliminare, poichè la CTR non ha esaminato l’eccezione, deve richiamarsi il principio di diritto, già citato in sede di esame del primo mezzo, secondo cui, qualora il vizio di omessa pronuncia riguardi una questione di puro diritto, in osservanza dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, questa Corte può decidere nel merito, evitando la cassazione con rinvio della sentenza impugnata.
Ciò posto, rispetto alla critica in esame è sufficiente ribadire che “In tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente della L. n. 212 del 2000, ex art. 12,comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo” (Cass. n. 8378 del 31/03/2017).
Ne deriva che gli atti impositivi de quibus non possono essere ritenuti invalidi a causa della mancata specifica indicazione delle ragioni di rigetto delle argomentazioni difensive endoprocedimentali della società contribuente.
Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39,D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54,artt. 2697 e 2729 c.c., poichè la CTR ha disatteso, per un verso, le regole, generali e speciali, in ordine agli oneri probatori gravanti sulle parti in caso di “inesistenza soggettiva” della fatturazione e, per altro verso, i criteri valutativi legali della prova indiziaria. Con il quinto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione/falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, affermando la natura “meramente apparente” della motivazione della sentenza medesima con particolare riguardo alla fittizietà soggettiva delle operazioni di cui alle fatture in contestazione.
Con l’ottavo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – la ricorrente si duole dell’omesso esame del fatto decisivo, discusso tra le parti, costituito dalla natura operativa di Eurogroup.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono infondate. Deve infatti affermarsi che il giudice tributario di appello ha fatto corretta applicazione delle norme in materia di oneri probatori e di valutazione delle prove indiziarie circa l’inesistenza soggettiva delle operazioni fatturate oggetto delle riprese fiscali, esponendo argomenti che, pur con varie imprecisioni lessicali e non senza qualche – non decisiva – lacuna, sono comunque rappresentativi di un ragionamento sufficientemente chiaro e conseguenziale. Non sussistono dunque nè le denunciate violazioni di legge nè i dedotti vizi motivazionali, giacchè al contrario la motivazione della sentenza impugnata risulta soddisfare quantomeno il “minimo costituzionale” del relativo obbligo (cfr. Cass. Sez. U, n. 8053/2014).
Come detto, oggetto essenziale della lite in esame è la contestazione da parte dell’Agenzia delle entrate dell'”inesistenza soggettiva” delle fatture emesse da Eurogroup nei confronti di Sporting Club negli anni d’imposta 2004-2005.
La CTR emiliana ha affermato la fondatezza della pretesa erariale rilevando:
– che i “fornitori” di Eurogroup V.G. e Z.L.B. dovevano considerarsi titolari di società/imprese “cartiere”, ossia non esistenti/non operative, in quanto il primo non risultava avvalersi di alcuna struttura aziendale idonea a realizzare gli scambi di merce fatturati alla Eurogroup, peraltro sua unica cliente e, inoltre, non aveva fornito alcuna valida spiegazione del mancato rinvenimento, in sede ispettiva, della gran parte della contabilità delle sue imprese, mentre il secondo aveva addirittura dichiarato di essere un mero prestanome;
– che altri pretesi “fornitori” di Eurogroup avevano negato di avere mai avuto rapporti con la medesima;
– che pertanto, essendo la gran parte delle fatture annotate dalla Eurogroup relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, nonostante l’accertata sussistenza di una sua struttura operativa, essa doveva essere ritenuta – nella sostanza ed in larga misura – una “società cartiera” ossia meramente interposta nella cessione delle merci de quibus;
– che vi era una elevata coincidenza quantitativa tra gli acquisti fatturati da Eurogroup e le vendite dalla stessa fatturate alle società del “Gruppo T.”, tra le quali Sporting Club, sicchè risultava fondata la presunzione che si trattasse delle stesse merci;
– che dunque, in ultima analisi, era fondata la presunzione che le fatture emesse da Eurogroup a carico di Sporting Club fossero relative ad operazioni inesistenti, almeno “soggettivamente”, come contestato a quest’ultima dall’agenzia fiscale.
Il giudice tributario di appello ha ulteriormente suffragato il proprio ragionamento inferenziale con la valutazione delle dichiarazioni di M.S., ex dipendente di Eurogroup, la quale aveva dichiarato alla GdF di non aver provveduto alle registrazioni contabili dei documenti inerenti i rapporti di fornitura che le venivano indicati dai verificatori, essendole stato detto da F.G., vero dominus della società, che le merci erano state consegnate dai fornitori direttamente nei cantieri del “Gruppo T.” presso *****.
Dal descritto complessivo quadro indiziario, la CTR emiliana ha quindi tratto il convincimento che l’onere probatorio dell'”inesistenza soggettiva” delle fatture in contesto, correttamente affermato quale gravante sull’Agenzia delle entrate, fosse stato adeguatamente assolto, constatando di contro che la società contribuente non aveva adempiuto a quello proprio della prova contraria.
Tale percorso argomentativo, ancorchè in qualche punto confuso ed impreciso, assolve, come detto, l’obbligo motivazionale del giudice tributario di appello ed è peraltro osservante del principio di diritto che “In tema di prova per presunzioni, il giudice, dovendo esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento” (Cass. n. 5374 del 02/03/2017).
Nella sentenza impugnata vi è infatti dapprima una esposizione analitica, anche se non particolarmente ordinata, delle prove presuntive e quindi una loro valutazione d’assieme, appunto come prescrive il principio di diritto appena sopra citato e ribadito.
Il che, dunque, esclude la fondatezza del terzo motivo, in parte qua, e dell’ottavo motivo, in ordine ai quali va specificamente rilevato, rispettivamente:
– che le dichiarazioni M. sono state valutate dal giudice tributario di appello unitariamente agli altri indizi indicati;
-che la natura “non operativa” di Eurogroup è stata compiutamente esaminata dalla CTR emiliana e quindi tutt’affatto omessa nello sviluppo argomentativo della sentenza impugnata.
Nè d’altro canto può in alcun modo ritenersi che, come denunciato (anche) nel terzo motivo, la CTR emiliana abbia illegittimamente invertito gli oneri probatori gravanti sulle parti in tema di “inesistenza soggettiva” delle operazioni fatturate: il giudice ha infatti correttamente attribuito all’agenzia fiscale la prova (che può essere fornita anche in via presuntiva) della natura di “cartiera” della società emittente delle fatture e la prova contraria alla società contribuente.
Sicchè, in ultima analisi, le censure in esame, attraverso la deduzione di violazioni di legge, in realtà “mascherano” una richiesta di revisione del giudizio di merito di secondo grado, pacificamente inibita a questa Corte, secondo il consolidato principio di diritto per cui “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. n. 9097 del 07/04/2017).
Resta assorbito il settimo motivo di ricorso, con il quale – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione degli artt. 115 e 116, c.p.c., artt. 2697 e 2729 c.c., poichè la CTR ha, tra l’altro, affermato che le dichiarazioni rese da M.S. alla GdF “di per sè” possono essere considerate come prova sufficiente della inesistenza soggettiva delle fatture oggetto di questo processo, posto che, a prescindere dall’effettiva erroneità di tale affermazione, il giudice ha in realtà ritenuto raggiunta detta prova sulla scorta del complesso degli elementi presuntivi offerti dall’Agenzia.
Con il quarto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 21, artt. 2697 e 2729 c.c., poichè la CTR non ha compiutamente riscontrato l’adeguato assolvimento da parte dell’Agenzia delle entrate del proprio onere di provare la consapevolezza di Sporting Club dell'”inesistenza soggettiva” delle operazioni di cui alle fatture in oggetto.
La censura è fondata.
Va anzitutto ribadito e dato seguito al principio di diritto che “In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Sez. 5, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018).
In riscontro alla critica in esame, si tratta dunque di verificare se la sentenza impugnata si uniformi a tale arresto giurisprudenziale, sinteticamente rappresentativo della corretta interpretazione delle evocate disposizioni legislative in ordine alla detraibilità/indetraibilità dell’IVA e della correlata giurisprudenza unionale ed interna di legittimità.
Orbene, deve affermarsi che ciò non è avvenuto, in quanto la CTR non ha chiaramente indicato le ragioni per le quali gli amministratori della società contribuente “sapevano o avrebbero dovuto sapere”, secondo la specifica diligenza richiesta dalla loro qualifica professionale, che si trattava di fatture per operazioni “soggettivamente” inesistenti.
E’ evidente, infatti, che la prova di tale consapevolezza non può trarsi dalla sostanziale coincidenza dell’ammontare globale delle false fatture d’acquisto annotate da Eurogroup con quello delle fatture di vendita dalla stessa emesse nei confronti delle società del “Gruppo T.”, atteso che tale circostanza costituisce mero presupposto oggettivo, indispensabile per poter ipotizzare la partecipazione delle acquirenti alla frode, che prova unicamente il dato, non contestato, della continuità dei rapporti di fornitura. L’unico elemento di prova specifica della conoscenza in capo all’amministratore di Sporting Club dell’inesistenza soggettiva delle operazioni fatturate valorizzato dal giudice d’appello è dunque costituito dal fatto che presso il F. (come detto, dominus di Eurogroup) erano stati trovati assegni per un importo di 2.000.000 di Euro intestati a T.G. (a sua volta qualificato come dominus dell’omonimo gruppo di imprese), che la GdF aveva ipotizzato essere “garanzie” per la restituzione delle somme fittiziamente indicate a debito nelle false fatture in oggetto: a dire della CTR l’emissione degli assegni, la cui finalità non era stata giustificata da Sporting Club, integrerebbe circostanza presuntiva idonea a dimostrare la partecipazione attiva della società alle operazioni illecite.
Sennonchè, al di là del rilievo che la CTR non ha accertato se, all’epoca delle operazioni, Sporting Club fosse direttamente amministrata da T.G. o, comunque, da un soggetto che ne era mero prestanome o che era a perfetta conoscenza degli ipotizzati traffici fra questi e il F. (e che dunque non ha chiarito perchè l’allora appellata avrebbe dovuto essere in grado di indicare qual era la causale sottostante all’emissione dei titoli), resta che il rinvenimento degli assegni – di importo assai modesto rispetto all’entità della frode prospettata – risulta dato indiziario non univoco, che, in mancanza di ulteriori riscontri, non è di per sè stesso dotato dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza necessari a ritenere raggiunta la prova presuntiva della conoscenza da parte del legale rappresentante della società della diversa provenienza, “in nero”, dei materiali apparentemente forniti da Eurogroup ed a giustificare, pertanto, l’inversione dell’onere probatorio sul punto.
Con il sesto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – la ricorrente si duole dell’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, poichè la CTR non ha preso in considerazione la sentenza del Tribunale penale di Ferrara con la quale sono stati assolti tutti gli amministratori delle società del “Gruppo T.”.
La censura, che va più correttamente qualificata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è fondata.
Va premesso e ribadito in diritto che:
– “Nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perchè il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare” (Cass., n. 10578 del 22/05/2015, Rv. 635637 – 01; Cass. n. 5720 del 2007);
La CTR emiliana era dunque tenuta a valutare specificamente, ancorchè al fine della formazione del proprio “libero convincimento”, la sentenza penale assolutoria degli amministratori delle società del “gruppo T.”, mentre ne ha totalmente omesso l’esame.
Va in proposito precisato che non può certo ritenersi che la sentenza sia stata esaminata, per così dire, indirettamente con la valutazione dell’omologa sentenza di condanna – per il correlato reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, – dei responsabili della “cartiera” Eurogroup ( B. e F.) e ciò proprio per la rilevanza delle valutazioni meritali in ordine alla “dimensione soggettiva” dell’illecito fiscale addebitato in questa sede processuale alla società contribuente, sul quale si è detto esaminando il quarto motivo ed affermandone la fondatezza.
Con il nono motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 345, c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, ed in via subordinata lamenta la violazione/falsa applicazione del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 2, TUIR, art. 109,D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, poichè la CTR non ha affermato l’inammissibilità, per “novità”, dell’eccezione di mancanza di certezza/effettività dei costi esposti nelle fatture in contestazione e comunque non ha nel merito statuito la deducibilità dei costi medesimi dalla base imponibile delle imposte dirette.
Non può ritenersi fondato il profilo processuale della censura, posto che la contestazione della certezza, inerenza e determinabilità dei costi rappresentati dalle fatture in esame non è affatto una “nuova eccezione” dell’agenzia fiscale, bensì una mera difesa, la cui proposizione non rientra dunque nel perimetro del divieto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57.
Come correttamente controdedotto dall’Agenzia delle entrate, la “non deducibilità” ai fini delle imposte dirette di tali costi è infatti oggetto di una delle riprese fiscali portate dagli avvisi di accertamento impugnati, sicchè, secondo la consolidata configurazione giurisprudenziale della formazione progressiva/delimitazione dell’oggetto delle liti tributarie di impugnazione, tale thema decidendum rientra in quello della presente lite sin dalla fase preprocessuale e quindi ne determina, unitamente ai motivi del ricorso originario della società contribuente, i confini decisionali.
Pertanto la questione della “certezza, inerenza, determinabilità” dei costi de quibus posta specificamente con il gravame agenziale alla sentenza della CTP ferrarese, non costituisce altro che la specificazione di una delle causae petendi cristallizzata negli atti impositivi impugnati.
Di contro deve affermarsi la fondatezza del secondo profilo della censura, essendo sussistente la dedotta violazione di legge.
Va infatti ribadito e dato seguito al principio che “In tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis, (nella formulazione introdotta con il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, conv. in L. 26 aprile 2012 n. 44), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale “ius superveniens” con efficacia retroattiva “in bonam partem”, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo” (Cass. n. 26461 del 17/12/2014; successive conformi, Cass. nn. 25249 del 07/12/2016, 27566 del 30/10/2018). Il giudice tributario di appello, che ha omesso ogni espressa pronuncia al riguardo, avrebbe dunque dovuto valutare se ricorrevano i presupposti della deducibilità di tali costi, tenuto conto delle eventuali contestazioni svolte sul punto dell’agenzia fiscale.
In conclusione, vanno accolti il primo motivo limitatamente all’IRAP, il quarto, il sesto, il nono motivo in relazione al secondo, subordinato, profilo e rigettati gli altri motivi; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio al giudice a quo per nuovo esame. Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto, il sesto e, nei limiti di cui in motivazione, il primo ed il nono motivo del ricorso, assorbito il settimo motivo e rigetta nel resto;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 12 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019