Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.17285 del 27/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 16167/18 proposto da:

A.T., elettivamente domiciliato in Forlì, Viale Giacomo Matteotti n. 105, presso l’avvocato Francesco Roppo, che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna del 4 dicembre 2017 n. 2879;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 9 aprile 2019 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2015 A.T., cittadino maliano, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4 (la data della richiesta non è precisata nel ricorso per cassazione):

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. A fondamento dell’istanza dedusse che, a causa della guerra civile scoppiata in Mali, fu costretto insieme ai genitori a fuggire dalla città di Gao, dove risiedevano i genitori, verso la capitale Bamako; che durante il viaggio l’intera famiglia venne catturata dai ribelli; i genitori vennero separati da lui e uccisi, mentre egli venne rinchiuso in un campo e costretto all’addestramento militare; che riuscì fortunosamente a fuggire da tale campo ed a raggiungere la Libia; dopo essere stato costretto a lavorare senza paga per tre mesi, riuscì a salire su una imbarcazione diretta in Italia; che non potrebbe ornare in Mali sia a causa del conflitto, sia perchè ivi non ha più alcun familiare.

3. La Commissione Territoriale rigettò l’istanza con provvedimento del 24.7.2015.

Avverso tale provvedimento A.T. propose ricorso dinanzi al Tribunale di Bologna, che lo accolse con ordinanza 11.7.2016, accordando all’istante il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

4. L’ordinanza venne impugnata dal Ministero dell’interno in via principale (con intervento adesivo della Procura Generale), e da A.T. in via incidentale. Il primo si dolse dell’accoglimento dell’opposizione, il secondo del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione internazionale D.Lgs. n. 251 del 2007, ex artt. 7 e 14.

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza 4.12.2017, accolse il gravame principale e rigettò l’incidentale.

La Corte d’appello ritenne che il racconto del ricorrente non fosse attendibile, perchè incoerente nelle date; non verosimile nei tempi e nei luoghi; non razionalmente spiegabile in alcuni suoi snodi.

5. La sentenza è stata impugnata per cassazione da A.T. con ricorso fondato su tre motivi ed illustrato da memoria, irricevibile perchè depositata fuori termine.

Il Ministero dell’Interno non si è difeso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, nonchè l’omesso esame d’un fatto decisivo.

Sostiene che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto lacunoso e non credibile il suo racconto, poichè le imprecisioni sulle date rilevate dal giudice di merito erano state minime; e comunque deduce che la Corte d’appello, prima di concludere per l’inattendibilità dell’intero racconto, avrebbe dovuto convocare il ricorrente ed interrogarlo.

1.2. Nella parte in cui lamenta l’omesso esame del fatto decisivo il motivo è inammissibile, non essendo stata la suddetta omissione nè prospettata con i criteri stabiliti dalle sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014, secondo cui la censura in esame deve recare la chiara indicazione di quale fatto sia stato trascurato, quando e da chi sia stato dedotto in giudizio, come sia stato provato, perchè sia rilevante); nè tanto meno illustrata.

1.3. Nella parte in cui lamenta la violazione di legge, l’inammissibilità del motivo è svelata dalla sua stessa intitolazione: il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, infatti, è norma che demanda al giudice di merito un tipico accertamento di fatto: con la conseguenza che tale norma non può dirsi violata sol perchè il giudice di merito ritenga inveritiero o inattendibile la versione dei fatti prospettata dal richiedente asilo, come più vote ritenuto da questa Corte (ex multis, Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 02; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 16925 del 27/06/2018, Rv. 649697 – 01).

1.4. Nella parte invece in cui lamenta la mancata audizione del richiedente da parte della Corte d’appello, la censura è infondata.

Il giudizio di opposizione alle decisioni della Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale era disciplinato, in origine, dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35. Tale norma prevedeva espressamente, al comma 10, che il Tribunale decidesse sull’opposizione “sentite le parti”, mentre il successivo comma 13 estendeva tale previsione ai giudizi d’appello.

In seguito del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, i commi 10 e 13, vennero abrogati dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 34, comma 20, lett. (c) e la materia venne disciplinata dall’art. 19 di quest’ultimo decreto, il quale non previde più espressamente l’obbligo del Tribunale di “sentire le parti”, limitandosi a stabilire che l’impugnazione della decisione della Commissione Territoriale avvenisse con le forme del rito sommario, le quali (artt. 702 bis e 702 ter c.p.c.) non prevedono affatto l’obbligo del giudice di sentire le parti personalmente.

Tale norma, oggi pur essa abrogata, era quella vigente all’epoca in cui il giudizio di opposizione venne introdotto dall’odierno ricorrente (2015).

Da un lato, dunque, in base al diritto applicabile ratione temporis la Corte d’appello non aveva l’obbligo di sentire le parti, ma solo la facoltà di farlo; dall’altro lato, l’eventuale cattivo esercizio di tale facoltà da parte del giudice d’appello non potrebbe essere sindacato in questa sede, riguardando un atto rimesso alla discrezionalità del giudice di merito (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 3003 del 07/02/2018, Rv. 647297 – 01); in terzo luogo qualsiasi eventuale nullità processuale verificatasi nel corso del giudizio d’appello, per potere condurre alla cassazione della sentenza impugnata, deve aver prodotto un vulnus alle ragioni della difesa di chi la invoca, pregiudizio che nel caso di specie non viene neanche prospettato.

Non sarà superfluo aggiungere che l’odierno ricorrente venne interrogato dal giudice di primo grado (lo dichiara lui stesso nel ricorso), sicchè non potrebbe oggi dolersi nè di non essere stato messo in condizione di rappresentare personalmente le proprie istanze all’organo giudicante.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta sia la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19; sia l’omesso esame d’un fatto decisivo.

Con riferimento al diniego della protezione internazionale e di quella sussidiaria, sostiene il ricorrente che il Mali è un paese in guerra; che il rischio di atti violenti e di terrorismo è esteso a tutto il territorio dello Stato; che ciò risultava dai rapporti di due organizzazioni internazionali prodotti nei gradi di merito (Amnesty International e Human Right), e che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto il contrario (ff. 7-8 del ricorso, le cui pagine non sono numerate).

2.2. Con riferimento al diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari, il ricorrente deduce che la Corte d’appello avrebbe commesso un errore di diritto nel ritenere insussistenti i motivi che ne giustificassero la concessione: sia per non avere tenuto conto delle condizioni del Mali, già richiamate; sia per non avere tenuto conto dell’avvenuto inserimento sociale del ricorrente.

2.3. La censura di omesso esame del fatto è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, perchè non viene illustrata.

2.4. Le rimanenti censure sono inammissibili.

Lo stabilire, infatti se sussistano o non sussistano motivi per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari è un accertamento di fatto, e il giudice di merito non viola certo la legge per il solo fatto di avere ritenuto quei motivi insussistenti. La sentenza appellata, inoltre, dà conto delle fonti da cui ha tratto il proprio convincimento, con la conseguenza che, da un lato, non è imputabile alla Corte d’appello alcun deficit nell’attivazione dei propri poteri istruttori officiosi, e dall’altro che lo stabilire se quelle fonti fossero davvero attendibili ed aggiornate è questione di merito, esulante dal perimetro del giudizio di legittimità.

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,7 e 14.

Deduce che la situazione del Mali, ed il conflitto ivi esistente, lo espone al rischio di nocumento per la vita e per la salute, e sussistevano di conseguenza i presupposti per l’accoglimento della domanda di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14.

3.2. Anche questo motivo è inammissibile, per le medesime ragioni già esposte a confutazione del secondo motivo: anch’esso, infatti, censura un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in questa sede.

4. Le spese.

4.1. Non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio della parte intimata.

4.2. La circostanza che il ricorrente sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato esclude l’obbligo del pagamento, da parte sua, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17), in virtù della prenotazione a debito prevista dal combinato disposto di cui agli artt. 11 e 131 del decreto sopra ricordato (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 9538 del 12/04/2017, Rv. 643826 – 01).

P.Q.M.

la Corte di Cassazione:

(-) rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, il 9 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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