LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17266-2018 proposto da:
M.J., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIPITONE GIACOMO;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 967/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 14/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/03/2019 dal Consigliere Relatore Dott. TERRUSI FRANCESCO.
RILEVATO
Che:
la corte d’appello di Palermo ha respinto il gravame di M.J. contro la decisione del tribunale della stessa città, di rigetto della domanda di protezione internazionale;
il predetto ricorre per cassazione con due motivi;
il ministero dell’Interno ha replicato con controricorso.
CONSIDERATO
Che:
col primo mezzo sono dedotti la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, per il mancato riconoscimento della protezione umanitaria e il vizio di motivazione della sentenza al riguardo;
il motivo è inammissibile per genericità, non essendo neppure aderente alla ratio della sentenza;
la corte d’appello ha respinto la doglianza sollevata osservando che non erano state prospettate “particolari individualizzate condizioni di vulnerabilità, aventi carattere temporalmente limitato e non adeguatamente tutelabili nel paese di origine”;
in pratica, la corte d’appello ha negato il fondamento della domanda mettendo in evidenza un difetto di allegazione;
è appena il caso di considerare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la domanda diretta a ottenere il riconoscimento della protezione internazionale, nelle sue distinte forme, non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (v. Cass. n. 27336-18, Cass. n. 19197-15); il che ancor più rileva per la protezione umanitaria, essendo codesta correlabile (secondo la versione normativa anteriore al D.L. n. 113 del 2018) a situazioni personali di vulnerabilità;
ciò stante, il primo motivo di ricorso si palesa completamente avulso da quanto evidenziato dal giudice del merito;
in termini di puro astrattismo, esso manca di riferimenti a ciò che in effetti era stato dedotto a fondamento della domanda, con conseguente violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3, negativamente rilevante proprio a petto di quanto affermato dall’impugnata sentenza;
col secondo motivo il ricorrente denunzia “l’illegittimità dell’ordinanza” (rectius sentenza) per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e per vizio di motivazione a proposito dell’erronea valutazione dell’onere probatorio;
sostiene che la situazione socio-politica dei paesi africani, e in particolare della Libia, paese di transito nel quale il ricorrente aveva vissuto per nove mesi, era in sè sufficiente a giustificare il riconoscimento della protezione internazionale; inoltre sostiene che, a fronte di torture e sevizie inflitte ai migranti in quel paese, sarebbe in sè da riconoscere la protezione umanitaria;
il motivo è inammissibile;
la doglianza involgente la protezione internazionale si infrange con un giudicato interno ostativo, visto che dalla sentenza si evince che la domanda era stata respinta dal tribunale e che l’appello era stato proposto solo in relazione alla protezione umanitaria;
la doglianza involgente la protezione umanitaria è generica esattamente come la precedente, postulando apprezzamenti di merito su fatti (la permanenza in Libia e la sottoposizione a torture) che dalla sentenza non risultano e in ordine alla deduzione dei quali il ricorso è privo di autosufficienza;
le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, che liquida in 2.100,00 EUR oltre le spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019