LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –
Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24741-2017 proposto da:
T.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BALDO DEGLI UBALDI N. 330, presso lo studio dell’avvocato MARIA ASSUNTA IASEVOLI, rappresentato e difeso dagli avvocati ROBERTO ORATINO, ANGELO CUTOLO;
– ricorrenti –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONINO SGROI, GIUSEPPE MATANO, CARLA D’ALOISIO, LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE, ESTER ADA VITA SCIPLINO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2771/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 20/04/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/02/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CAVALLARO LUIGI.
RILEVATO IN FATTO
che, con sentenza depositata il 20.4.2017, la Corte d’appello di Napoli ha confermato, per quanto qui interessa, la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda di T.M. volta alla reiscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli;
che avverso tale pronuncia T.M. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura;
che l’INPS ha resistito con controricorso;
che è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;
che parte ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che, con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, per avere la Corte di merito disatteso la censura d’illegittimità della cancellazione per difetto di motivazione;
che, con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto non provato il rapporto di lavoro agricolo nonostante che in giudizio egli avesse depositato le buste paga ricevute dal datore di lavoro, i c.d. modelli DMAG e le copie del registro delle imprese e l’INPS non ne avesse contestato autenticità e provenienza;
che, con il terzo motivo, il ricorrente si duole di violazione del D.P.R. n. 818 del 1957, art. 8, per non avere la Corte di merito ritenuto che, essendo stato egli parte di un valido rapporto di lavoro, non poteva l’INPS negargli di far valere detto presupposto ai fini delle relative prestazioni economiche una volta trascorsi cinque anni dal versamento dei contributi;
che, con riguardo al primo motivo, è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui gli atti degli enti previdenziali diretti all’accertamento dell’esistenza o inesistenza del diritto a prestazioni previdenziali o assistenziali non hanno natura di provvedimenti costitutivi o estintivi del diritto, ma di mera certazione dei presupposti di legge, onde, negata o revocata dall’ente la prestazione, l’azione dell’assicurato tendente ad ottenere la suddetta prestazione o il ripristino di essa non coinvolge la verifica della legittimità del provvedimento di diniego o di revoca, ma ha ad oggetto la fondatezza della pretesa dell’assicurato (cfr. tra le numerose Cass. nn. 5725 del 1999, 5784 del 2003, 3404 del 2006, 4254 del 2009);
che, coerentemente con tale presupposto, è stato affermato che gli atti amministrativi di gestione del rapporto obbligatorio (quali quelli di accertamento dell’obbligazione e di adempimento o di rifiuto, totale o parziale, di adempiere), non avendo natura autoritativa, non costituiscono provvedimenti amministrativi e sono sottratti all’obbligo di motivazione sancito dalla L. n. 241 del 1990, art. 3 (Cass. n. 2804 del 2003);
che, alla stregua dei superiori principi il primo motivo risulta inammissibile ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, avendo la Corte di merito deciso conformemente alla consolidata giurisprudenza di legittimità e non proponendosi da parte ricorrente argomentazioni idonee a superare gli anzidetti principi di diritto;
che l’eccezione di illegittimità costituzionale della disposizione di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 3, sollevata per profili analoghi a quelli illustrati a pagg. 12-13 del ricorso per cassazione, è già stata scrutinata come manifestamente infondata dal giudice delle leggi (cfr. Corte Cost. nn. 92 del 2015 e 58 del 2017);
che il secondo motivo risulta parimenti inammissibile, ancorchè per difetto di specificità, essendo costruito per relationem a documenti (buste paga, c.d. modelli DMAG e copie del registro delle imprese: cfr. pag. 14 del ricorso) che non sono stati trascritti in ricorso, nemmeno nelle parti essenziali ad intendere il fondamento fattuale della censura, nè si dice in quale luogo del fascicolo processuale e/o di parte essi si troverebbero;
che il terzo motivo appare altrettanto inammissibile ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, essendo consolidato il principio di diritto secondo cui la disposizione contenuta nel D.P.R. n. 818 del 1957, art. 8 (secondo la quale debbono essere accreditati agli effetti del diritto alle prestazioni assicurative i contributi indebitamente versati allorchè l’accertamento dell’indebito versamento intervenga dopo oltre cinque anni) ha carattere eccezionale e presuppone sempre, per la sua applicabilità, l’esistenza di un valido rapporto di assicurazione generale obbligatoria con l’INPS, onde essa non può essere invocata al di fuori della possibilità di istituire regolarmente o protrarre legittimamente un tale rapporto (presupponente a sua volta la sussistenza di un rapporto di lavoro assicurabile in detta forma), quand’anche abbia avuto luogo per qualsiasi causa un versamento di contributi all’indicato istituto (Cass. n. 13919 del 2001, cui hanno dato seguito, tra le più recenti, Cass. nn. 15079 del 2008 e 64 del 2009);
che il ricorso, conclusivamente, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza; che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidandole in Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 20 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2019