Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.21550 del 21/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11636-2018 proposto da:

IRPINIAMBIENTE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA APPIA NUOVA 612, presso lo studio dell’avvocato VIRGINIA IANNUZZI, rappresentata difesa dall’avvocato NICOLA IANNARONE;

– ricorrente –

contro

A.M., domiciliato ope legis presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO PETROZZIELLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 353/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 02/02/2018 R.G.N. 2433/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/04/2019 dal Consigliere Dott. LAURA CURCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’avvocato NICOLA IANNARONE;

udito l’avvocato ANTONIO PETROZZIELLO.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 2.2.2018 la corte d’appello di Napoli, in sede di rinvio ai sensi degli artt. 383 e 384 c.p.c., riportandosi al principio di diritto espresso dalla cassazione nella sentenza rescindente secondo cui ” nelle ipotesi di cessione d’azienda si realizza con riferimento alla posizione del lavoratore, una successione legale del contratto che non richiede il consenso del contraente ceduto, il quale potrà successivamente esercitare il proprio diritto di recesso nei termini sanciti dall’art. 2112 c.c., comma 4", ha accertato che la comunicazione inviata in data 13.5.2011 dalla società Irpinambiente spa al dipendente della società cedente A.M., in cui la società dava atto della indisponibilità di A. ad iniziare il rapporto di lavoro a seguito della cessione di azienda, doveva essere ritenuta una lettera di licenziamento di natura disciplinare non preceduta da contestazione, non potendosi qualificare come dimissioni, sia pure implicite e per fatti concludenti, la condotta del lavoratore che mai si era presentato al lavoro.

La corte di rinvio ha precisato che l’ A. aveva comunque formulato delle giustificazioni scritte alla contestazione disciplinare inviatagli il 5.4.2011, poi “abbandonata” dalla società Irpinambiente spa e che quindi, non essendo possibile ritenere l’esistenza di una manifestazione espressa ed inequivocabile della volontà di recesso dal rapporto da parte del lavoratore, la lettera inviata il 13.5.2011 doveva qualificarsi quale licenziamento disciplinare.

Per la corte era sintomatico il comportamento della società, che aveva posto in essere una contestazione disciplinare con la lettera del 5.4.2012, ma aveva poi desistito dal proseguire l’azione disciplinare preferendo collocarsi in una posizione “di attesa”nella speranza di qualche sbocco “alternativo” della vicenda.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione Irpiniambiente spa affidato ad un motivo, a cui ha opposto difese l’ A. con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di gravame la società deduce l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3): la corte di rinvio non avrebbe tenuto in considerazione diversi elementi di fatto, ritualmente allegati e dimostrati in giudizio, la cui esistenza risulta dal testo della sentenza, fatti peraltro già scrutinati dai giudici di primo grado e da quelli di appello, i quali avevano errato nella qualificazione giuridica del comportamento complessivo dell’ A., interpretandolo come rifiuto al passaggio presso la cessionaria, laddove invece andava configurato come volontà dimissionaria per fatti concludenti.

In particolare la corte si sarebbe limitata a richiamare, tra le circostanze di fatto a supporto della decisione, soltanto a) l’accordo avente ad oggetto il trasferimento del personale dal consorzio alla società Irpiniambiente srl, b) la mancata adesione all’accordo sindacale con la società da parte del sindacato “*****” cui era affiliato l’ A., c) la mancata presentazione al lavoro dell’ A. nel giorno comunicato dalla società, d) la contestazione disciplinare del 5.4.2011 fatta cadere nel vuoto ed infine e) la comunicazione del 13.5.2011 qualificata come licenziamento disciplinare.

Per la ricorrente la corte avrebbe del tutto omesso di valutare altre circostanze di fatto, desumibili dai documenti acquisiti e comunque incontestate, ossia: a) che l’ A. non aveva aderito all’invito della società a prendere servizio il 1 aprile 2011, inviando una comunicazione in tal senso il 24.3.2011, e che l’assenza si era protratta per ben 43 giorni, b) il contenuto dell’accordo sindacale del 28.2.2011 in cui veniva garantito il passaggio dei dipendenti dei consorzi, con applicazione della parte normativa del CCNL FISE, e delle tabelle retributive del CCNL Federambiente, c) le dichiarazioni rese dal sindacato del ricorrente il 29.3.2011 secondo cui i lavoratori ceduti non si consideravano dipendenti della cessionaria e non avrebbero accettato ordini dai suoi responsabili, d) la lettera del 1.4.2011 inviata dal sindacato e sottoscritta anche dall’ A., in cui si “impugnavano l’assunzione unilaterale e gli ordini impartiti dalla nuova società, che non era la datrice di lavoro, e) la successiva lettera del 5.4.2011 in cui A. ribadiva di non intrattenere ancora alcun rapporto di lavoro con Irpinambiente e di essere in attesa di ricevere disposizioni dai consorzi COSMARI AVI 1 ed AVI 2, f) la lettera di diffida del 7.6.2011 con cui il sindacato *****,ancora una volta non riconoscendo alcun ruolo della società diffidava il soggetto liquidatore dei Consorzio al pagamento delle mensilità maturate,g) la condotta omissiva – di totale silenzio – di A. che non faceva pervenire alla società alcuna richiesta di essere assunto, quindi ancora i reiterati silenzi a fronte della disponibilità della Irpiniambiente alla sua riassunzione ed infine il contenuto del ricorsi ex art. 700 c.p.c. depositato presso il Tribunale di Avellino, in cui veniva di fatto richiesto di dichiarare l’ A. e gli altri lavoratori ancora alle dipendenze del Consorzio. Per la società ricorrente da tali fatti, che si dovevano considerare decisivi, la corte di rinvio avrebbe dovuto evincere che in concreto era stato esercitato il diritto di recesso, atteso che il comportamento tenuto dall’ A., come emergente dai fatti non esaminati, erroneamente qualificato come rifiuto di assunzione, era in concreto la manifestazione, per fatti concludenti, di recesso dal contratto di lavoro ceduto dai consorzi AVI 1 e AVI 2.

Il motivo è inammissibile.

Il principio di diritto indicato da questa corte nella sentenza rescindente 12919/2017 chiaramente precisa che, in ipotesi di cessione di azienda si realizza una successione legale del contratto di lavoro che non richiede il consenso del contraente ceduto, il quale potrà successivamente esercitare il proprio diritto di recesso nel termini previsti dall’art. 2112 c.c., comma 4.

E’ pertanto in base a questo enunciato che la corte d’appello di Napoli, quale giudice di rinvio, ha accertato se nella fattispecie di cui è causa si fosse realizzato o meno un atto di recesso dell’ A., dovendosi ritenere incontestabile l’avvenuto passaggio del rapporto di lavoro a seguito della cessione di azienda, escludendo che il comportamento dell’ A. fosse riconducibile ad un atto di dimissioni sia pure implicite o per fatti concludenti.

La società ricorrente si duole che la corte non abbia considerato appieno tutte le risultanze istruttorie, in particolare non esaminando tutta la copiosa documentazione prodotta; la Corte distrettuale ha tuttavia evidenziato alcune circostanze di fatto ritenute prioritarie e dunque decisive, da cui ha tratto la convinzione che non vi erano elementi sufficienti per affermare che dal comportamento dell’ A. si evinceva una volontà di dimettersi. Sono state esaminate le giustificazioni scritte inviate dall’ A. alla società in risposta alla lettera di contestazione disciplinare per assenza ingiustificata del 5.4.2011, in cui il lavoratore non poneva in discussione la titolarità del rapporto in capo alla cessionaria, ma contestava l’applicazione di un CCNL diverso e meno favorevole trattamento in termini retributivi; ed ancora è stata posta in rilievo dalla corte di merito la circostanza che neanche l’opposizione al trasferimento del rapporto esternata dall’ A., stante l’automatica conseguenza di tale trasferimento posta in luce dal principio espresso dalla sentenza rescindente, era idonea a comprovare una implicita volontà di dimissioni.

Ciò porta ad escludere che la motivazione della sentenza impugnata possa essere ritenuta carente e meramente apparente, così da violare il c.d. “minimo costituzionale” che ne comporterebbe la nullità.

Le SU, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato a seguito dell’intervento legislativo di cui al D.L. n. 83 del 2012 conv. nella L. n. 134 del 2012, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (cfr Cass. Cass. 9866/2017).

Ebbene l’elenco corposo delle circostanze indicate in ricorso, che sarebbero desumibili a dire della società ricorrente dai documenti prodotti nel giudizio di merito, non solo non è suffragato dalla relativa precisa e puntuale trascrizione di tali documenti nella loro parte essenziale e rilevante (se ne indica solo la collocazione nel fascicolo di ufficio), ma di fatto si esaurisce nella descrizione di una serie di comportamenti per lo più dimostrativi di una volontà dell’ A. diretta a non riconoscere l’esistenza di un rapporto di lavoro con la nuova società cessionaria, circostanza chiaramente ritenuta irrilevante dal principio di diritto ribadito dalla Corte di cassazione nella sentenza rescindente.

Peraltro il mancato espresso richiamo al preciso contenuto delle allegazioni ed eccezioni svolte dalla società nelle memorie introduttive dei giudizi di merito non consente in questa sede di accertare se tutti i documenti richiamati nel ricorso di legittimità fossero stati in quella sede indicati non come dimostrativi di una mancata instaurazione del rapporto di lavoro, con esclusione quindi di un atto di licenziamento da parte del datore di lavoro, ma bensì come probanti la volontà di dimissioni da parte dell’ A., eccezione in senso stretto che implicava il relativo onere probatorio a carico della società (cfr Cass. n. 12586/2016).

Conseguentemente deve ritenersi inammissibile anche la censura svolta in questa sede dalla società, secondo cui la valutazione di tali documenti, come dimostrativi della volontà di dimissioni da parte del lavoratore, avrebbe formato oggetto di discussione tra le parti, in base a precise deduzioni contenute nelle memorie di costituzione.

Il ricorso deve pertanto dichiararsi inammissibile. La condanna alle spese, liquidate come da dispositivo segue la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2019

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