Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.29538 del 14/11/2019

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10182-2017 proposto da:

L.P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 301, presso lo studio dell’avvocato BASILIO PERUGINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BIAGIO BRUNO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

e contro

LO.PI.GI.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 158/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 31/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/06/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate dal ricorrente;

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE La Corte d’Appello di Palermo con la sentenza n. 158 del 31 gennaio 2017 ha rigettato l’appello proposto da L.P.G. avverso la sentenza del Tribunale di Palermo con la quale era stata rigettata la domanda dell’appellante di usucapione ex art. 1159 bis c.c. e della L. n. 346 del 1976 nei confronti del convenuto Lo.Pi.Gi. avente ad oggetto l’appezzamento di terreno in ***** contrada *****, ex feudo *****, in catasto alla *****.

I giudici di appello rilevavano che dalle prove testimoniali raccolte non emergeva la prova di un possesso idoneo all’usucapione in favore dell’appellante, non potendosi reputare tale il mero godimento della cosa o la sola attività di coltivazione del fondo.

In tal senso andava considerato che il fondo stesso era stato in precedenza trasferito donato dall’appellante al figlio appellato, sicchè la relazione di fatto con il bene in epoca successiva si era limitata ad alcune marginali attività di gestione, da reputarsi frutto di tolleranza da parte dell’effettivo proprietario del bene.

Inoltre, ancorchè la tolleranza si caratterizzi di norma per la sua transitorietà, nella specie i vincoli parentali esistenti legittimavano la convinzione che la tolleranza potesse essersi protratta anche per un lungo periodo di tempo, senza immutare il godimento dell’attore da detenzione in possesso.

Il rigetto del primo motivo di appello dava poi giustificazione anche al rigetto del secondo motivo, con il quale ci si doleva della condanna al pagamento delle spese di lite, avendo il giudice di prime cure fatto corretta applicazione del principio della soccombenza.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso L.P.G. sulla base di quattro motivi.

L’intimato non ha svolto attività difensiva in questa fase.

Rileva il Collegio che debba reputarsi ormai superata l’iniziale proposta di improcedibilità formulata da parte del Consigliere relatore, stante l’avvenuta produzione da parte del ricorrente di attestazione di conformità concernente anche la notifica a mezzo pec dell’impugnata sentenza, ai sensi di quanto previsto da questa Corte nella sentenza delle Sezioni Unite n. 8312/2019.

Il ricorso deve quindi essere esaminato nel merito.

Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1144 e 1159 bis c.c. per avere la Corte d’Appello ritenuto non sussistenti i presupposti per la maturazione in capo al ricorrente dell’usucapione speciale per la piccola proprietà rurale in ragione di atti di tolleranza del proprietario.

Assume parte ricorrente che la Corte di merito avrebbe erroneamente applicato le norme in rubrica, ravvisando un’ipotesi di tolleranza da parte del proprietario, trascurando altresì che la tolleranza deve essere provata da chi contesti l’esistenza del possesso in capo a colui che è nel godimento del bene.

Le prove raccolte invece deporrebbero per un possesso protratto per il tempo utile ad usucapire da parte del ricorrente, che ha nelle more provveduto alla coltivazione e manutenzione del terreno.

Il motivo è infondato.

Va al riguardo rilevato che i giudici di appello hanno ritenuto che in capo al ricorrente non potesse ravvisarsi una situazione di fatto qualificabile in termini di possesso, sia per quanto attiene all’elemento materiale, sia per quanto concerne il profilo soggettivo. In tal senso, dopo avere valorizzato le deposizioni rese dai testi che avevano riferito di una coltivazione del terreno ad opera dell’attore, si è evidenziato che tale attività di per sè non legittima l’usucapione della proprietà, trattandosi di attività equivoca.

A ciò andava poi aggiunto che il L.P. già proprietario del fondo ne aveva alienato la proprietà al figlio con atto del 1990, sicchè la sua permanenza sul terreno, circoscritta alle marginali attività di gestione, era proseguita per mera tolleranza del nuovo proprietario, attesa anche l’esistenza del rapporto di parentela che consente di mantenere in vita un rapporto fondato sulla tolleranza anche per un significativo periodo di tempo.

Alla luce di tali motivazioni, va evidenziato che la censura si risolve in un’inammissibile richiesta di rivalutazione delle emergenze istruttorie nella parte in cui sollecita un diverso apprezzamento delle prove, in difformità da quanto operato dal giudice di merito.

In punto di diritto, va invece ribadita la correttezza dell’assunto dei giudici di appello che hanno negato che l’attività di coltivazione del fondo sia espressiva di per sè sola, ed in assenza di condotte che denotino un diverso atteggiamento del coltivatore, di un possesso utile ad usucapire, essendo stato anche di recente riaffermato che (Cass. n. 17376/2018) ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva la coltivazione del fondo non è sufficiente, perchè, di per sè, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”; l’interversione nel possesso non può avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia possibile desumere che il detentore abbia iniziato ad esercitare il potere di fatto sulla cosa esclusivamente in nome proprio e non più in nome altrui, e detta manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e della concreta opposizione al suo possesso (conf. Cass. n. 18215/2013, citata anche nella sentenza gravata).

Quanto alla prova della tolleranza, va precisato che la deduzione circa il fatto che il godimento del bene da parte del preteso possessore sia frutto di tolleranza, idonea quindi ad escludere la stessa esistenza del possesso, costituisce un’eccezione, essendosi in più occasioni affermato che (Cass. n. 9275/2018) in materia di acquisto per usucapione di diritti reali immobiliari, poichè l’uso prolungato nel tempo di un bene non è normalmente compatibile con la mera tolleranza, essendo quest’ultima configurabile, di regola, nei casi di transitorietà ed occasionalità, in presenza di un esercizio sistematico e reiterato di un potere di fatto sulla cosa spetta a chi lo abbia subito l’onere di dimostrare che lo stesso è stato dovuto a mera tolleranza.

In senso conforme si veda Cass. n. 19830/2014, secondo cui la tolleranza, trattandosi di fatto impeditivo, deve essere provata dalla parte che la deduca, sicchè (cfr. Cass. n. 17339/2009) in base al principio fissato dall’art. 2697 c.c., una volta dimostrata la sussistenza del possesso, spetta a coloro che contestano il fatto del possesso l’onere di provare che esso derivi da atti di tolleranza, i quali hanno fondamento nello spirito di condiscendenza, nei rapporti di amicizia o di buon vicinato ed implicano una previsione di saltuarietà e di transitorietà (conf. Cass. n. 3404/2009; Cass. n. 10771/1995). Avere però concluso per la qualificazione della deduzione de qua come eccezione non implica altresì che sia necessaria una specifica deduzione della parte che si contrappone alla domanda di usucapione, in quanto ritiene il Collegio che alla luce della giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte, debba reputarsi che l’eccezione in esame non possa essere qualificata come eccezione in senso stretto, e che quindi sia suscettibile di deduzione ovvero di rilievo ufficioso, sempre che la prova dei relativi fatti emerga dal materiale istruttorio formatosi nel rispetto del principio delle preclusioni istruttorie (conf. Cass. n. 31638/2018 con specifico riferimento al rilievo della tolleranza come circostanza impeditiva dell’usucapione). Occorre, infatti, ricordare che anche di recente si è ribadito che (cfr. Cassazione civile sez. VI-2. n. 15591/2018) costituiscono eccezioni in senso stretto, rilevabili ad istanza di parte, quelle che possono essere sollevate soltanto dalle parti per espressa disposizione di legge ovvero quelle il cui fatto integratore corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio dal titolare e, quindi, presuppone una manifestazione di volontà di quest’ultimo per essere produttivo di effetti modificativi, impeditivi o estintivi del rapporto giuridico.

Trattasi di principio assolutamente consolidato e che trova riscontro anche negli interventi delle Sezioni Unite (cfr. Cass. S.U. n. 10531/2013) che hanno rilevato come il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non sia subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte e sia ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (conf. Cass. n. 4548/2014; ed ancor prima per la riaffermazione della distinzione fra eccezioni in senso stretto ed in senso lato, Cass. S.U. n. 15661/2005; Cass. n. 409/2012).

Tornando al caso in esame, in assenza nella previsione di cui all’art. 1144 c.c. nonchè nelle norme dettate in materia di usucapione, di una espressa manifestazione di volontà del legislatore di condizionare il rilievo della tolleranza all’iniziativa esclusiva della parte e non corrispondendo la stessa ad un fatto integratore corrispondente all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio dal solo titolare, deve quindi ritenersi che la questione relativa all’esercizio del potere di fatto sulla cosa per effetto della tolleranza del proprietario rientri nel dovere del giudice di rilevare d’ufficio l’esistenza di fatti impeditivi dell’usucapione, sicchè la contestazione mossa nel motivo di ricorso si risolve a ben vedere anche in parte qua in una critica alla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice di merito, che però non è consentita in sede di legittimità.

In tale prospettiva non può essere tacciata di irragionevolezza la conclusione dei giudici di appello, secondo cui un rapporto di fatto protrattosi per così lungo tempo possa giustificarsi in base alla tolleranza in ragione del vincolo di parentela.

I giudici di seconde cure, con apprezzamento che attiene evidentemente alla valutazione del fatto, e che come tale non è sindacabile in sede di legittimità, hanno ritenuto che dagli elementi istruttori raccolti, e valorizzando il dato di fatto assolutamente pacifico del rapporto di filiazione tra il ricorrente ed il convenuto, fosse possibile ritenere verosimile la concessione in godimento del bene da parte del secondo in favore del genitore che in passato ne era stato proprietario.

Trattasi di argomentazioni connotate da logicità e coerenza intrinseca, essendosi a tal fine dato rilievo al principio, costantemente affermato da questa Corte secondo cui il solo protrarsi per lungo tempo del godimento del bene non esclude la tolleranza laddove il rapporto sia instaurato tra soggetti legati da vincoli di parentela.

In tal senso si è anche di recente ribadito che (Cass. n. 11277/2015) in tema di usucapione, per stabilire se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacchè nei secondi, di per sè labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo (conf. Cass. n. 4327/2008; Cass. n. 9661/2006, la quale ribadisce che la valutazione sul punto è un apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito).

Deve pertanto escludersi la ricorrenza della dedotta violazione delle norme in tema di tolleranza e di usucapione, come del pari va esclusa la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., in quanto la sentenza impugnata, lungi dal compiere un’indebita inversione dell’onere della prova, ha piuttosto ritenuto raggiunta la prova della tolleranza, considerando i rapporti personali tra le parti, addivenendo quindi alla conclusione in ricorso avversata, sulla scorta di una valutazione degli elementi istruttori a sua disposizione, e senza quindi far ricorso alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.

Nè vale opporre il contenuto della missiva del 19 ottobre 2007, con la quale il legale di Lo.Pi.Gi., che sottoscriveva anche la missiva, richiedeva le chiavi di accesso al bene, lamentando che sebbene l’atto di acquisto prevedesse il passaggio immediato anche del possesso e del materiale godimento, non avesse la disponibilità dell’immobile, atteso che costituisce solo uno dei molteplici elementi probatori oggetto della complessiva valutazione, e che non appare connotato dal carattere della decisività, non potendosi reputare implausibile che con tale atto l’intimato avesse manifestato in realtà l’intento di far cessare la tolleranza che sino a quella data aveva permesso al genitore di restare nel godimento del bene, senza quindi assumere valenza confessoria circa il fatto che tale godimento avvenisse a titolo di possesso.

Il secondo motivo lamenta la nullità della sentenza per omessa motivazione, per non avere la Corte d’Appello espresso le ragioni per le quali le attività poste in essere dal ricorrente sul terreno sarebbero frutto della mera tolleranza da parte del proprietario.

Il terzo motivo lamenta poi la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. per avere la Corte d’Appello omesso di motivare in ordine all’asserita tolleranza da parte del proprietario per le attività poste in essere dal ricorrente.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

A seguito della riforma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di precisare che la stessa deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata (a prescindere dal confronto con le risultanze processuali). Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. S.U. 8053/2014). Pertanto, non possono essere sollevate doglianze per censurare, ai sensi del citato art. 360, n. 5, la correttezza logica del percorso argomentativo della sentenza, a meno che non sia denunciato come incomprensibile il ragionamento ovvero che la contraddittorietà delle argomentazioni si risolva nella assenza o apparenza della motivazione (in tal caso, il vizio è deducibile quale violazione della legge processuale ex art. 132 c.p.c.).

Nella fattispecie deve escludersi che la motivazione possa essere ritenuta affetta da nullità, ai sensi di quanto sopra precisato, avendo la Corte di merito fatto riferimento alle deposizioni rese dai testi ed a quanto dagli stessi riferito circa la condotta tenuta dal ricorrente, spiegando le ragioni per le quali non poteva essere accreditata la diversa lettura delle deposizioni fornita dall’appellante, ed aggiungendo una puntuale argomentazione circa le motivazioni che facevano propendere per un godimento del terreno per tolleranza da parte del proprietario, in ragione dei rapporti di parentela esistenti.

L’ampiezza, la logicità, l’intrinseca coerenza della argomentazioni spese in sentenza escludono che possa accedersi alla richiesta del ricorrente di riscontrare la nullità della sentenza per totale carenza di motivazione ovvero per una motivazione apparente.

Il quarto motivo di ricorso (riportato però sub 5 in ricorso) lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1159 bis c.c. e della L. n. 346 del 1976, art. 2, per avere la Corte d’Appello ritenuto fondata l’eccezione di inammissibilità improcedibilità del ricorso per mancanza dei requisiti previsti per l’operatività dell’usucapione abbreviata.

La censura è inammissibile, in quanto mira a contestare una statuizione che in realtà non è presente nella decisione gravata, la quale ha attributo portata prevalente ed assorbente al rilievo circa l’assenza della qualità di possessore in capo al ricorrente, avendo quest’ultimo nella stessa formulazione del ricorso riconosciuto che in realtà la questione, concernente la ricorrenza dei requisiti fattuali e giuridici per l’usucapione abbreviata, era rimasta assorbita per effetto del rigetto dell’appello proprio in relazione alla verifica del possesso.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Nulla per le spese atteso che l’intimato non ha svolto attività difensiva.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al T.U. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472