LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosaria – rel. Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6671/2012 R.G. proposto da P. s.r.l., in persona del legale rappres. p.t., elett.te domic.
in Roma presso l’avv. M. Silvietti, rappres. e difesa dall’avv. Sabato Tufano con procura speciale notarile del 12.4.17, rep. N. ***** del notaio Roberto Chiari;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappres. p.t., elett.te domic. presso l’Avvocatura dello Stato che la rappres. e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, n. 200/47/2011 depositata in data 13/9/2011 e non notificata.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 dicembre 2018 dal Cons. Rosario Caiazzo;
RILEVATO
CHE:
La P. s.r.l. impugnò l’avviso d’accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate, a seguito di una verifica generale ai fini irpeg, irap e iva, aveva recuperato a tassazione maggiore imponibile per operazioni inesistenti, per l’anno 2003, chiedendo il pagamento della somma di Euro 293.598,74. L’accertamento traeva origine da una verifica nei confronti della ***** s.r.l., dichiarata fallita il 26.2.03, in ordine alla quale, in sede di l’inventario, non erano stati rinvenuti beni di proprietà della stessa impresa fallita; pertanto, le fatture emesse dalla ***** s.r.l., nel marzo 2003, erano state ritenute relative ad operazioni inesistenti. La Ctp di Napoli rigettò il ricorso.
La P. s.r.l. propose appello assumendo che le suddette operazioni erano riferibili a cessioni commerciali soggettivamente inesistenti ma veritiere, depositando copia di fatture emesse da cui emergeva la successiva cessione di parte della merce acquistata dalla società fallita.
L’Agenzia delle entrate resisteva.
Con sentenza del 13.9.11, la Ctr della Campania rigettò l’appello, osservando che: le fatture in questione erano riferibili alla ***** s.r.l., dichiarata fallita il 26.2.03; la società ricorrente non aveva dimostrato di aver annotato nei registri contabili gli acquisti oggetto delle stesse fatture ritenute oggettivamente inesistenti, nè di aver pagato il prezzo di tali acquisti che, peraltro, per quanto scritto nelle fatture, avrebbe dovuto avvenire in contanti; era irrilevante la successiva cessione dei beni acquistati dalla società fallita, trattandosi di beni di facile reperibilità sul mercato.
La P. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.
RITENUTO
CHE:
Con il primo motivo è dedotta l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata per travisamento dei fatti processuali, avendo la Ctr affermato che le fatture contestate erano state emesse da un socio della P. s.r.l. che avrebbe agito all’insaputa della stessa società, mentre nell’appello era stato sostenuto che le operazioni erano state concluse da un socio, tale P.B., ingannato da qualcuno che si era presentato quale espressione della fallita ***** s.r.l.
Pertanto, la ricorrente lamenta che, in assenza di tale errore processuale su fatto decisivo, il giudizio della Ctp e della Ctr sarebbe stato probabilmente diverso.
Con il secondo motivo è denunziata contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo relativo alla dimostrazione della sussistenza delle operazioni contestate, in quanto la motivazione conteneva affermazioni tra loro incompatibili che s’elidevano a vicenda, non consentendo di individuare la ratio decidendi.
Il primo motivo è infondato.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di IVA, una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova (ad esempio, mediante la dimostrazione che l’emittente è una “cartiera” o una società “fantasma”) dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., n. 17619/18; n. 26453/18).
Nel caso concreto, premesso che è applicabile ratione temporis la versione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, anteriore alla novella del 2012, l’ufficio ha dimostrato l’oggettiva inesistenza delle cessioni dalla ***** s.r.l. per il precedente fallimento di quest’ultima, dichiarato il 26.2.03, considerato che: il curatore fallimentare aveva dichiarato di non aver rinvenuto merce riferibile alla società fallita; l’Ufficio aveva accertato, come evidenziato nella sentenza impugnata, che la P. s.r.l. non aveva dimostrato l’avvenuto pagamento del corrispettivo della merce oggetto delle fatture contestate che riportavano la dicitura “pagamento in contante allo scarico”.
Al riguardo, le indicazioni riportate sulla fattura, senza alcun riscontro oggettivo dell’effettiva esecuzione del pagamento, costituiscono chiaro indice presuntivo dell’inesistenza della cessione della merce, gravando piuttosto sul contribuente l’onere di dimostrare che il pagamento sia realmente stato eseguito (v. Cass., n. 28224/08 in tema di simulazione assoluta di contratto di compravendita).
Nel caso concreto, il contribuente non ha fornito la prova dell’effettività delle stesse cessioni ai fini della deduzione dei costi e della detrazione dell’IVA, nè ha allegato l’effettivo pagamento del prezzo, a nulla rilevando, in proposito, che le merci in questione siano state oggetto di fatture di vendita emesse successivamente, di cui peraltro la ricorrente non ha dimostrato l’effettiva sussistenza.
Inoltre, va osservato che il motivo è incentrato su una deduzione del tutto irrilevante ai fini della decisione del giudizio (ovvero, il fatto che le cessioni di merce sarebbero state concluse da un socio della P. s.r.l., tale P.B., ingannato da terzi che avrebbero speso fraudolentemente la ragione sociale della fallita ***** s.r.l.).
Al riguardo, giova altresì rilevare che è rimasto del tutto indimostrato che le cessioni in questione sarebbero state stipulate dal suddetto socio e non, come avrebbe dovuto essere, dall’amministratore della società o da soggetto munito di poteri rappresentativi.
Ne consegue che la censura relativa al vizio motivazionale per travisamento dei fatti processuali è del tutto infondata.
Parimenti infondato è il secondo motivo.
Il collegio ritiene che non possa predicarsi la contraddittorietà della motivazione in quanto, al di là di qualche imprecisione semantica contenuta nella sentenza impugnata, la Ctr ha chiaramente argomentato sulla natura oggettivamente inesistente delle cessioni ìn questione e sulla mancata prova contraria da parte del contribuente.
In particolare, è erronea la doglianza della società ricorrente in ordine alla contraddizione in cui sarebbe incorso il giudice d’appello nel ritenere, da un lato, l’oggettiva esistenza delle cessioni di merce e, dall’altro, nell’affermare che la società non avrebbe provato l’effettività delle medesime cessioni.
Invero, contrariamente a quanto esposto dalla parte ricorrente, la Ctr non ha affermato che le cessioni in questioni furono oggettivamente esistenti, avendo piuttosto, rilevato che, sebbene fosse stata fornita la prova della (successiva) vendita della merce, la società ricorrente non aveva dimostrato l’effettività dell’acquisto dei beni, riferiti nelle fatture alla fallita ***** s.r.l., come desumibile: dalla omessa indicazione delle modalità con le quali gli acquisti del materiale vennero annotati nei registri contabili; dalla mancata prova del pagamento del corrispettivo convenuto, come detto.
Pertanto, la motivazione della Ctr è chiara e non infirmata da alcuna contraddittorietà.
Le spese seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di Euro 5000,00 oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2019