Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.7547 del 18/03/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16894-2017 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PINEROLO, 22, presso lo studio dell’avvocato LORETI MARIA ELENA, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MARIA CECILIA HOSPITAL SPA, in persona dell’amministratore e legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato COLIVA GIUSEPPE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 888/2016 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 23/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/12/2018 dal Consigliere Relatore Dott. CIGNA MARIO.

PREMESSO Che:

C.E. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Ravenna, sez. distaccata di Lugo, la Casa di Cura privata Villa Maria Cecilia SpA ed il Dott. N.J.I., per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del contagio del virus HCV contratto durante l’intervento chirurgico (comportante impiego di circolazione extracorporea) eseguito in data 8-4-1999 dal detto medico presso il reparto di chirurgia della Casa di Cura.

Con sentenza non definitiva 15-9-2005 l’adito Tribunale accertò la responsabilità contrattuale della Casa di Cura e rigettò la domanda avanzata nei confronti del chirurgo; con sentenza definitiva 31-7-2007 condannò la Casa di Cura al risarcimento del danno, liquidato in complessivi Euro 27.003,99 (di cui Euro 12.127,30 per inabilità temporanea, Euro 10.376,69 per danno patrimoniale da perdita di guadagno ed Euro 4.500,00 per danno morale), oltre rivalutazione ed interessi.

Con sentenza 888/2016 del 23-5-2016 la Corte d’Appello di Bologna ha rigettato sia l’appello principale del C. sia quello incidentale della Casa di Cura; in particolare la Corte, per quanto ancora rileva, ha innanzitutto confermato la valutazione del Tribunale in ordine all’insussistenza di postumi permanenti; al riguardo ha evidenziato che sia il CTU nominato in primo grado sia quello nominato in appello avevano escluso, sulla base di dati clinici e di linee guida in materia di epatite C nonchè sulla base di letteratura scientifica, che il virus dell’epatite C avesse determinato una definitiva compromissione dell’attività fisica del C.; quest’ultimo, infatti, grazie alla terapia di interferone tempestivamente intrapresa, aveva conseguito la completa guarigione per eradicazione dell’infezione da HCV (successo della terapia eradicante dimostrato dalla non rilevabilità dell’HCV-RNA a 12 e a 24 settimane dalla fine del trattamento), sicchè l’epatite C contratta nel 1999 non aveva svolto alcun ruolo di causa o concausa nell’eziologia del successivo linfoma “non Hodgkin”, manifestatosi nel luglio 2005; la Corte, inoltre, ha ritenuto corretta la liquidazione del danno da invalidità temporanea, operata dal Tribunale in base alla durata della stessa come determinata da entrambi i consulenti d’ufficio. Avverso detta sentenza C.E. propone ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi ed illustrato anche da successiva memoria.

La Maria Cecilia Hospital Spa (già Casa di Cura Villa Maria Cecilia SpA) resiste con controricorso, anch’esso illustrato anche da successiva memoria.

RILEVATO

Che:

Con il primo motivo il ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – la violazione degli artt. 2,3 e 32 Cost., degli artt. 112,113,115 e 116 c.p.c., degli artt. 1218, 1223, 1126, 2043, 2056, 2057, 2059, 2727 e 2697 c.c. e degli artt. 40,41 e 590 c.p., si duole che la Corte territoriale lo abbia ritenuto guarito dal virus da HCV solo per la presenza di markers per l’epatite C negativi dopo la terapia, senza invece considerare la successiva evoluzione patologica costituita dal linfoma non Hodgkin, dimostrato da certificato 10-112005 del ***** di Roma.

Con il secondo motivo il ricorrente, denunziando ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione degli artt. 2,3 e 32 Cost., degli artt. 112,113,115 e 116 c.p.c., degli artt. 1218, 1223, 1126, 2043, 2056, 2057, 2059, 2727 e 2697 c.c. e degli artt. 40,41 e 590 c.p., si duole che la Corte territoriale non abbia considerato almeno probabile la correlazione tra virus HCV e Linfoma non Hodgkin (di cui al detto certificato 10-11-2005), come invece affermato da studi scientifici al riguardo.

Con il terzo motivo il ricorrente, denunziando – ex artt. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – la violazione degli artt. 2,3 e 32 Cost., degli artt. 112,113,115 e 116 c.p.c., degli artt. 1218, 1223, 1126, 2043, 2056, 2057, 2059, 2727 e 2697 c.c. e degli artt. 40,41 e 590 c.p., si duole che la Corte territoriale abbia erroneamente quantificato i danni, non riconoscendo alcun pregiudizio per invalidità permanente e liquidando in misura ridotta il danno biologico temporaneo.

I motivi, da esaminare insieme in quanto connessi, sono tutti inammissibili.

In primo luogo per difetto di specificità, non essendo in ricorso idoneamente indicato dove e quando le su esposte questioni sarebbero state sottoposte al Giudice d’appello; in secondo luogo in quanto, sub specie di vizio motivazionale o di violazione di legge, si risolvono nel censurare le risultanze delle espletate consulenze tecniche, recepite dal giudice del merito.

Il motivo, in sostanza, involge la ricostruzione del fatto operata dal Giudice del merito, in ordine alla quale è precluso a questa S.C. ogni sindacato, a maggior ragione dopo la novella dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che ha ridotto al minimo costituzionale il controllo in sede di legittimità sulla motivazione (Cass. S.U. 8053, 8054 e 19881 del 2014), rimanendo comunque gli apprezzamenti di fatto – se scevri (come lo sono nella specie,) da quei soli ed evidenti vizi logici o giuridici ammessi dalle richiamate pronunzie delle Sezioni Unite – istituzionalmente riservati al giudice del merito (v., tra le tante, Cass. S.U. 20412/2015).

In ogni modo, in particolare, non sussiste la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale), che, come precisato da Cass. 11892 del 2016 e ribadito (in motivazione) da Cass. S.U. 16598/2016, è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando (e non è il caso di specie) il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime.

Nè sussiste neanche la violazione dell’art. 115 c.p.c., che, come precisato dalla cit. Cass. 11892/2016, può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche quando (come nella specie) il medesimo ha valutato il materiale probatorio in modo non conforme a quanto prospettato dal ricorrente. Nè è rispettato il canone fissato da Cass. sez. unite 1785/2018 per la deduzione della violazione in iure dei paradigmi normativi sulle presunzioni semplici, essendosi il ricorrente, anche in tal caso, limitato a prospettare una diversa ricostruzione in fatto quale esito dei pretesi ragionamenti presuntivi.

In conclusione, pertanto, come detto, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese di lite relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, poichè il ricorso è stato presentato successivamente al 30-1-2013 ed è stato rigettato, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 8.700,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2019

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