Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.7556 del 18/03/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17312-2017 proposto da:

CI.FI., F.T., M.S., P.V., C.S.A., CA.SI., G.M.C., c.s., MA.VA., PA.SU., S.C., B.C., ca.da., T.B., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA UGO BARTOLOMEI 23, presso lo studio dell’avvocato ENRICO IVELLA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO DORI;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA DI BOLOGNA POLICLINICO *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato SERGIO VACIRCA, rappresentata e difesa dall’avvocato CRISTINA CARAVITA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1162/2016 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 12/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 19/12/2018 dal Consigliere Dott. CAVALLARO LUIGI.

RILEVATO IN FATTO

che, con sentenza depositata il 12.1.2017, la Corte d’appello di Bologna ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda di B.C. e altri consorti volta alla corresponsione dell’indennità di rischio radiologico e all’attribuzione del congedo biologico spettante ai lavoratori esposti a rischio radiazioni in ragione delle mansioni espletate; che avverso tale pronuncia i lavoratori in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura; che l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Bologna ***** ha resistito con controricorso;

che è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;

che entrambe le parti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il primo motivo, i ricorrenti lamentano carenza assoluta di motivazione o motivazione apparente per avere la Corte di merito rigettato la domanda senza spiegare perchè i parametri utilizzati dal CTU al fine di dimostrare lo svolgimento abituale dell’attività professionale in zona esposta al rischio escluderebbero in realtà il presupposto per il riconoscimento dei benefici di cui trattasi;

che, con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili per avere la Corte territoriale ritenuto che dalla CTU emergerebbe la non abitualità della loro prestazione lavorativa in zona esposta a rischio;

che, con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione della L. n. 460 del 1988 per avere la Corte di merito ritenuto che essi, pur essendo infermieri di sala, non avrebbero diritto ai benefici oggetto della domanda;

che la Corte territoriale ha motivato il rigetto della domanda sul presupposto che dalle deposizioni testimoniali raccolte in primo grado non emergerebbe alcuno svolgimento abituale dell’attività professionale dei ricorrenti in zona esposta al rischio di radiazioni ionizzanti, valorizzando il dato che gli infermieri di sala “di regola si allontanano dalla zona controllata (salvi i casi di specifiche esigenze di assistenza ai ferristi o all’anestesista)” e che, d’altra parte, la presenza dei ferristi accanto al chirurgo “non è costantemente necessaria in tutti gli interventi”, precisando altresì che “vi sono interventi che non necessitano dell’uso di apparecchiature ionizzanti” (pag. 5 della sentenza impugnata);

che è assolutamente consolidato il principio secondo cui, affinchè sia integrato il vizio di mancanza o apparenza della motivazione agli effetti di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, occorre che la motivazione della sentenza manchi del tutto, vuoi nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segua l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione, vuoi nel senso che, pur formalmente esistendo quest’ultima, il suo svolgimento sia talmente contraddittorio da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum (Cass. n. 20112 del 2009), ferma restando la necessità che il vizio, che attiene alla motivazione in sè, emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. S.U. n. 8053 del 2014);

che, nella specie, pretendendo i ricorrenti di istituire un raffronto tra le argomentazioni della Corte di merito e le risultanze di causa (cfr. pagg. 10-11 del ricorso per cassazione), i primi due motivi di censura si palesano chiaramente inammissibili;

che, con riguardo al terzo motivo, è parimenti consolidato il principio di diritto secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità se non nei ristretti limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra le più recenti Cass. n. 24155 del 2017);

che, nella specie, il motivo di censura incorre precisamente nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulato con riguardo ad una presunta violazione delle disposizioni della L. n. 460 del 1988, pretende di criticare (cfr. specialmente pagg. 12-13 del ricorso per cassazione) l’accertamento di merito che la Corte territoriale ha effettuato in ordine alla insussistenza dei presupposti di fatto per la sua applicazione;

che, anche a voler riqualificare il motivo in esame sub specie di omesso esame circa un fatto decisivo, la censura sarebbe comunque inammissibile, avendo questa Corte ormai consolidato il principio secondo cui, nell’ipotesi di c.d. “doppia conforme” prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, la parte ricorrente in cassazione, che lamenti vizi nell’accertamento di fatto compiuto dal secondo giudice, ha l’onere di indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello e di dimostrare che esse sono tra loro diverse, derivandone altrimenti l’inammissibilità del motivo (Cass. nn. 5528 del 2014, 19001 e 26774 del 2016);

che il ricorso, conclusivamente, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;

che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna le parti ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 6.200,00, di cui Euro 6.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 19 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2019

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