LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –
Dott. D’OVIDIO Paola – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5839-2012 proposto da:
DEDEM AUTOMATICA SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LAVINIO 15, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BIZZARRI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO FOLGORI;
– ricorrente –
contro
ABACO SPA, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CICERONE 28, presso lo studio dell’avvocato PIETRO DI BENEDETTO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2/2011 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE, depositata il 14/01/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/12/2018 dal Consigliere Dott. PAOLA D’OVIDIO.
RILEVATO
che:
1. La società DEDEM AUTOMATICA a r.l. proponeva ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Pistoia avverso l’avviso di liquidazione *****, notificatole in data 8/4/2008 dalla Maggioli Tributi s.p.a., quale concessionaria del Comune di Pistoia per il servizio di accertamento e riscossione delle imposte sulla pubblicità e le affissioni pubbliche, relativo al mancato pagamento dell’imposta di pubblicità per n. 49 impianti pubblicitari disseminati nel territorio comunale.
Deduceva la ricorrente che i mezzi pubblicitari contestati erano di dimensioni inferiori a 5 mq e dovevano considerarsi “insegne”, in quanto avevano lo scopo di indicare il luogo di esercizio dell’attività.
Si costituiva la società resistente assumendo l’infondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.
2. L’adita Commissione, con sentenza n. 64/02/2009, respingeva il ricorso ritenendo che l’esenzione invocata dalla ricorrente non potesse essere applicata nel caso in esame perchè circoscritta alle insegne di esercizio che contraddistinguono le sede dove viene svolta l’attività di impresa, ipotesi che non riteneva configurabile nella specie.
Avverso tale sentenza proponeva appello la DEDEM AUTOMATICA s.r.l. ribadendo le tesi già svolte in primo grado. Si costituiva la ABACO s.p.a., quale avente causa dalla Maggioli Tributi s.p.a. e nuova concessionaria, insistendo per la conferma della sentenza impugnata.
Con sentenza n. 2/09/11, depositata in data 14/01/2011, la Commissione Tributaria Regionale di Firenze, respingeva l’appello e compensava le spese processuali.
3. Avvero tale sentenza la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la Abaco s.p.a..
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo di ricorso è prospettata la “violazione e falsa applicazione del D.L. 15 novembre 1993, n. 507, art. 17, comma 1-bis, della L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 10, comma 1, lett. b-bis, della L. n. 75 del 2002, art. 2-bis, e del decreto 7 gennaio 2003, art. 2, capo 3, (modalità operative per la determinazione dei trasferimenti erariali compensativi ai comuni del Ministero dell’economia e delle finanze), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 aprile 2003, n. 79. Erroneità manifesta”.
La ricorrente, premesso di essere un’azienda che opera attraverso postazioni, site in spazi privati e pubblici, di strutture destinate alla riproduzione fotografica (foto tessera, stampa digitale, biglietti da visita) e di ristoro, sostiene che i cartelli e le scritte ivi apposte costituiscono l’insegna delle stesse, in quanto destinate alla comunicazione al pubblico dello specifico servizio offerto da ciascuna postazione.
La sentenza impugnata, pertanto, avrebbe errato nell’escludere la natura di insegne ai mezzi esposti sulle attrezzature in questione, ponendosi peraltro in contrasto con il principio espresso dalla Corte di legittimità (Cass., sez. 5, 30/10/2009, n. 23021), secondo il quale il D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 17, comma 1-bis, aggiunto dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 10, non consentirebbe di introdurre distinzioni in ordine all’eventuale presenza di un possibile “concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell’insegna”.
La pronuncia della CTR di Firenze, peraltro, si porrebbe in manifesta violazione del D.M. 7 gennaio 2003 del Ministero dell’economia e della finanze che, nel dettare le modalità operative per la determinazione dei trasferimenti compensativi ai comuni, all’art. 2, capo 3, precisa che “rientrano nella fattispecie esenti anche le insegne di esercizio che contengono indicazioni relative ai simboli e ai marchi dei prodotti venduti, ad eccezione del caso in cui questi ultimi siano contenuti in un distinto mezzo pubblicitario esposto, cioè in aggiunta ad una insegna di esercizio…”.
Inoltre, dallo stesso avviso di liquidazione risulta che tutte le “insegne” in questione non superavano il limite di mq 5, come fissato dalle norme invocate ai fini della operatività dell’esenzione, ad eccezione di un unico impianto, che la concessionaria del servizio ha indicato avere una superficie pari a mq 6, senza tuttavia fornire la relativa prova.
1.1. Preliminarmente, va affermata l’ammissibilità del motivo, diversamente da quanto eccepito in controricorso, sotto il profilo dell’autosufficienza.
Come è noto, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), il ricorso per cassazione deve contenere non solo l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Sez. 1, 29/11/2016, n. 24298, Rv. 642805 – 02; Sez. 3, 28/02/2012, n. 3010, Rv. 621483 – 01). La ricorrente ha adempiuto a tale onere, là dove, da un lato, ha interamente trascritto la motivazione della sentenza impugnata nella parte asseritamente erronea (pag. 3 del ricorso), e, dall’altro, ha esposto chiaramente le ragioni per cui ha inteso censurare le affermazioni ivi contenute, in particolare denunciando una falsa applicazione da parte della CTR del concetto di “insegna”, al quale le norme invocate nel titolo del motivo ricollegano l’esenzione dall’imposta sulla pubblicità, anche alla luce di un precedente di legittimità che la sentenza impugnata non avrebbe considerato (individuato in Cass. 30/10/2009 n. 23201).
1.2. Nel merito, il motivo è infondato, anche se va corretta in diritto, ex art. 384 c.p.c., u.c., la motivazione resa dalla sentenza impugnata, nel senso che ci si accinge ad illustrare.
La CTR, sul punto, ha così motivato: “Respinge l’eccezione concernente la violazione dell’art. 17, 1 bis, secondo cui le superfici di ciascuno dei distributori sono inferiori a mq 5 per cui sarebbero esenti, si presume perchè inquadrabili come “insegne di esercizio”. Anche in questo caso deve farsi rilevare che le insegne di esercizio godono dell’esenzione se inferiore a 5 mq., purchè possano definirsi tali, e cioè riportino la denominazione della società produttrice, il logo della sede, la sede, i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi offerti, elementi che la società ricorrente non ha dimostrato di possedere”. La ricorrente assume, invece, che il giudice tributario di secondo grado avrebbe dovuto riconoscere l’esenzione dal tributo, come prevista dal D.Lgs. n. 507 del 1994, art. 17, comma 1-bis, in ragione del fatto che le strutture in questione riportavano la descrizione del servizio offerto e del soggetto che lo erogava, come emergerebbe dagli stessi avvisi di liquidazione, e, pertanto, erano destinate alla comunicazione al pubblico dello specifico servizio offerto da ogni postazione, dovendo conseguentemente qualificarsi insegne di esercizio, e non pubblicità, potendo quest’ultima ravvisarsi solo in presenza di cartelli svincolati dal luogo di esercizio dell’attività.
Orbene, la sentenza impugnata si sofferma sul contenuto dei cartelli di cui si discorre, al fine di ricondurli o meno nella nozione di “insegna di esercizio”, omettendo di considerare che le insegne di esercizio, per rilevare ai fini dell’esenzione dell’imposta pubblicitaria, devono in primo luogo essere destinate a contraddistinguere la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, oltre a dover avere una superficie non superiore a cinque metri quadri.
Giova ricordare che, in linea generale, i presupposti applicativi dell’imposta di cui si discorre sono disciplinati dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 5, a mente del quale “la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile è soggetta all’imposta sulla pubblicità prevista nel presente decreto. Ai fini dell’imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell’esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato.
A sua volta, il medesimo D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, stabilisce i casi di esenzione dall’imposta, prevedendo al comma 1 bis, per quanto qui rileva, che “l’imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a cinque metri quadrati”.
Il D.L. 22 febbraio 2002, n. 13, art. 2 bis, comma 6, convertito in L. 14 aprile 2002, n. 75, ha poi chiarito che “si definisce insegna di esercizio la scritta di cui al regolamento di cui al D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, art. 47, comma 1, che abbia la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell’attività economica. In caso di pluralità di insegne l’esenzione è riconosciuta nei limiti di superficie di cui al comma 1”.
Di analogo tenore è il richiamato il D.P.R. n. 495 del 1992, art. 47, comma 1, che definisce “insegna” “la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da un simbolo o da un marchio realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa. Può essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta”.
Ne deriva che le insegne ubicate in luoghi diversi dalla sede sono soggetti all’imposta (Cass., sez. 5, 11/05/2012, n. 7348, Rv. 622894 – 01).
Ciò posto, nella fattispecie in esame, in cui pacificamente si discorre di pannelli apposti su distributori automatici (cabine per foto tessera, stampa digitale, ecc. ovvero distributori di generi di ristoro), ai fini della corretta applicazione dell’esenzione ai sensi della norma invocata dal ricorrente occorreva in primo luogo stabilire se le postazioni di distribuzione automatica possano essere configurate quali “sedi” di svolgimento dell’attività commerciale.
In proposito, va richiamato il precedente di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, che, in un analogo caso, ha escluso la riconducibilità dei distributori automatici al concetto di “sede” (cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, Rv. 634248 01).
A tale conclusione la citata sentenza è pervenuta osservando che non è rinvenibile altra nozione normativa, ai fini civilistici, di sede delle persone giuridiche (qual è l’odierna ricorrente, in quanto società di capitali avente, quindi, personalità giuridica), se non quella formale (c.d. sede legale) risultante dall’atto costitutivo e dallo statuto (cfr. artt. 46 e 16 c.c.), alla quale si aggiunge correntemente, per l’equiparazione a determinati effetti nei confronti dei terzi, la nozione di sede effettiva, tale intendendosi il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti (cfr. Cass., sez. L, 12 marzo 2009, n. 6021, Rv. 607263 – 01; Cass., sez. L, 13 aprile 2004, n. 7037, Rv. 572032 – 01).
Tanto premesso, risulta di intuitiva evidenza che le cabine per fototessera e/o le postazione automatiche di distribuzione di cibi o bevande non possono essere ricondotte nè al concetto di sede legale nè a quello di sede effettiva di esercizio dell’attività sociale come sopra richiamati, e neppure può ipotizzarsi un rapporto pertinenziale con la sede della società, in ragione dell’ampia diffusione territoriale che impedisce a monte la stessa configurabilità di un rapporto durevole di servizio del singolo distributore alla sede sociale.
A tali considerazioni deve aggiungersi l’ulteriore rilievo, decisivo al fine di escludere che al punto automatico di esercizio dell’attività possa attribuirsi la qualificazione di “sede”, che tale concetto viene a costituire nella fattispecie in esame il presupposto per l’applicazione di una norma, quale il menzionato D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1 bis, che prevede un’esenzione fiscale, come tale da ritenersi di stretta interpretazione (cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, in motivazione).
La sentenza impugnata, pertanto, ha correttamente affermato che “le insegne di esercizio godono dell’esenzione se inferiori a 5 mq., purchè possano definirsi tali”, ed è pervenuta ad una corretta decisione di esclusione del diritto all’esenzione ritenendo che nella specie i mezzi in esame non potevano definirsi “insegne”, ancorchè tale conclusione è stata raggiunta sulla base di una motivazione inesatta perchè fondata esclusivamente sul contenuto dei pannelli oggetto di causa, senza tener conto della loro collocazione su postazioni inidonee ad essere qualificate come “sedi”, circostanza che esclude a monte l’applicabilità del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1 bis, invocato dalla ricorrente.
Corretta in tal senso la motivazione della sentenza impugnata, resta assorbito l’ulteriore argomento dedotto dalla società ricorrente in riferimento alla asserita irrilevanza, ai fini dell’applicabilità della esenzione, dell’eventuale concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria della insegna stessa, siccome desumibile dal precedente di questa Corte n. 23021 del 2009 e dal D.M. 7 gennaio 2003, art. 2, capo 3: anche tale questione, infatti, attiene al contenuto dell’insegna e presuppone che si tratti di “insegna” installata nella “sede” dell’attività cui si riferisce, requisito che, per quanto sopra evidenziato, non può ritenersi sussistente nel caso in esame.
2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in tema di onere della prova”.
La ricorrente censura la sentenza impugnata per avere invertito l’onere probatorio gravante sulle parti ai sensi dell’art. 2697 c.c., erroneamente attribuendolo alla contribuente anzichè al concessionario, nella parte in cui afferma che “… le insegne di esercizio godono dell’esenzione se inferiori a 5 mq purchè possano definirsi tali, e cioè riportino la denominazione della società produttrice, il logo della sede, la sede, i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi offerti, elementi che la società ricorrente non ha dimostrato di possedere”.
2.1. Il motivo deve dichiararsi inammissibile per carenza di interesse, stante l’esito del giudizio sul primo motivo.
Infatti, la prioritaria necessità, ai fini dell’applicazione dell’esenzione dall’imposta comunale sulla pubblicità, che le insegne per le quali si invochi il beneficio siano installate su strutture definibili come “sede” dell’attività, requisito nella specie rimasto escluso, rende ininfluente accertare in concreto il contenuto delle insegne oggetto di causa.
Peraltro, per completezza si osserva che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dell’art. 2697 c.c., attribuendo alla società contribuente l’onere probatorio, ad essa spettante, di dimostrare la concreta sussistenza dei requisiti dell’insegna di esercizio, dovendo trovare applicazione il principio secondo il quale, in tema di agevolazioni tributarie, chi vuole far valere una forma di esenzione o di agevolazione qualsiasi deve provare, quando sul punto vi è contestazione, i presupposti che legittimano la richiesta della esenzione o della agevolazione. (Cass., sez. 6-5, 4/10/2017, n. 23228, Rv. 646307 – 01).
3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
La peculiarità della fattispecie e l’assenza di specifici precedenti di legittimità alla data di proposizione del ricorso rendono equo compensare interamente tra le parti le spese del presente grado.
PQM
La Corte:
– rigetta il ricorso;
– compensa le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, dalla 5 sezione civile della Corte di cassazione, il 3 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2019