LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –
Dott. D’OVIDIO Paola – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12822-2013 proposto da:
DEDEM AUTOMATICA SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LAVINIO 15, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BIZZARRI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO FOLGORI;
– ricorrente –
contro
ICA SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE TIZIANO 110, presso lo studio dell’avvocato SIMONE TABLO’, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRO CARDOSI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 154/2012 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di BRESCIA, depositata il 15/11/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/12/2018 dal Consigliere Dott. D’OVIDIO PAOLA.
RILEVATO
che: 1. La società DEDEM AUTOMATICA a r.l. proponeva ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Cremona avverso un avviso di accertamento notificatole dalla I.C.A. s.r.l, quale concessionaria del Comune di Crema per il servizio di accertamento e riscossione delle imposte sulla pubblicità e le affissioni pubbliche, relativo al mancato pagamento dell’imposta di pubblicità per l’anno 2009, con riferimento ad impianti pubblicitari apposti su cabine destinate alla riproduzione fotografica. Deduceva la ricorrente che i mezzi pubblicitari contestati erano di dimensioni inferiori a 5 mq e dovevano considerarsi “insegne”, in quanto avevano lo scopo di indicare il luogo di esercizio dell’attività. 2. L’adita Commissione, con sentenza n. 108/3/10, respingeva il ricorso ritenendo che l’esenzione invocata dalla ricorrente non potesse essere applicata nel caso in esame essendo i mezzi oggetto di causa non configurabili come “insegne”, bensì come messaggi pubblicitari. Avverso tale sentenza proponeva appello la DEDEM AUTOMATICA s.r.l. ribadendo le tesi già svolte in primo grado. Con sentenza n. 154/65/12, depositata in data 15/11/2012, la Commissione Tributaria Regionale di Milano, sez. distaccata di Brescia, respingeva l’appello e compensava le spese processuali. 3. Avvero tale sentenza la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. Resiste con controricorso la I.C.A. s.r.l.
CONSIDERATO
che: 1. Con il primo motivo di ricorso è prospettata la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 17, comma 1-bis, della L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 10, comma 1, lett. b-bis, della L. n. 75 del 2002, art. 2-bis e del Decreto 7 gennaio 2003, art. 2, capo 3 (modalità operative per la determinazione dei trasferimenti erariali compensativi ai comuni del Ministero dell’economia e delle finanze), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 aprile 2003, n. 79. Erroneità manifesta”. La ricorrente, premesso di essere un’azienda che opera attraverso postazioni, site in spazi privati e pubblici, di strutture destinate alla riproduzione fotografica (foto tessera, stampa digitale, biglietti da visita) e di ristoro, sostiene che i cartelli e le scritte ivi apposte costituiscono l’insegna delle stesse, in quanto destinate alla comunicazione al pubblico dello specifico servizio offerto da ciascuna postazione. La sentenza impugnata, pertanto, avrebbe errato nell’escludere la natura di insegne ai mezzi esposti sulle attrezzature in questione, ponendosi peraltro in contrasto con il principio espresso da questa Corte (Cass., sez. 5, 30/10/2009, n. 23021 e Cass. 4/3/2013 n. 5337), secondo il quale il D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 17, comma 1-bis, aggiunto dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 10, non consentirebbe di introdurre distinzioni in ordine all’eventuale presenza di un possibile “concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell’insegna”. La pronuncia della CTR, peraltro, si porrebbe in manifesta violazione del D.M. 7 gennaio 2003 del Ministero dell’economia e della finanze che, nel dettare le modalità operative per la determinazione dei trasferimenti compensativi ai comuni, all’art. 2, capo 3, precisa che “rientrano nella fattispecie esenti anche le insegne di esercizio che contengono indicazioni relative ai simboli e ai marchi dei prodotti venduti, ad eccezione del caso in cui questi ultimi siano contenuti in un distinto mezzo pubblicitario esposto, cioè in aggiunta ad una insegna di esercizio… “. Inoltre, dallo stesso avviso di liquidazione risulterebbe che tutte le “insegne” in questione non superavano il limite di mq 5, come fissato dalle norme invocate ai fini della operatività dell’esenzione, con la conseguenza che le stesse devono ritenersi esenti dall’imposta di pubblicità ai sensi delle nonne richiamate nell’intitolazione del motivo. Infine, anche la considerazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale le cabine fotografiche non possono essere considerate sedi secondarie, ad avviso della ricorrente risulterebbe contraria al disposto del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1bis, atteso che tale norma non richiede in alcun modo che la cabina costituisca sede primaria o secondaria dell’attività nel senso al quale le camere di commercio si possono riferire. 1.1. Preliminarmente, va affermata l’ammissibilità del motivo, diversamente da quanto eccepito in controricorso, sotto il profilo dell’autosufficienza, con particolare riguardo alla previsione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3. Ad avviso della controricorrente la parte del ricorso dedicata alla descrizione delle fasi processuali di primo e secondo grado sarebbe affetta da incompletezza perchè riporta solo il contenuto delle doglianze della ricorrente DEDEM, omettendo completamente di dare conto delle difese svolte dalla I.C.A. s.r.l. nei due gradi di giudizio. Osserva il Collegio che il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), deve consistere in una esposizione volta a garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass., SU, 18/05/2006, n. 11653, Rv. 588770 – 01). La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass., SU, 20/02/2003, n. 2602, Rv. 560622 – 01). Ne deriva che la prescrizione posta dal citato art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, può ritenersi osservata quando dal ricorso, ancorchè non siano esplicitate le difese in diritto svolte dalla parte resistente nei diversi gradi di giudizio, queste risultino agevolmente desumibili in ragione della narrazione complessiva della vicenda processuale, tenuto anche conto della materia del contendere e delle ragioni di fatto e di diritto fatte valere dalla parte ricorrente. Nella specie, la ricorrente ha precisato che la controversia ha avuto ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento per il pagamento di imposte comunali relative ad impianti pubblicitari apposti su cabine per riproduzioni fotografiche e che i motivi di impugnazione si fondavano sulla pretesa esenzione dall’imposta per non avere i mezzi in questione carattere pubblicitario, ricorrendo i requisiti di dimensione e di scopo propri dell’insegna di esercizio esente dall’imposta stessa; la ricorrente ha altresì riportato, sia pure succintamente, le decisioni di primo e di secondo grado, con le relative ragioni, fondate sulla ritenuta natura di messaggi pubblicitari delle postazioni in discorso e sulla loro non equiparabilità a sedi secondarie: tale ricostruzione del fatto sostanziale e processuale appare sufficiente per comprendere i fatti di causa nonchè la posizione difensiva della parte resistente, evidentemente ferma nel qualificare siccome pubblicitarie le strutture assoggettate all’imposta in contrapposizione alla avversa pretesa di accedere all’esenzione, e, soprattutto, risulta sufficiente per consentire alla Corte di operare una piena valutazione delle censure mosse alle sentenza impugnata. 1.2. Nel merito, il motivo è infondato. La CTR, sul punto, ha confermato la sentenza di primo grado, che aveva escluso che le cabine fototessera potessero considerarsi “insegna”, ritenendo, da un lato, che le cabine in questione non potessero considerarsi “sedi secondarie”, in quanto non compaiono sul certificato della Camera di Commercio e non vi operano rappresentanti della società, e dall’altro, che i mezzi esposti su dette cabine non sono solo esplicativi dell’uso dell’apparecchiatura, ma anche mezzi pubblicitari. La ricorrente assume, invece, che il giudice tributario di secondo grado avrebbe dovuto riconoscere l’esenzione dal tributo, come prevista dal D.Lgs. n. 507 del 1994, art. 17, comma 1-bis, in ragione del fatto che le strutture in questione riportavano la descrizione del servizio offerto, come emergerebbe dallo stesso avviso di accertamento di cui è causa, e, pertanto, erano destinate alla comunicazione al pubblico dello specifico servizio offerto da ogni postazione, dovendo conseguentemente qualificarsi insegne di esercizio, e non pubblicità, potendo quest’ultima ravvisarsi solo in presenza di cartelli svincolati dal luogo di esercizio dell’attività. Giova ricordare che, in linea generale, i presupposti applicativi dell’imposta di cui si discorre sono disciplinati dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 5, a mente del quale “la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile è soggetta all’imposta sulla pubblicità prevista nel presente decreto. Ai fini dell’imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell’esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato. A sua volta, il medesimo D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, stabilisce i casi di esenzione dall’imposta, prevedendo al comma 1 bis, per quanto qui rileva, che “l’imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a cinque metri quadrati”. Il D.L. 22 febbraio 2002, n. 13, art. 2bis, comma 6, convertito in L. 14 aprile 2002, n. 75, ha poi chiarito che “si definisce insegna di esercizio la scritta di cui al regolamento di cui al D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, art. 47, comma 1, che abbia la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell’attività economica. In caso di pluralità di insegne l’esenzione è riconosciuta nei limiti di superficie di cui al comma 1”. Di analogo tenore è il richiamato D.P.R. n. 495 del 1992, art. 47, comma 1, che definisce “insegna” “la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da un simbolo o da un marchio realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa. Può essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta”. Ne deriva che le insegne ubicate in luoghi diversi dalla sede sono soggetti all’imposta (Cass., sez. 5, 11/05/2012, n. 7348, Rv. 622894 – 01). Ciò posto, nella fattispecie in esame, in cui pacificamente si discorre di pannelli apposti su distributori automatici (cabine per foto, foto per documenti, fototessera, ecc.), ai fini della applicazione dell’esenzione ai sensi della norma invocata dalla ricorrente, correttamente la sentenza impugnata ha in primo luogo valutato se le postazioni di distribuzione automatica possano essere configurate quali “sedi” di svolgimento dell’attività commerciale, giungendo correttamente ad escludere tale possibilità. In proposito, va richiamato il precedente di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, che, in un analogo caso, ha escluso la riconducibilità dei distributori automatici al concetto di “sede” (cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, Rv. 634248 01). A tale conclusione la citata sentenza è pervenuta osservando che non è rinvenibile altra nozione normativa, ai fini civilistici, di sede delle persone giuridiche (qual è l’odierna ricorrente, in quanto società di capitali avente, quindi, personalità giuridica), se non quella formale (c.d. sede legale) risultante dall’atto costitutivo e dallo statuto (cfr. artt. 46 e 16 c.c.), alla quale si aggiunge correntemente, per l’equiparazione a determinati effetti nei confronti dei terzi, la nozione di sede effettiva, tale intendendosi il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti (cfr. Cass., sez. L, 12 marzo 2009, n. 6021, Rv. 607263 – 01; Cass., sez. L, 13 aprile 2004, n. 7037, Rv. 572032 – 01). Tanto premesso, risulta di intuitiva evidenza che le cabine per fototessera e/o le postazione automatiche di distribuzione di cibi o bevande non possono essere ricondotte nè al concetto di sede legale nè a quello di sede effettiva di esercizio dell’attività sociale come sopra richiamati, e neppure può ipotizzarsi un rapporto pertinenziale con la sede della società, in ragione dell’ampia diffusione territoriale che impedisce a monte la stessa configurabilità di un rapporto durevole di servizio del singolo distributore alla sede sociale. A tali considerazioni deve aggiungersi l’ulteriore rilievo, decisivo al fine di escludere che al punto automatico di esercizio dell’attività possa attribuirsi la qualificazione di “sede”, che tale concetto viene a costituire nella fattispecie in esame il presupposto per l’applicazione di una norma, quale il menzionato D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1bis, che prevede un’esenzione fiscale, come tale da ritenersi di stretta interpretazione (cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, in motivazione). La sentenza impugnata, pertanto, ha correttamente affermato che le cabine automatiche non possono considerarsi “sede” della società, ed è conseguentemente pervenuta ad una corretta decisione di esclusione del diritto all’esenzione, atteso che tale circostanza osta all’applicabilità del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1 bis, invocato dalla ricorrente. Resta assorbito l’ulteriore argomento dedotto dalla società ricorrente in riferimento alla asserita irrilevanza, ai fini dell’applicabilità della esenzione, dell’eventuale concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria della insegna stessa, siccome desumibile dal precedente di questa Corte n. 23021 del 2009 e dal D.M. 7 gennaio 2003, art. 2, capo 3: tale questione, infatti, attiene al contenuto dell’insegna e presuppone che si tratti di “insegna” installata nella “sede” dell’attività cui si riferisce, requisito che, per quanto sopra evidenziato, non può ritenersi sussistente nel caso in esame. Esclusa l’applicabilità dell’esenzione, la sentenza impugnata ha quindi correttamente confermato il rigetto del ricorso proposto in primo grado dalla DEDEM AUTOMATICA, ritenendo, con accertamento in fatto non censurato nè censurabile in questa sede, che i mezzi esposti sulle cabine non fossero solo esplicativi sull’uso delle apparecchiature, ma anche mezzi pubblicitari. Quest’ultima affermazione è infatti coerente con il principio, già affermato da questa Corte e condiviso dal Collegio, secondo il quale, ai fini dell’imposta sulla pubblicità, costituisce fatto imponibile qualsiasi mezzo di comunicazione con il pubblico che risulti – indipendentemente dalla ragione e finalità della sua adozione – obbiettivamente idoneo a far conoscere indiscriminatamente alla massa indeterminata di possibili acquirenti ed utenti cui si rivolge il nome, l’attività ed il prodotto di una azienda, non implicando la funzione pubblicitaria una vera e propria operazione reclamistica o propagandistica e non essendo, quindi, la stessa incompatibile con altre finalità (V. Cass., sez. 5, 30/06/2010, n. 15449, Rv. 613891 – 01). Nè la ricorrente ha mai prospettato nei gradi di merito (e tantomeno in questa sede) che la comunicazione così realizzata possa essere ricondotta ad altre ipotesi di esenzione dall’imposta pubblicitaria, e specificamente a quelle previste dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1, lett. a) e b), con riferimento alle insegne non riconducibili nella nozione di “insegna di esercizio”, contemplata dalla sola ipotesi di cui al medesimo D.Lgs., art. 17, comma 1bis. 2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in tema di onere della prova”. La ricorrente censura la sentenza impugnata per avere invertito l’onere probatorio gravante sulle parti ai sensi dell’art. 2697 c.c., erroneamente attribuendolo alla contribuente anzichè al concessionario, nella parte in cui avrebbe affermato che “… le insegne di esercizio godono dell’esenzione se inferiori a 5 mq purchè possano definirsi tali, e cioè riportino la denominazione della società produttrice, il logo della sede, la sede, i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi offerti, elementi che la società ricorrente non ha dimostrato di possedere”. 2.1. Il motivo deve dichiararsi inammissibile per carenza di interesse, stante l’esito del giudizio sul primo motivo. Infatti, la necessità, ai fini dell’applicazione dell’esenzione dall’imposta comunale sulla pubblicità, che le insegne per le quali si invochi il beneficio siano installate su strutture definibili come “sede” dell’attività, requisito nella specie rimasto escluso, rende ininfluente accertare in concreto il contenuto delle insegne oggetto di causa. Peraltro, per completezza si osserva che il motivo risulta inammissibile anche perchè non si rapporta alla decisione della sentenza impugnata, atteso che la censura viene riferita ad affermazioni (ossia quelle trascritte in corsivo al punto 2) che non sono affatto rinvenibili nella medesima sentenza. Quest’ultima, infatti, superando le questioni attinenti al riparto dell’onere probatorio, ha ritenuto raggiunta la prova in ordine al superamento dei limiti dimensionali necessari ai fini del riconoscimento dell’esenzione (circostanza che, peraltro, oltre ad essere stata affermata come ulteriore ratio decidendi, risulta comunque ininfluente nel caso in esame, stante la ritenuta non riconducibilità dei mezzi in discorso alla nozione di insegna commerciale esente dall’imposta); si legge infatti nella motivazione che “la Commissione ritiene inoltre corretto anche quanto affermato dall’Ufficio e dichiarato in sentenza dai giudici di primo grado riguardo alla superficie delle cabine che superando i 5 mq. non possono pertanto essere considerate esenti dall’imposta dovuta”. 3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. La peculiarità della fattispecie e l’assenza di specifici precedenti di legittimità alla data di proposizione del ricorso rendono equo compensare interamente tra le parti le spese del presente grado. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 (notifica del 13 maggio 2013), ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte: – rigetta il ricorso. – compensa le spese del presente giudizio di legittimità; Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1bis. Così deciso in Roma, dalla 5 sezione civile della Corte di cassazione, il 3 dicembre 2018. Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2019