Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.8047 del 21/03/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5722-2017 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI SAN VALENTINO 21, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CABRONETTI, lo rappresenta difende unitamente all’avvocato ROBERTO DELLA VECCHIA;

– ricorrente –

contro

CONSOB – COMMISSIONE NAZIONALE PER LA SOCIETA’ E LA BORSA, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la propria sede, VIA GIOVANNI BATTISTA MARTINI 3, rappresentata e difesa dagli avvocati SALVATORE PROVIDENTI, GIANFRANCO RANDISI e ELISABETTA CAPPARIELLO;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, n. cron. 1179/2016 depositata il 27/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/11/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TRONCONE Fulvio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato DELLA VECCHIA ROBERTO, difensore del ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

uditi gli Avvocati PROVIDENTI SALVATORE e CAPPARIELLO ELISABETTA, difensori del resistente che hanno chiesto i1 rigetto dei ricorso.

FATTI DI CAUSA

Il sig. M.M. ha proposto ricorso per la cassazione dell’ordinanza con cui la corte d’appello di Firenze ha rigettato l’opposizione da lui proposta avverso la delibera della CONSOB n. 18.850 del 2.4.14.

Con tale delibera la CONSOB aveva irrogato nei confronti del sig. M. la sanzione pecuniaria di Euro 5.000, ai sensi dell’art. 191, comma 2, T.U.F., per avere egli, nella sua qualità di responsabile pro tempore della Direzione Territoriale Private della banca Monte dei Paschi di Siena ed in violazione dell’art. 34 decies, comma 1, lett. a), del Regolamento Emittenti (adottato con delibera CONSOB n. 11971/99 e successive modificazioni) diffuso ai clienti retail, nel periodo dal 9.10.10 al 5.11.10, informazioni inerenti al prodotto ABS “*****” non coerenti con quelle contenute nel prospetto pubblicato il 5.11.10.

Il ricorso si fonda su 12 mezzi di impugnazione.

La CONSOB si è difesa con controricorso.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza dell’8.11.18, per la quale entrambe le parti hanno depositato una memoria difensiva e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, riferito al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione del principio del favor rei (art. 2 c.p.p. e art. 3 Cost.).

Il ricorrente deduce che, in forza di tale principio, la corte territoriale avrebbe dovuto annullare la sanzione irrogata nei suoi confronti, facendo applicazione retroattiva della più favorevole disciplina recata dal disposto della D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 191, comma 2-bis, (T.U.F.), introdotto dal D.Lgs. n. 72 del 2015; tale disposto (rimasto immutato, ancorchè spostato nel comma 5, a seguito della riscrittura dell’art. 191 T.U.F. operata dal D.Lgs. n. 71 del 2016) prevede che, quando il soggetto su cui grava l’osservanza delle disposizioni violate sia una società o un ente, la sanzione cada sulla società o sull’ente e non sugli esponenti aziendali e sul personale, la cui responsabilità residua nei soli casi previsti dall’art. 190-bis, comma 1, lett. a), vale a dire nelle ipotesi – nella specie, argomenta il ricorrente, insussistenti – che la condotta dell’esponente o del dipendente abbia inciso in modo rilevante sulla complessiva organizzazione o sui profili di rischio aziendali, ovvero abbia provocato un grave pregiudizio per la tutela degli investitori o per la trasparenza, l’integrità e il corretto funzionamento del mercato.

Nel mezzo di ricorso si deduce, a sostegno dell’assunto dell’applicabilità del principio del favor rei, la natura sostanzialmente penale – alla stregua dei criteri fissati nella sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, Engel c. Paesi Bassi – della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 191, comma 2, T.U.F. per la violazione delle disposizioni generali o particolari emanate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 95 T.U.F.; tra tali disposizioni rientrano quelle dettate dall’art. 34-decies, comma 1, lett. a), del Regolamento Emittenti, la cui violazione viene addebitata al sig. M. con il provvedimento sanzionatorio impugnato nel presente giudizio. Al riguardo il ricorrente sottolinea la rilevante entità del massimo edittale (Euro 500.000), la sua incidenza sulla reputazione del sanzionato (rilevante ai fini dell’assunzione di ulteriori incarichi) e l’impossibilità dell’oblazione.

Sulla scorta di detta premessa, il ricorrente deduce che la natura sostanzialmente penale della sanzione, solo formalmente amministrativa, imporrebbe l’applicazione della disciplina sanzionatoria posteriore più favorevole ai sensi dell’art. 2 c.p. e dell’art. 3 Cost. e solleva la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, laddove dispone che “Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia continuano ad applicarsi le norme della parte V del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo”, in relazione all’art. 117 Cost., comma 1 (con riferimento al dovere di rispettare, nell’esercizio della potestà legislativa, i vincoli derivanti dall’adesione dell’Italia alla CEDU) e art. 3 Cost..

Osserva al riguardo il Collegio che la possibilità di applicare retroattivamente la più favorevole disciplina sanzionatoria dettata dal D.Lgs. n. 72 del 2015 risulta normativamente preclusa dal chiaro tenore letterale della disposizione, sopra trascritta, contenuta nel comma 2 dell’art. 6 del medesimo decreto legislativo; diposizione, può peraltro aggiungersi, pienamente coerente il tradizionale insegnamento giurisprudenziale alla cui stregua il principio del “favor rei”, di matrice penalistica, non si estende – in assenza di una specifica disposizione normativa – alla materia delle sanzioni amministrative, la quale invece soggiace al distinto principio del “tempus regit actum” (cfr. Cass. n. 4114/16; Cass. n. 13433/16; Cass. n. 20689/18; si veda anche Cass. n. 29411/11, secondo cui, in tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, di irretroattività e di divieto di applicazione analogica fissati dal L. n. 689 del 1981, art. 1 comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali “ab origine”, senza che possano trovare applicazione analogica gli opposti principi di cui all’art. 2 c.p., commi 2 e 3).

Si tratta, allora, di scrutinare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal ricorrente in ordine all’art. 6, comma 2, di tale decreto legislativo, in relazione agli artt. 117 e 3 Cost..

Per quanto concerne il parametro costituzionale di cui all’art. 117 Cost., con riferimento alle norme interposte contenute nella CEDU, questa Corte si è già espressa – giudicando la questione irrilevante proprio in relazione alla sanzione di cui all’art. 191, comma 2, T.U.F. – con la già richiamata sentenza della prima Sezione n. 4114/16, che ha affermato che l’esclusione della retroattività della più favorevole disciplina sanzionatoria recata in materia di intermediazione finanziaria dal D.Lgs. n. 72 del 2015 non viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 Grande Stevens ed altri c/o Italia, atteso che tali principi vanno considerati nell’ottica del giusto processo, che costituisce l’ambito di specifico intervento della Corte EDU, e “non possono portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno”. (pag. 17).

Tale argomentazione – ripresa anche nella sentenza, pure citata, n. 13433/16, ancora della prima Sezione, con riferimento alle sanzioni di cui all’art. 190 T.U.F. e poi da numerosi precedenti di questa Sezione – non risulta completamente appagante, in quanto non appare idonea, di per sè sola, ad escludere la possibilità di frizione tra l’ordinamento convenzionale e l’esclusione della retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative.

Se, infatti, è vero che l’ordinamento convenzionale non impone “l’estensione in ogni campo dei principi propri della materia penale ai diversi principi invece propri della materia degli illeciti amministrativi” (così Cass. 4114/16, pag. 19) è tuttavia parimenti vero che “L’attrazione di una sanzione amministrativa nell’ambito della materia penale in virtù dei menzionati criteri trascina, dunque, con sè tutte e soltanto le garanzie previste dalle pertinenti disposizioni della Convenzione, come elaborate dalla Corte di Strasburgo. Rimane, invece, nel margine di apprezzamento di cui gode ciascuno Stato aderente la definizione dell’ambito di applicazione delle ulteriori tutele predisposte dal diritto nazionale, in sè e per sè valevoli per i soli precetti e le sole sanzioni che l’ordinamento interno considera espressione della potestà punitiva dello Stato, secondo i propri criteri. Ciò, del resto, corrisponde alla natura della Convenzione Europea e del sistema di garanzie da essa approntato, volto a garantire una soglia minima di tutela comune, in funzione sussidiaria rispetto alle garanzie assicurate dalle Costituzioni nazionali. Detto diversamente, ciò che per la giurisprudenza Europea ha natura “penale” deve essere assistito dalle garanzie che la stessa ha elaborato per la “materia penale”; mentre solo ciò che è penale per l’ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presidi rinvenibili nella legislazione interna” (così, C.Cost. n. 43/17, p. 3.4).

Se, dunque, l’attribuzione della qualificazione di una sanzione amministrativa come sanzione sostanzialmente penale, secondo i criteri Engel, trascina con sè tutte le garanzie previste dalle pertinenti disposizioni della Convenzione, tale attribuzione trascina con sè non soltanto il diritto fondamentale al giusto processo, garantito dall’art. 6 CEDU (sui cui si è pronunciata la sentenza Grande Stevens), ma anche il diritto fondamentale a non essere assoggettati ad una sanzione più grave di quella prevista dalla legge vigente al momento del giudizio, garantito dall’art. 7 CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte EDU nella sentenza Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009 (alla cui stregua tale articolo “non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa”, p. 109).

La qualificazione di una sanzione amministrativa come “sostanzialmente penale” o no, secondo i criteri Engel, risulta allora necessaria non soltanto per stabilire se il procedimento per la relativa irrogazione debba rispettare le garanzie fissate dall’art. 6 CEDU, ma anche per stabilire se la successione nel tempo di diverse diposizioni sanzionatorie soggiaccia al disposto dell’art. 7 CEDU.

Tanto premesso, va tuttavia rilevato che l’esito decisionale a cui è pervenuta la sentenza n. 4114/16 in punto di non retroattività della lex mitior per gli illeciti sanzionati dall’art. 191, comma 2, T.U.F. dev’essere confermato e, ciò, per la decisiva considerazione che alla sanzione contemplata in tale disposizione non può riconoscersi natura sostanzialmente penale secondo i criteri Engel. In numerosi e recenti arresti di questa Sezione (sentt. nn. 1621/18, 8805/18, 8806/18, 27365/18) si è, infatti, evidenziato che le sanzioni previste dall’art. 191 T.U.F. (anche quelle che presentano massimi editali più alti di quello previsto per la sanzione di cui al comma 2 di tale articolo) non sono equiparabili a quelle previste per la manipolazione del mercato ex art. 187-ter T.U.F. (la cui natura sostanzialmente penale è stata affermata dalla Corte EDU nella sentenza Grande Stevens) e, ciò, in ragione dalla “diversa tipologia, severità, nonchè incidenza patrimoniale e personale, di queste ultime rispetto alle prime, dovendosi a tal fine tenere conto anche dell’assenza di sanzioni accessorie e della mancata previsione di una confisca obbligatoria (elementi presenti nella fattispecie scrutinata dalla Corte EDU)” (così, in particolare, Cass. 8805/18, pag. 19, p. 6.2, in fine).

– Per quanto specificamente concerne la sanzione di cui al comma 2 dell’art. 191 T.U.F. il Collegio fa propri tali rilievi, non potendosi condividere l’assunto della difesa del ricorrente secondo cui la misura del massimo edittale (pari ad Euro 500.000, non ad Euro 250.000, come erroneamente affermato nella ordinanza impugnata con una inesattezza, peraltro, priva di portata decisoria) supererebbe “la soglia di rilevanza dell’afflittività economica” (pag. 8 della memoria ex art. 378 c.p.c.); in proposito va considerato che – se è vero che i criteri Engel sono alternativi e non cumulativi (Grande Stevens, p. 94) e che, ai fini dell’applicazione del criterio della gravità della sanzione, deve aversi riguardo alla misura della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta (Grande Stevens, p. 98) – va tuttavia considerato che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può essere svolta in termini totalmente astratti, ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce; e non sembra potersi dubitare che, nell’ordinamento sezionale del credito e della finanza (che contempla sanzioni penali finanche detentive, nonchè sanzioni amministrative pecuniarie che, come quelle per gli abusi di mercato, possono ascendere a molti milioni di Euro) una sanzione pecuniaria compresa tra il minimo edittale di Euro 5.000 ed il massimo edittale di Euro 500.000, non corredata da sanzioni accessorie nè da confisca, non può ritenersi connotata da una afflittività così spinta da trasmodare dall’ambito amministrativo a quello penale.

Dall’esclusione della natura sostanzialmente penale della sanzione di cui si tratta discende la non rilevanza della questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui al D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, in relazione all’art. 117 Cost..

Per quanto poi concerne l’ipotizzato contrasto della suddetta disposizione con l’art. 3 Cost., il ricorrente argomenta che l’esclusione della retroattività della lex mitior sarebbe irragionevolmente difforme dalla disciplina delle sanzioni valutarie e tributarie e, peraltro, trascurerebbe irragionevolmente l’indicazione dalla legge di delega (L. 14 ottobre 2014, n. 154, art. 3, comma 1, lett. a, punto 1) di “valutare l’estensione del principio del favor rei ai casi di modifica della disciplina vigente al momento in cui è stata commessa la violazione”. Entrambi tali rilievi non appaiono idonei a superare il vaglio di non manifesta infondatezza, sol che si consideri, per l’un verso, che la diversità tra la materia finanziaria e le materie tributaria e valutaria è sufficiente ad escludere che la scelta legislativa di diversificare le rispettive discipline sanzionatorie possa incorrere in una censura di irragionevolezza apprezzabile ai sensi dell’art. 3 Cost.; per l’altro verso, che la legge di delega mandava al legislatore delegato di “valutare” l’estensione del principio del favor rei, senza in alcun modo vincolare l’esito di tale valutazione.

In definitiva, il primo mezzo di ricorso va rigettato.

Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dei principi del giusto processo ex art. 6 CEDU, in relazione al procedimento di opposizione al provvedimento sanzionatorio.

Il ricorrente solleva altresì la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 8, per contrasto con l’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui esso si limita a prevedere, per i giudizi ex art. 195 T.U.F. pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, che le udienze siano pubbliche, senza assoggettare tali giudizi alla disciplina del comma 7 del medesimo art. 195 T.U.F., come modificato dallo stesso D.Lgs. n. 72 del 2015. Al riguardo si argomenta che il carattere pubblico dell’udienza non varrebbe di per sè a garantire il rispetto dei principi del giusto processo e si lamenta che il rito camerale, non corredato dalla disciplina procedimentale introdotta nel novellato comma 7 dell’art. 195 T.U.F., non assicurerebbe, in ragione della estrema semplificazione delle regole procedurali e della mancanza di una vera e propria fase istruttoria, la formazione della prova dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale nel pieno rispetto del principio del contraddittorio e della parità delle armi. Il giudizio di opposizione ex art. 195 T.U.F., come disciplinato prima delle modifiche recate dal D.Lgs. n. 72 del 2015, risulterebbe così inidoneo, secondo il ricorrente, a “rimediare ai vizi della fase amministrativa, svolta in violazione dei principi del giusto procedimento” (così ricorso, pag. 33, penultimo cpv.).

Anche tale motivo è destituito di fondamento.

La doglianza del ricorrente secondo la quale “la procedura che ha continuato ad essere applicata ai procedimenti di opposizione ex art. 195 T.U.F. pendenti al momento dell’entrata in vigore del D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, salva la variante dell’udienza pubblica, non è comunque idonea a rispettare le garanzie di cui all’art. 6 Convenzione EDU” (così ricorso, pag. 36) si risolve in una mera petizione di principio, giacchè non offre alcuna specificazione in ordine al pregiudizio che concretamente sarebbe derivato alla parte dallo svolgimento del processo (pur sempre in udienza pubblica ma) secondo le forme dell’art. 737 c.p.c. e segg., invece che secondo le forme di cui al nuovo art. 195, comma 7, T.U.F..

La questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 8, – nella parte in cui, per i giudizi ex art. 195 T.U.F. già pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, dispone la pubblicità dell’udienza, senza, tuttavia, estendere a tali giudizi la disciplina procedimentale del novellato comma 7 del medesimo articolo – si palesa dunque irrilevante.

Essa è, peraltro, manifestamente infondata, avendo questa Corte ancora di recente ribadito che le forme del rito camerale di cui agli artt. 737 c.p.c. e segg. consentono, segnatamente nei procedimenti di natura contenziosa, il pieno dispiegamento del contraddittorio e della iniziativa istruttoria delle parti e, ciò, finanche nel caso in cui difetti la celebrazione di una udienza (si veda, con riferimento al procedimento applicabile alle controversie in materia di protezione internazionale, Cass. 17717/18: “E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 1, poichè il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di “status”, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte”).

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta che il procedimento sanzionatorio amministrativo innanzi alla CONSOB non rispetterebbe i principi del giusto procedimento e denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, l’illegittimità dell’ordinanza impugnata in dipendenza dell’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, siccome a sua volta assunto in violazione dei principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie di cui all’art. 195, comma 2, T.U.F. e di cui alla L. n. 262 del 2005, art. 24, comma 1. Il ricorrente assume che nel procedimento sanzionatorio amministrativo egli “non è stato posto in condizioni di difendersi” (così ricorso, pagg. 43) e lamenta l’inadeguatezza di una “ricostruzione del modello procedimentale-processuale che legittimi un procedimento amministrativo “ingiusto” a fronte di un (eventuale) processo di opposizione “giusto”, in funzione riparatoria” (così ricorso, pag. 56).

Prima di procedere allo scrutinio del terzo motivo, conviene sottolineare che esso non si fonda, come i primi due motivi, sul disposto dell’art. 6 CEDU (non lamenta, cioè, uno scostamento della disciplina legale del procedimento sanzionatorio della CONSOB, dettata dall’art. 195 T.U.F. e L. n. 262 del 2005, art. 24, dai principi convenzionali a cui il legislatore nazionale deve adeguarsi ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 1), ma si muove interamente nell’orizzonte dell’ordinamento interno, denunciando lo scostamento del procedimento sanzionatorio della CONSOB – quale risultante dalla disciplina regolamentare anteriore alle modifiche introdotte con la delibera della stessa CONSOB n. 29.158 del 29.5.15 – dai principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori e della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie fissati dalla disciplina legale dettata dai menzionati art. 195 T.U.F. e L. n. 262 del 2005, art. 24.

La questione di diritto posta con il motivo in esame prescinde, quindi dalla natura penale della sanzione impugnata nel presente giudizio, agli effetti del’art. 6 CEDU (natura già esclusa nell’ambito dello scrutinio dei motivi precedenti).

Ciò premesso, la doglianza relativa alla violazione dei principi del contraddittorio nel procedimento davanti alla CONSOB va disattesa per un duplice ordine di considerazioni.

In primo luogo, il Collegio rileva che detta doglianza non viene accompagnata dall’indicazione di alcuno specifico pregiudizio che dalla suddetta violazione sarebbe derivato al diritto di difesa del ricorrente, salvo il riferimento, del tutto astratto, all’ipotesi che “la partecipazione del sig. M. alla riunione di Commissione avrebbe consentito al medesimo di focalizzare l’attenzione della Commissione sul suo caso peculiare, che invece non è stato minimamente sfiorato durante la riunione della Commissione medesima” (pag. 58 del ricorso). A tal proposito va qui ribadito il principio, enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 20935/09, che la doglianza relativa alla violazione del diritto al contraddittorio presuppone la deduzione di una lesione concreta ed effettiva del diritto di difesa specificamente conculcato o compresso nel procedimento sanzionatorio. Detto principio, più volte ripetuto nella giurisprudenza di legittimità (ex multis, per l’applicazione delle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, sent. n. 27038/13 e, per l’applicazione delle sanzioni irrogate dalla CONSOB, sent. n. 24048/15), merita conferma e seguito, giacchè, come sottolineato in Cass. 8210/16, esso si colloca nella medesima prospettiva ermeneutica suggerita dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 24823/15, ove, in tema di contraddittorio nel procedimento tributario (in materia di tributi “armonizzati”), si è affermato che “la violazione del diritto al contraddittorio comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere”. Tale affermazione privilegia una lettura sostanzialistica (della tutela del) del diritto al contraddittorio, che richiama il pragmatico canone giuspubblicistico della strumentalità delle forme e risulta in piena sintonia con il diritto dell’Unione Europea e, in particolare, con gli approdi della giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia sull’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali (cfr. CGUE sentt. 3.7.2014, Kamino International Logistics, ove si afferma che la violazione dei diritti di difesa, in particolare del diritto ad essere sentiti prima dell’adozione di provvedimento lesivo, determina l’annullamento dell’atto adottato al termine del procedimento amministrativo soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, detto procedimento “avrebbe potuto comportare un risultato diverso”; nello stesso senso, si veda anche la sentenza 26.9.2013, Texdata Software).

In secondo luogo, il Collegio non ritiene condivisibile l’assunto propugnato dal ricorrente sulla scorta della sentenza del Consiglio di Stato n. 1596/15 – dell’illegittimità, per violazione dei principi fissati dall’art. 195 T.U.F. e L. n. 262 del 2005, art. 24, del procedimento sanzionatorio adottato della CONSOB prima delle modifiche recate dalla delibera n. 29.158 del 29.5.15.

Le argomentazioni sviluppate nel menzionato precedente del Consiglio di Stato – peraltro qualificabili come un obiter dictum, non essendosi tradotte in alcuna statuizione di annullamento (il decisum della sentenza del Consiglio di Stato n. 1596/15 si risolve in una declaratoria di inammissibilità del ricorso delle parti private per carenza di interesse) – non appaiono a questa Corte persuasive. Nella suddetta sentenza n. 1596/15, infatti, alla nozione di garanzia del contraddittorio viene attribuita, nell’ambito del procedimento sanzionatorio de quo, una portata più stringente rispetto a quella evincibile dalle regole generali del diritto amministrativo, con un conseguente significativo aumento delle garanzie di partecipazione procedimentale, che vengono assunte come doverose in quanto funzionali all’esercizio del diritto di difesa della parte privata. Tale esito ermeneutico non trova, tuttavia, convincente riscontro nel testo dell’art. 195 T.U.F. e L. n. 262 del 2005, art. 24, nè pare potersi validamente fondare sulla interpretazione sistematica delle disposizioni ivi contenute.

Sul piano dell’interpretazione letterale, è sufficiente considerare che la stessa sentenza n. 1596/15 non manca di sottolineare “che la disposizione legislativa, nel richiamare il principio del contraddittorio, non fissa esplicitamente un livello minimo di tutela, nè tantomeno impone l’adozione di un modulo procedimentale che offra garanzie del tutto equiparabili a quelle proprie del giusto processo giurisdizionale” (p. 26).

Sul piano dell’interpretazione sistematica, non possono che condividersi i rilievi svolti nel paragrafo n. 27 della sentenza n. 1596/15, laddove si afferma che:

– “quella di “contraddittorio” costituisce, in sè considerata, una nozione polisemica, che comprende una pluralità di livelli, più o meno alti, di tutele”;

– il livello più alto è rappresentato dal contraddittorio orizzontale e paritario, tra due parti in posizioni di parità rispetto ad un decidente terzo e imparziale, di matrice processuale;

– il contraddittorio procedimentale, per contro, è normalmente di tipo verticale – in quanto si svolge tra l’interessato e l’Amministrazione titolare del potere e collocata, quindi, su un piano non paritario – ed ha essenzialmente una funzione collaborativa e partecipativa, piuttosto che difensiva.

Questa Corte, tuttavia, non condivide l’affermazione, svolta nella sentenza n. 1596/15, che “il contraddittorio richiamato per i procedimenti sanzionatori della Consob sia un contraddittorio rafforzato rispetto a quello meramente collaborativo già assicurato dalla disciplina generale del procedimento amministrativo”. Al contrario, proprio la previsione normativa di un procedimento giurisdizionale destinato ad assicurare il controllo del provvedimento amministrativo sanzionatorio da parte di un giudice terzo ed imparziale, dotato di giurisdizione piena e vincolato al rispetto di regole procedimentali necessariamente informate ai principi di cui all’art. 24 Cost., induce a ritenere che le garanzie del contraddittorio previste dalla legge per il procedimento davanti alla CONSOB siano da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, il quale non è coperto dall’art. 24 Cost. (cfr. S.S.U.U. n. 24832/15, cit., p. 4: “Le garanzie di cui all’art. 24 Cost. attengono, testualmente, all’ambito giudiziale; così pure quella di difesa di cui al comma 2, sia per collocazione, tra i commi 1 ed i commi 3 e 4 (che recano il testuale inequivocabile riferimento all’ambito giudiziale), sia per l’esplicito riferimento al “procedimento” in ogni suo “stato e grado””); esso può ritenersi soddisfatto se, prima dell’adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato; senza che sia all’uopo necessaria nè la trasmissione all’interessato delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della CONSOB, nè la personale audizione del’interessato innanzi alla Commissione.

In definitiva, quindi, deve giudicarsi infondata la censura mossa in ricorso alla statuizione della corte territoriale che ha ritenuto che la disciplina del procedimento sanzionatorio della CONSOB, anche nella versione anteriore alle modifiche del 2015, non fosse in contrasto con i principi espressi dall’art. 195 T.U.F. e L. n. 262 del 2005, art. 24.

Il quarto motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia la violazione dell’art. 34-decies Reg.Emittenti e del principio di tassatività in cui la corte territoriale sarebbe incorsa omettendo di considerare che tale disposizione prevede obblighi specifici esclusivamente a carico dell’offerente, dell’emittente e del responsabile del collocamento.

Il quinto motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5, denuncia l’assenza di motivazione sul fatto decisivo che il sig. M. non era nè offerente, nè emittente, nè responsabile del collocamento e non lavorava alle dipendenze nè della società offerente ed emittente (Casaforte s.r.l.), nè della società responsabile del collocamento (MPS Capital Service s.p.a.), ma, essendo un dipendente della Banca Monte dei Paschi di Siena, aveva agito come mero collocatore del titolo “*****”.

Il quarto ed il quinto motivo devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro stretta connessione.

In sostanza il sig. M. contesta la legittimità della sanzione a lui irrogata, deducendo che la Banca Monte dei Paschi di Siena, alle cui dipendenze egli lavorava, non svolgeva alcuna delle funzioni (offerente, emittente o responsabile del collocamento del titolo) ai cui titolari devono ritenersi rivolte le prescrizioni contenute nell’art. 34-decies Reg. Emittenti.

A sostegno del proprio assunto, il ricorrente sottolinea come la tassatività dell’elenco dei soggetti destinatari delle prescrizioni dettate nel suddetto art. 34-decies si evincerebbe dal documento di consultazione per la revisione del Regolamento Emittenti, diffuso dalla CONSOB il 13.3.02, nel quale si legge che l’art. 34-decies tende ad “individuare con maggiore precisione i soggetti cui si rivolgono le prescrizioni in esame, in considerazione del ruolo dagli stessi svolto nell’operazione e dunque della disponibilità tendenzialmente esclusiva – delle relative informazioni”. Il ricorrente invoca il principio secondo il quale le norme sanzionatorie sono di stretta interpretazione e richiama il precedente di questa Sezione n. 26132/15, ove si afferma (pag. 42) che “all’insegna del principio di tassatività e determinatezza dell’illecito amministrativo… la norma precettiva, la regola di condotta, di cui all’art. 42, comma 1, del regolamento “Emittenti”, si riferisce ad una schiera determinata e tassativa di soggetti… cosicchè la norma sanzionatoria, ossia la disposizione di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 192, comma 1, lett. a), segnatamente l’espressione “chiunque” che quivi figura, non può essere riferita che a questi ultimi, ed è insuscettibile di qualsiasi estensione ad altri”. In conclusione, secondo il ricorrente, dell’illecito amministrativo a lui addebitato (aver diffuso alla clientela, nel periodo dal 9.10.10 al 5.11.10, informazioni inerenti al prodotto ABS “*****” non coerenti con quelle contenute nel prospetto pubblicato il 5.11.10) dovrebbe, eventualmente, rispondere il responsabile del collocamento, vale a dire la società MPS Capital Service, e non esso ricorrente, mero collocatore del titolo nell’ambito di un rapporto di lavoro svolto alle dipendenze della Banca Monte dei Paschi di Siena.

La censura complessivamente veicolata nel quarto e quinto motivo va giudicata infondata.

E’ vero, infatti, che l’art. 34-decies del Regolamento Emittenti autorizza “l’offerente, l’emittente e il responsabile del collocamento” a procedere, “direttamente o indirettamente”, alla diffusione di notizie, allo svolgimento di indagini di mercato e alla raccolta di intenzioni di acquisto attinenti all’offerta al pubblico anche prima della pubblicazione del prospetto informativo, purchè vengano osservate determinate modalità di comportamento (tra le quali, per quanto qui interessa, che “le informazioni diffuse siano coerenti con quelle contenute nel prospetto”); ma non è vera la conclusione che il ricorrente pretende di trarre da tale rilievo, ossia che la responsabilità dell’osservanza di dette modalità di comportamento gravi esclusivamente sui suddetti soggetti e non anche su tutti coloro attraverso la cui attività tali soggetti procedano, anche “indirettamente”, alla diffusione di notizie, allo svolgimento di indagini di mercato e alla raccolta di intenzioni di acquisto attinenti all’offerta al pubblico anche prima della pubblicazione del prospetto informativo.

Non può quindi darsi seguito al precedente di questa Sezione n. 26132/15, il quale, peraltro, si riferisce a testi normativi non totalmente sovrapponibili a quelli in esame in questa causa. Se, infatti, le norme sanzionatorie di cui si tratta – l’art. 192, comma 10, e l’art. 191, comma 2, del T.U.F. – hanno una struttura analoga, giacchè entrambe tali disposizioni fanno riferimento ad un agente indeterminato (“chiunque”), non altrettanto può dirsi per le norme precettive che vengono in considerazione, le quali presentano strutture difformi. Infatti, mentre l’art. 42 del Regolamento Emittenti ha un contenuto immediatamente prescrittivo di condotte per “i soggetti interessati” (i quali “si attengono… compiono… non eseguono… si astengono”), l’art. 34-decies del medesimo Regolamento Emittenti ha in prima battuta un contenuto permissivo nei confronti degli emittenti, offerenti e responsabili del collocamento (“possono procedere”), mentre i precetti – pur formulati in guisa di condizioni di esercizio dell’attività permessa (come fatto palese dall’uso della parola “purchè”) – vengono tuttavia enunciati (non senza ragione, è da ritenere) senza l’indicazione di un destinatario e in termini indeterminati, disancorati da una specifica imputazione soggettiva, mediante l’uso della forma verbale passiva (“le informazioni diffuse siano coerenti… la relativa documentazione venga trasmessa… venga fatto espresso riferimento… venga precisato”).

Deve pertanto concludersi che “chiunque” diffonda notizie su un prodotto finanziario offerto al pubblico prima della pubblicazione del relativo prospetto informativo – ancorchè nell’ambito di un’attività di collocamento svolta alle dipendenze di un soggetto (nella specie Banca Monte dei Paschi di Siena) che non sia il responsabile del collocamento ma un soggetto di cui quest’ultimo si avvalga per diffondere “indirettamente” tali notizie – deve rispondere dell’illecito amministrativo di cui all’art. 191, comma 2, T.U.F., nel caso di incoerenza delle notizie da lui diffuse con quelle contenute nell'(emanando) prospetto informativo.

Nè a diverse conclusioni può condurre il tenore del commento alla disposizione regolamentare in esame contenuto nel documento di consultazione per la revisione del Regolamento Emittenti, diffuso dalla CONSOB il 13.3.02.

A prescindere dal rilievo che in nessun caso il documento di consultazione per la revisione di un regolamento di una Autorità indipendente potrebbe incidere sul contenuto di una disposizione di legge come l’art. 191, comma 2, T.U.F., il Collegio ritiene di dover comunque sottolineare come l’esame dell’intero testo di tale commento conduca a conclusioni opposte a quella sostenute dalla difesa del ricorrente. Tale testo così recita:

“La disposizione in esame è volta a contemperare, da una parte, l’esigenza di favorire la “conoscibilità” dell’emittente e dell’operazione che si intende promuovere, dall’altra, l’opportunità di evitare che al pubblico vengano fornite, prima della pubblicazione del prospetto informativo, informazioni non sottoposte al preventivo vaglio da parte della Consob e, in ogni caso, potenzialmente errate o incomplete.

Con le modifiche apportate si è inteso, in primo luogo, individuare con maggior precisione i soggetti cui si rivolgono le prescrizioni in esame, in considerazione del ruolo dagli stessi svolto nell’operazione e dunque della disponibilità – tendenzialmente esclusiva – delle relative informazioni.

Inoltre è parso utile modificare la definizione delle informazioni di cui è liberamente consentita la diffusione prima della pubblicazione del prospetto, precisando che le stesse ricomprendono, in ogni caso, tutti i dati destinati ad essere resi pubblici, indipendentemente dalla loro avvenuta pubblicazione. Ciò consentirà di anticipare il momento della diffusione dei dati in questione”.

Il tenore di tale commento – come si desume chiaramente dal richiamo del primo capoverso all’esigenza di “evitare che al pubblico vengano fornite, prima della pubblicazione del prospetto informativo, informazioni non sottoposte al preventivo vaglio da parte della Consob e, in ogni caso, potenzialmente errate o incomplete” – non consente certamente di operare una scissione tra l’ambito dei soggetti che materialmente diffondono le informazioni prima della pubblicazione del prospetto informativo (anche quali terzi che concorrono a realizzare l’opera di diffusione indiretta posta in essere dal responsabile del collocamento) e l’ambito dei soggetti tenuti all’obbligo di garantire la coerenza tra le informazioni diffuse e quelle destinate ad essere inserite nel prospetto informativo; al contrario, è proprio chi si rivolge ai clienti – concorrendo indirettamente all’opera di diffusione delle informazioni posta in essere dal responsabile del collocamento – che deve garantire la coerenza delle informazioni che diffonde con quelle che saranno contenute nel prospetto informativo e, quindi, deve rispondere, in sede amministrativa, della loro eventuale incoerenza, ai sensi dell’art. 191 comma 2 T.U.F..

Il quarto e quinto motivo vanno quindi, in definitiva, rigettati.

Con il sesto motivo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente premesso che il concetto di “raccolta di intenzioni di acquisto” introdotto dal citato art. 34-decies del Regolamento Emittenti non trova riscontro nè nella Direttiva 2003/71(c.d. Direttiva Prospetto) nè tantomeno in altri atti normativi dell’Unione Europea – denuncia il contrasto di tale disposizione con il principio di conformazione all’ordinamento eurounitario di cui all’art. 2, comma 1, T.U.F. nonchè con il principio che gli atti di recepimento di direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse (divieto di c.d. gold plating “rafforzato” posto dalla L. n. 183 del 2011, art. 15); sulla scorta di tale rilievo, il ricorrente lamenta la mancata disapplicazione dell’art. 34-decies del Regolamento Emittenti da parte della corte di appello.

Con il settimo motivo, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente censura l’impugnata ordinanza per l’assenza di motivazione sulla richiesta di disapplicazione dell’art. 34-decies del Regolamento Emittenti da lui avanzata sul rilievo del contrasto di tale disposizione col principio di conformazione all’ordinamento Eurounitario e col generale divieto di c.d. golden plating “rafforzato”.

Il sesto e il settimo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente poichè relativi alla medesima questione, vanno entrambi respinti.

Complessivamente, con tali mezzi di impugnazione, il ricorrente sostiene la tesi della sussistenza del dovere del giudice nazionale di disapplicare l’art. 34-decies del Regolamento Emittenti, in ragione della illegittimità del medesimo per contrasto con normativa primaria.

La doglianza è infondata, giacchè la disposizione contenuta nell’art. 34-decies Reg. Emittenti, la cui violazione è stata addebitata all’odierno ricorrente con l’impugnata ordinanza, non costituisce, contrariamente a quanto argomentato in ricorso, un livello di regolazione superiore al minimo richiesto dalle direttive dell’Unione Europea, ma rappresenta l’esatta trasposizione, nell’ordinamento nazionale, della disposizione dettata dal comma 4 dell’art. 15 della Direttiva 2003/71/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003 (c.d. Direttiva “Prospetto”), che testualmente recita: “In ogni caso, tutte le informazioni relative all’offerta al pubblico o all’ammissione alla negoziazione divulgate oralmente o per iscritto, anche se non con finalità pubblicitarie, devono essere coerenti con quelle contenute nel prospetto”. Nessun pregio può poi riconoscersi alla considerazione sviluppata dal ricorrente a pag. 12 della sua memoria ex art. 378 c.p.c., alla cui stregua il controllo della CONSOB sulla conformità alla Direttiva “Prospetto” delle modalità dell’offerta al pubblico di strumenti finanziari, essendo già contemplato dall’art. 101 T.U.F., non potrebbe formare oggetto di ulteriore previsione normativa nel Regolamento Emittenti; al riguardo è sufficiente considerare che lo stesso art. 101 T.U.F., nel comma 3, affida alla CONSOB la potestà di stabilire, “con regolamento in conformità alle disposizioni comunitarie”, i criteri ai quali deve uniformarsi la pubblicità di prodotti finanziari.

L’ottavo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 195 T.U.F. e della L. n. 689 del 1981, art. 14, deducendo che la contestazione sarebbe stata notificata oltre il termine di 180 giorni dall’accertamento fissato dall’art. 195 T.U.F.. Il ricorrente sostiene che il dies a quo del termine per la notifica delle contestazioni decorresse dal 22.5.12 – data del compimento dell’ultimo atto di indagine, rappresentato dall’audizione del sig. F. – e fosse quindi spirato il 19.11.12. Donde la tardività della contestazione, notificata solamente con nota del 19.4.13.

Il motivo è inammissibile.

Esso, ancorchè formulato come denuncia di un vizio di violazione di legge, non attinge alcuna regola di diritto enunciata – o anche soltanto implicitamente applicata – nell’impugnata ordinanza, che contrasti con l’interpretazione degli artt. 195 T.U.F. e L. n. 689 del 1981, art. 14 offerta da questa Corte (interpretazione che, va sottolineato, risulta richiamata in termini esatti e pertinenti nell’ultimo capoverso di pag. 4 della ordinanza stessa). Al contrario, la doglianza sostanzialmente censura il giudizio di fatto motivatamente espresso dalla corte d’appello secondo cui l’accertamento dell’illecito addebitato al ricorrente (dies a quo del termine per contestazione ci cui dell’art. 195 T.U.F.) doveva ritenersi completato con la conclusione dell’ispezione svolta sulla Banca dal 25.1.2012 al 30.10.12. A tale giudizio di fatto il ricorrente contrappone la propria diversa lettura delle risultanze di causa, alla cui stregua l’accertamento dell’illecito a lui addebitato si sarebbe completato con l’audizione del sig. F., effettuata in data 22.5.12; nel mezzo di ricorso, infatti, si contestano gli argomenti posti dalla corte territoriale a fondamento della propria decisione (ossia che i fatti contestati al sig. M. erano strettamente connessi al tema dell’ispezione del 2012, la quale, “aveva la funzione sia di dare seguito alla precedente ispezione del 2009 sia di verificare le “rassicurazioni” fornite dalla banca in merito alle cautele indicate in occasione del collocamento dei titoli *****”). Ma tale contestazione – lungi dall’individuare un fatto storico, decisivo e discusso tra le parti, il cui esame sarebbe stato trascurato nell’impugnata ordinanza – si risolve in una critica agli apprezzamenti di fatto della corte di appello palesemente apodittica (cfr. pag. 73 del ricorso, p. 8.4: “chiaramente non rileva il semplice fatto che l’ispezione svolta sulla Banca nel corso del 2012 avesse una funzione di seguito alla precedente ispezione del 2009…. chiaramente, non vi è neppure quella eventuale connessione tra le diverse contestazioni”) che in nessun modo può essere ricondotta al paradigma fissato dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012 e che, in definitiva, postula una rivalutazione delle risultanze istruttorie notoriamente inammissibile nel giudizio di legittimità.

Il nono motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5, denuncia l’assenza di motivazione sul fatto decisivo che l’addebito per il quale è stata irrogata l’impugnata sanzione – relativo alla difformità delle informazioni fornite agli investitori rispetto a quelle contenute nel prospetto informativo, con riguardo alla durata dell’investimento ed alle condizioni del relativo smobilizzo aveva formato oggetto di contestazione nei confronti del sig. M. solo con riferimento alla durata dell’investimento e non anche con riferimento alle condizioni di smobilizzo.

Il motivo è inammissibile.

La corte di appello non ha specificamente argomentato sul motivo di opposizione con il quale il sig. M. aveva lamentato il difetto di contestazione di una delle condotte per le quali egli era stato sanzionato, ossia la diffusione di notizie non coerenti con quelle contenute nel prospetto informativo in ordine alle condizioni di smobilizzo del titolo *****.

Tale omissione, tuttavia, non integra il vizio – denunciato dal ricorrente di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ossia il vizio di omesso esame di un fatto decisivo (intitolato nella rubrica del motivo come “assenza di motivazione in merito al fatto decisivo”, con imprecisione terminologica innocua, giacchè non impedisce la sussunzione della censura nel vizio contemplato dalla disposizione evocata nella stessa rubrica, appunto l’art. 360 c.p.c., n. 5); essa, integra, invece, il vizio di omessa pronuncia su un motivo di opposizione, relativo alla dedotta illegittimità del provvedimento sanzionatorio per difetto di previa contestazione di una delle condotte sanzionate e, pertanto, andava denunciata con riferimento all’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4. Nè sarebbe consentito riqualificare ufficiosamente il motivo di ricorso, giacchè esso non reca alcun univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla denunciata omissione. Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 17931/13, di recente seguita dalla sentenza di questa sezione n. 10862/18), infatti, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge.

Con il decimo motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione dell’art. 34-decies Reg. Emittenti – laddove esso impone “coerenza” tra informazioni contenute nel prospetto informativo e quelle diffuse agli investitori – in cui la corte territoriale sarebbe incorsa equiparando erroneamente la nozione di “coerenza” con quella di “identità” e, così, ritenendo le informazioni diffuse al pubblico sulla durata dell’investimento (indicata in diciannove anni e sei mesi) prive di coerenza con quelle risultanti dal prospetto informativo, nonostante la modestia dello scostamento tra tali informazioni. Al riguardo, nel mezzo di impugnazione si argomenta che nello stesso atto di accertamento della CONSOB si dà atto che la “data di scadenza attesa” dell’investimento, sulla base del piano di ammortamento rappresentato, era stata indicata al giugno 2030 nelle informazioni diffuse al pubblico ed al dicembre 2030 nelle informazioni indicate nel prospetto.

Il motivo, contrariamente a quanto sostenuto dalla contro ricorrente, è ammissibile, perchè i fatti su cui si fonda la statuizione impugnata (vale a dire, il contenuto delle indicazioni fornite al pubblico prima della pubblicazione del prospetto informativo ed il contenuto delle informazioni offerte in detto prospetto) sono pacifici, risultando essi dall’atto di accertamento della CONSOB. La censura del ricorrente non attinge, dunque, l’accertamento di fatto della corte territoriale, bensì la sussunzione del fatto accertato nella fattispecie normativa della “coerenza”, fissata dall’art. 34-decies, lett. a), del Regolamento Emittenti. La nozione di coerenza è, infatti, una nozione elastica (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali), la cui indeterminatezza è funzionale allo scopo di consentire l’adeguamento della norma alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo. Tale nozione si risolve, pertanto, in un paradigma generico, che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione implicitamente richiama. Nell’esprimere il giudizio di valore necessario ad integrare il parametro generale contenuto in una norma elastica, il giudice compie, dunque, un’attività di interpretazione della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale, ovvero a determinate situazioni non esattamente ed efficacemente specificabili a priori (così SSUU 2572/2012). Il suddetto giudizio è pertanto censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, quando il medesimo si ponga in contrasto con i principi dell’ordinamento e con quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono con detti principi a comporre il diritto vivente (Cass. 3645/99, nonchè, da ultimo, Cass. 30939/18).

Ciò premesso, peraltro, il motivo è infondato. Dallo stesso motivo di impugnazione emerge infatti (pag. 83, p. 10.2 del ricorso), che – sempre per quanto emerge dall’atto di accertamento della CONSOB – nel prospetto informativo si indicava, oltre alla data di “scadenza attesa” dell’investimento (31 dicembre 2030), anche la data di “scadenza finale” del medesimo (30 giugno 2040). Correttamente quindi la corte territoriale ha giudicato che l’informazione sulla durata ventennale dell’investimento fosse incoerente con le indicazioni del prospetto, giacchè un’indicazione di scadenza attesa al 30 giugno 2030 non può ritenersi coerente con indicazioni relative ad una scadenza attesa al 31 dicembre 2030 e ad una scadenza finale al 30 giugno 2040.

Il decimo motivo va quindi rigettato.

Con l’undicesimo motivo di ricorso si lamenta la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per insussistenza dell’elemento soggettivo della colpa in capo al sig. M.. Nel mezzo di gravame si deduce che la decisione di divulgare le informazioni per le quali è stata irrogata la impugnata sanzione è stata presa a livello apicale e si argomenta che l’esame della coerenza tra le informazioni contenute del documento “*****”, utilizzate dalla rete di vendita per presentare il prodotto alla clientela, e le informazioni contenute nel prospetto informativo del titolo ***** poteva essere compiuto solo dai superiori del sig. M.; cosicchè quest’ultimo si sarebbe limitato “ad eseguire direttive impartite da servizi a lui sovraordinati (il Responsabile della Direzione Rete), che era tenuto ad osservare, essendo parte di un’organizzazione gerarchica quale la Banca” (pag. 87, primo cpv., del ricorso). In sostanza, secondo il ricorrente, egli non aveva margini per compiere alcuna attività di verifica della conformità delle informazioni divulgate al pubblico con quelle che sarebbero state inserite nell’emanando prospetto informativo. Nel corpo del motivo si aggiunge, inoltre, che il sig. M. si era comunque attivato, per quanto in suo potere, raccomandando espressamente ai propri collaboratori di non divulgare le informazioni contenute nel documento “*****” di agosto 2010.

Il motivo è inammissibile, perchè prospetta questioni di merito che non possono formare oggetto di scrutinio in sede di legittimità. Con tale motivo, infatti, il ricorrente non indica una regola di diritto enunciata – o, comunque, implicitamente applicata – dalla corte territoriale in contrasto con la disciplina dell’elemento psicologico dell’illecito amministrativo fissata dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, ma attinge l’accertamento di fatto della corte fiorentina in ordine all’elemento psicologico dell’illecito a lui addebitato. Nell’impugnata ordinanza si legge che il M. “avrebbe dovuto quantomeno rappresentarsi il rischio che venissero veicolate informazioni non coerenti, stante la ridetta difformità tra il ***** ed il prospetto approvato” e che il medesimo “aveva sollecitato la trasformazione delle manifestazioni di interesse in ordini di sottoscrizione, senza curarsi di richiedere alla rete di provvedere all’aggiornamento delle informazioni, sulla base del diverso contenuto del prospetto approvato”. Le critiche mosse nel mezzo di impugnazione in esame consistono in una argomentata contestazione di tali affermazioni che, tuttavia, non assurge a motivo di ricorso per cassazione, giacchè – lungi dal censurare, come previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un fatto storico decisivo e discusso tra le parti – si risolve nello sviluppo di una linea argomentativa di lettura delle risultanze processuali alternativa a quella fatta propria dalla corte di merito.

Il dodicesimo motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5, denuncia l’assenza di motivazione sui fatto, ritenuto decisivo, che il ricorrente, con la mail con la quale aveva trasmesso agli addetti alla rete di vendita il documento “*****” dell’agosto 2010, aveva espressamente raccomandato di “non divulgare fino a ufficializzazione” il materiale informativo allegato.

Il motivo va disatteso per difetto di decisività del fatto del quale si lamenta l’omesso esame. A prescindere dalla considerazione, già di per sè dirimente, che l’invito a non divulgare materiale informativo non implica l’invito a non diffondere le informazioni ivi contenute, è comunque da osservare che la cautela del M. in ordine alla distribuzione di documenti prima della loro ufficializzazione non costituisce elemento tale da sovvertire le ragioni, sopra trascritte, sulla cui base la corte territoriale ha ritenuto sussistente l’elemento psicologico dell’illecito amministrativo addebitato all’odierno ricorrente.

In definitiva il ricorso per cassazione deve essere rigettato in relazione a tutti i motivi nei quali esso si articola.

Le spese seguono la soccombenza.

Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in 2.000, oltre 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2019

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