LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 399-2015 proposto da:
FINCANTIERI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ENZO MORRICO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente – principale –
contro
M.A.M., + ALTRI OMESSI, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GUGLIELMO MENGARINI 88, presso lo studio dell’avvocato CARLA SILVESTRI, rappresentati e difesi dall’avvocato RODOLFO BERTI e dall’Avvocato LUDOVICO BERTI per B.R., BR.SO.
E G.S.;
– controricorrenti – ricorrenti incidentali –
contro
FINCANTIERI S.P.A.;
– ricorrente principale – controricorrente incidentale –
avverso il provvedimento n. 450/2014 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 19/06/2014 R.G.N. 193/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/11/2018 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per accoglimento del quinto e del sesto motivo del ricorso principale, rigetto nel resto;
udito l’Avvocato ANTONELLO DI ROSA per delega verbale Avvocato ENZO MORRICO.
udito l’Avvocato RODOLFO BERTI E LUDOVICO BERTI.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Ancona, con:sentenza n. 450 depositata il 19.6.14, in accoglimento degli appelli incidentali proposti dagli eredi di Br.Er., B.B., V.E., G.E. e in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha rideterminato il risarcimento del danno spettante iure hereditatis agli eredi degli ex dipendenti della Fincantieri s.p.a., deceduti per mesotelioma pleurico, ed ha condannato la predetta società al pagamento della somma di Euro 775.000,00 per ciascuno dei defunti, da dividersi tra gli eredi secondo le rispettive quote; ha respinto l’appello principale della società e confermato la sentenza del Tribunale, anche quanto al risarcimento del danno azionato iure proprio dagli eredi.
2. La Corte di merito ha riconosciuto la legittimazione passiva della Fincantieri s.p.a.; ha ritenuto dimostrati, anche per mezzo di presunzioni legate al dato epidemiologico, la nocività dell’ambiente di lavoro per l’esposizione dei dipendenti all’amianto, il nesso causale tra tale condizione di nocività e il decesso dei quattro dipendenti per mesotelioma pleurico, l’inadempimento datoriale all’obbligo di prevenzione sulla base delle conoscenze scientifiche acquisite all’epoca; ha ritenuto la prescrizione decorrente dall’evento morte e quindi non maturata.
3. Ha confermato le statuizioni di primo grado sulla quantificazione del danno non patrimoniale iure proprio e dei rimborsi, considerando legittima la liquidazione effettuata sulla base di parametri desunti in parte dalle Tabelle del Tribunale di Milano e in parte dalle tabelle del Tribunale di Roma.
4. Ha riconosciuto il danno non patrimoniale per le sofferenze fisiche e psichiche esitate nella morte (c.d. danno terminale), rilevando la particolare penosità della condizione vissuta dai quattro lavoratori per la condotta lesiva posta in essere dalla società datoriale per fini di profitto; ha liquidato tale danno, spettante iure hereditatis agli appellanti incidentali, utilizzando le tabelle del Tribunale di Milano ed assumendo come base il danno biologico permanente al 100% per la fascia di età tra i 50 e i 60 anni.
5. Avverso tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione la Fincantieri s.p.a., affidato a sette motivi, cui hanno resistito con controricorso gli eredi dei signori Br.Er., B.B., V.E., G.E.. Le mogli ed i figli dei quattro lavoratori deceduti hanno proposto ricorso incidentale, articolato in due motivi. La Fincantieri s.p.a. ha depositato controricorso al ricorso incidentale.
6. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
7. I signori B.R., Br.So. e G.S., eredi rispettivamente di B.B., Br.Er. e G.E., hanno depositato procura ai sensi dell’art. 83 c.p.c. rilasciata all’avv. Ludovico Berti, in aggiunta al già nominato avv. Rodolfo Berti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo di ricorso la Fincantieri s.p.a. ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 422 c.p., per avere la Corte d’appello implicitamente qualificato la responsabilità del datore di lavoro contemplata dall’art. 2087 c.c. e dalla disciplina prevenzionistica come responsabilità oggettiva; per avere fatto riferimento ad una strage, pur in assenza dei requisiti di cui all’art. 422 c.p.; per non aver considerato come fino al 1991 non vi fossero specifici divieti nell’impiego dell’amianto, utilizzato anche dallo Stato in svariati settori.
2. Col secondo motivo la ricorrente principale ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,2087 e 2697 c.c., del D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21, e dell’art. 115 c.p.c.. Ha sostenuto come la sentenza impugnata non avesse individuato l’obbligo specifico di tenere la condotta omessa, presupposto necessario per apprezzare la condotta omissiva sul piano della causalità giuridica; che tale obbligo non potesse desumersi dal D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21, e dalla normativa invocata dalle controparti, concepita per limitare l’esposizione alle polveri tossiche e nocive ma non per impedire l’aspirazione delle fibre ultrafini, invisibili ed idonee a determinare la malattia indipendentemente dalla dose inalata; che data tale caratteristica dell’amianto, l’unica precauzione efficace risiedeva nell’abolirne completamente l’uso, come avvenuto a partire dagli anni ‘90 attraverso il D.Lgs. n. 277 del 1991 e la L. n. 257 del 1992; che la decisione impugnata non avesse fornito alcun supporto obiettivo quanto alla continuativa esposizione dei lavoratori a rilevanti quantitativi di polvere di amianto all’interno dello stabilimento di Ancona, risultando invece confermata dagli elementi istruttori raccolti l’osservanza delle norme di prevenzione generiche e specifiche esigibili in base alle conoscenze dell’epoca.
3. Col terzo motivo di ricorso la Fincantieri s.p.a. ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 2727 e 2729 c.c., artt. 40 e 41 c.p., per difetto di prova del nesso causale tra l’attività lavorativa e la morte dei quattro dipendenti, secondo requisiti di elevata probabilità vicino alla certezza, come peraltro confermato dall’esito della c.t.u. svolta nel giudizio di primo grado.
4. Col quarto motivo la società ha censurato la sentenza per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, non avendo l’accertamento svolto dalla Corte di merito potuto escludere che la patologia fosse insorta presso altri luoghi di lavoro o in contesti extraprofessionali e neanche affermare l’idoneità delle cautele all’epoca doverose ad impedire l’evento.
5. Col quinto motivo la società ha dedotto violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, e dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte di merito interpretato la domanda proposta dai ricorrenti in primo grado e volta al risarcimento del danno iure hereditatis come finalizzata a conseguire il riconoscimento del mero danno biologico temporaneo, laddove la stessa aveva ad oggetto il riconoscimento del danno biologico permanente, con conseguente necessità di assolvimento da parte degli eredi degli oneri di allegazione e prova richiesti dall’art. 10 citato e detrazione della rendita che i lavoratori avrebbero potuto percepire.
6. Col sesto motivo di ricorso la Fincantieri s.p.a. ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 e 1226 c.c. per avere la Corte di merito, ai fini del risarcimento del danno iure hereditatis, utilizzato il parametro del danno biologico permanente nella misura del 100%, anzichè quello legato alla invalidità temporanea personalizzata, ed effettuato una liquidazione omogenea per tutti e quattro i lavoratori, a prescindere dalle differenze di età, dal periodo di sopravvivenza, dalle maggiori o minori sofferenze in relazione alla maggiore o minore aggressività della malattia.
7. Col settimo motivo di ricorso Fincantieri s.p.a. ha dedotto violazione degli artt. 2059,2697 e 1223 c.c. per avere la Corte d’appello liquidato il danno non patrimoniale iure proprio quale danno in re ipsa, senza che i ricorrenti in primo grado avessero allegato e provato gli effettivi pregiudizi subiti per la morte dei rispettivi congiunti.
8. Col primo motivo i ricorrenti incidentali hanno censurato la sentenza per omesso esame del fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti relativo alla mancata contestazione del quantum risarcitorio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; inoltre, per violazione dell’art. 423 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 186 bis c.p.c. e degli artt. 416,167 e 115c.p.c..
9. Hanno sostenuto come la società non avesse tempestivamente contestato in primo grado il quantum richiesto dagli attuali ricorrenti incidentali a titolo di risarcimento del danno iure proprio; come il primo giudice avesse erroneamente applicato il principio di non contestazione rigettando la domanda dai medesimi proposta ai sensi dell’art. 423 c.p.c., comma 1 e come la Corte di merito avesse omesso qualsiasi decisione sul punto.
10. Col secondo motivo i ricorrenti incidentali hanno dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 2059,1223 e 1226 c.c. come richiamati dall’art. 2056 c.c., dell’art. 112 c.p.c. e della regola iuris sul risarcimento del danno alla persona, per avere la Corte applicato, nella liquidazione del danno, le tabelle del Tribunale di Roma, anzichè quelle del Tribunale di Milano, espressamente richieste, risultando le prime in fatto penalizzanti.
11. I primi quattro motivi di ricorso principale possono essere esaminati congiuntamente e risultano infondati per le ragioni già espresse da questa Corte in controversie analoghe (cfr. Cass. n. 22710 del 2015; Cass. n. 17978 del 2015; Cass. n. 6352 del 2015; Cass. n. 26590 del 2014; Cass. n. 16149 del 2014; Cass. n. 10425 del 2014; Cass. n. 18626 del 2013; Cass. n. 8204 del 2003).
12. La Corte di merito ha accertato l’esposizione dei quattro lavoratori alle polveri di amianto e la sussistenza del nesso di causalità tra l’attività lavorativa a cui i predetti erano adibiti ed il mesotelioma pleurico che ne ha provocato la morte; ha sottolineato, quale elemento presuntivo rilevante ai fini del nesso causale, come nel medesimo complesso produttivo si fossero verificati numerosi altri decessi per la medesima patologia, in relazione ai quali erano in corso procedimenti penali. Si tratta di accertamenti in fatto (cfr. da ultimo Cass. n. 5893 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata) non efficacemente censurati dai motivi di ricorso in esame volti, nella sostanza, a provocare una nuova e diversa valutazione del materiale probatorio, non consentita in questa sede di legittimità.
13. A fronte di tali risultanze, sarebbe stato onere del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., dimostrare di avere adottato tutte le misure necessarie, secondo la particolarità del lavoro svolto, a tutelare l’integrità fisica dei dipendenti. La società ricorrente ha argomentato l’assenza di una propria condotta colposa e, comunque, di nesso causale tra questa e la malattia contratta dai dipendenti per essere all’epoca consentito l’impiego di amianto nell’attività lavorativa e per la mancanza di prova della idoneità delle misure di prevenzione omesse ad impedire l’evento.
14. Al contrario, la giurisprudenza di questa Corte già da tempo (cfr. Cass. n. 4721 del 1998 e, più di recente, Cass. n. 18626 del 2013, Cass. n. 18041 del 2014; Cass. 17252 del 2016) ha fatto risalire la conoscibilità della pericolosità dell’impiego di amianto ai primi anni del ‘900. A tal fine, nelle sentenze richiamate si è ricordato come già il R.D. 14 giugno 1909, n. 442, che approvava il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all’art. 29, tabella 13, n. 12, includesse la filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei quali l’applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo. Analoghe disposizioni dettava il regolamento per l’esecuzione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, emanato con D.Lgs. 6 agosto 1916, n. 1136, art. 36, tabella B, n. 13; il R.D. 7 agosto 1936, n. 1720, che approvava le tabelle indicanti i lavori per i quali era vietata l’occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni, prevedeva alla tabella B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri in cui era consentita l’occupazione delle donne minorenni e dei fanciulli subordinatamente all’osservanza di speciali cautele e condizioni e, tra questi, al n. 5, era inclusa la lavorazione dell’amianto, limitatamente alle operazioni di mescola, filatura e tessitura. Lo stesso R.D. 14 aprile 1927, n. 530, tra gli altri agli artt. 10, 16, e 17, conteneva diffuse disposizioni relative alla aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche. D’altro canto l’asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin dai primi del ‘900 e fu inserita tra le malattie professionali con la L. 12 aprile 1943, n. 455. In epoca più recente, oltre alla legge delega 12 febbraio 1955, n. 52, che, all’art. 1, lett. F, prevedeva di ampliare il campo della tutela, al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 e alle visite previste dal D.P.R. 20 marzo 1956, n. 648, si deve ricordare il regolamento 21 luglio 1960, n. 1169 ove all’art. 1 si prevede, specificamente, che la presenza dell’amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di amianto tale da determinare il rischio; si può infine ricordare che il premio supplementare stabilito dal T.U. n. 1124 del 1965, art. 153 per le lavorazioni di cui all’allegato n. 6, presupponeva un grado di concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi. D’altro canto l’imperizia, nella quale rientra l’ignoranza delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno dei parametri integrativi al quale commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di lavoro. Da quanto esposto discende che all’epoca di svolgimento dei rapporti di lavoro oggetto di causa era ben nota l’intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto, tanto che l’uso di materiali che contenevano amianto era sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione di fibre (per fattispecie con periodi temporali di attività lavorativa analoghi a quella all’attenzione del Collegio cfr. Cass. n. 8204 del 2003; Cass. n. 16645 del 2003; Cass. n. 14010 del 2010; Cass. n. 2491 del 2008; Cass. n. 15156 del 2011; Cass. n. 26590 del 2014; da ultimo Cass. n. 22710 del 2015 che ha ribadito non solo l’irrilevanza della circostanza che il rapporto di lavoro si fosse svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali d’amianto, ma anche che a detta epoca non si sapesse che anche singole fibre d’amianto inalate potessero essere letali). Si imponeva dunque, anche per i periodi per cui è causa, l’adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c. e più specificamente al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce, recependo le indicazioni prevenzionistiche già affermatesi, che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro, soggiungendosi che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri. Devono altresì essere tenute presenti altre norme dello stesso D.P.R. n. 303 ove si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l’art. 9, che prevede il ricambio d’aria, l’art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell’ambiente mediante aspiratori, l’art. 18, che proibisce l’accumulo delle sostanze nocive, l’art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 20, che difende l’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l’uso di aspiratori, l’art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione. L’art. 2087 c.c. in generale e il D.P.R. n. 303 del 1956 in particolare imponevano quindi di adottare provvedimenti idonei ad impedire o a ridurre lo sviluppo e la dispersione delle polveri nell’ambiente di lavoro, a prescindere peraltro dall’accertamento di una specifica nocività rispetto a determinate patologie, essendo comunque accertata la nocività della polvere (di qualsiasi sostanza) per l’apparato respiratorio (cfr. Cass. n. 6352 del 2015). Gravava pertanto sulla società datrice di lavoro l’onere della prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle suddette norme, onere di prova che la Corte territoriale ha ritenuto non assolto, con giudizio in fatto non sindacabile in questa sede.
15. Neppure è configurabile la dedotta violazione dell’art. 422 c.p., posto che il termine strage è utilizzato dalla Corte d’appello non in riferimento al reato previsto dalla citata disposizione del codice penale bensì per sottolineare l’enormità delle conseguenze in termini di lavoratori deceduti a causa dell’esposizione ad amianto.
16. La censura oggetto del quarto motivo di ricorso è, anzitutto, inammissibile per difetto di specificità essendo solo genericamente ipotizzato che “la patologia potrebbe essere insorta presso altre imprese o in contesti extraprofessionali”. La stessa è, comunque, infondata alla luce di quanto affermato dalla Corte di Cassazione, sezione penale, nella sentenza n. 11128 del 2015, relativa alle morti per mesotelioma presso la Fincantieri. In tale pronuncia si è precisato come “la letteratura scientifica è sostanzialmente convergente sulla circostanza che nella fase di induzione ogni esposizione ha un effetto causale concorrente, non essendo necessario l’accertamento della data dell’iniziale insorgenza della malattia e, pur non essendovi certezze circa la dose sufficiente a scatenare l’insorgenza del mesotelioma pleurico, è stato comunque accertato che il rischio di insorgenza è proporzionale al tempo e all’intensità dell’esposizione, nel senso che l’aumento della dose è inversamente proporzionale al periodo di latenza (ovvero l’intervallo temporale compreso tra l’avvio dell’esposizione ad amianto e la data della diagnosi o manifestazione clinica del tumore): insomma, la scienza medica riconosce un rapporto esponenziale tra dose cancerogena assorbita determinata dalla durata e dalla concentrazione dell’esposizione alle polveri di amianto e risposta tumorale” (cfr. anche Cass. pen. Sez. IV, 22.3.2012, n. 24997, Rv. 253303, Pittarello ed altro). Tale pronuncia si colloca nell’alveo segnato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (tra tutte, Cass. pen. Sez. IV, n. 988 del 11.7.2002, Rv. 227000, Macola) “che ha ritenuto corretta, anche per il mesotelioma, la teoria scientifica di un processo patologico che mette in crisi la teoria della “dose killer o della dose trigger, che viene squalificata come frutto di artificio”. Dai dati riportati nel ricorso in esame si evince come i lavoratori deceduti avessero prestato attività alle dipendenze di Fincantieri s.p.a. ciascuno per periodi pari ad almeno trenta anni.
17. Si esamina a questo punto, per ragioni di priorità logica, il sesto motivo di ricorso con cui è censurata la statuizione della sentenza d’appello sul risarcimento del danno da morte o da perdita della vita, riconosciuto iure hereditatis e liquidato, in modo identico per tutti e quattro i lavoratori poi deceduti, secondo i parametri dell’invalidità permanente totale di cui alle tabelle del Tribunale di Milano.
18. Il motivo di ricorso è fondato e deve trovare accoglimento.
19. Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 15350 del 2015), sulla premessa che, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, hanno stabilito che deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio.
20. Con tale pronuncia le Sezioni Unite hanno ribadito l’indirizzo tradizionale (Cass. n. 6754 del 2011; n. 15706 del 2010; n. 12253 del 2007; n. 4783 del 2001; n. 2134 del 2000) secondo cui la perdita del bene della vita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi, attesa la funzione prevalentemente riparatoria svolta dal risarcimento del danno e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di esistere. All’orientamento che reputa non risarcibile il danno “tanatologico” in sè considerato, in seguito all’autorevole conferma delle Sezioni Unite del 2015, è stata data continuità dalla successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 5684 del 2016; n. 14940 del 2016; Ord. n. 909 del 2018).
21. Poste tali premesse, deve ribadirsi la configurabilità e trasmissibilità iure hereditatis del danno non patrimoniale nelle due componenti di danno biologico “terminale”, cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, configurabile in capo alla vittima nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo (Cass. n. 26727 del 2018; n. 21060 del 2016; n. 23183 del 2014; n. 22228 del 2014; n. 15491 del 2014) e di danno morale “terminale o catastrofale o catastrofico”, ossia del danno consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita, quando vi sia la prova della sussistenza di un suo stato di coscienza nell’intervallo tra l’evento lesivo e la morte, con conseguente acquisizione di una pretesa risarcitoria trasmissibile agli eredi (Cass. n. 13537 del 2014; n. 7126 del 2013; n. 2564 del 2012).
22. Quanto ai criteri di liquidazione, si è specificato (oltre alla giurisprudenza già citata, cfr. Cass. n. 18163 del 2007; n. 1877 del 2006) come mentre per la componente di danno biologico la liquidazione può ben essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, per la seconda componente, avente natura affatto peculiare, la liquidazione deve affidarsi ad un criterio equitativo puro – ancorchè sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso concreto – che sappia tener conto della enormità del pregiudizio. Difatti, il danno alla salute, se pure temporaneo, deve considerarsi massimo nella sua entità ed intensità, in quanto la relativa lesione è così elevata da non essere suscettibile di recupero e da esitare nella morte. Di tale esito certamente infausto deve tenersi conto, dovendosi escludere che la liquidazione della componente di danno catastrofico possa essere effettuata attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso.
23. La Corte territoriale non si è attenuta ai principi appena richiamati in quanto ha liquidato il danno spettante iure hereditatis definendolo come danno da morte o da perdita della vita ed ha rapportato tale danno non alla menomazione temporanea dell’integrità psicofisica patita dai lavoratori poi deceduti per il periodo di tempo dalla diagnosi al decesso, bensì alla invalidità permanente totale dei medesimi, come se essi fossero sopravvissuti alla malattia per il tempo corrispondente alla loro ordinaria speranza di vita. Non solo, la sentenza impugnata ha operato una quantificazione del danno identica per tutti e quattro lavoratori poi deceduti, senza calibrare il risarcimento in base alle caratteristiche dei singoli casi concreti, tenendo conto, ad esempio, dell’età di ciascuno, della durata della malattia che ha condotto al decesso, della concreta gravità e penosità della stessa.
24. L’esigenza di uniformità di trattamento nella liquidazione del danno non patrimoniale, che questa Corte (Cass. n. 20895 del 2015; n. 4447 del 2014; n. 12408 del 2011) ritiene garantita dal riferimento alle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano a cui riconosce valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., non esclude ma anzi presuppone che, fermo l’utilizzo dei medesimi parametri, la misura del risarcimento sia adeguata alle variabili dei singoli casi concreti, come deve esigersi in applicazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. (cfr. Corte Cost. sentenza n. 194 del 2018).
25. L’accoglimento del sesto motivo di ricorso porta a ritenere assorbito il quinto motivo fondato sul presupposto, dichiarato erroneo, della liquidazione del danno iure hereditatis secondo il parametro dell’invalidità permanente totale.
26. Il settimo motivo di ricorso principale è inammissibile per un duplice ordine di ragioni. Anzitutto, in quanto censura la sentenza per aver riconosciuto in favore degli eredi un danno non patrimoniale iure proprio come danno in re ipsa, per la mancanza delle necessarie allegazioni sugli specifici pregiudizi connessi alla perdita dei congiunti, senza tuttavia riportare e trascrivere i ricorsi introduttivi di primo grado al fine di far emergere la denunciata assenza di allegazioni. Inoltre, perchè contiene, di fatto, una critica alla valutazione delle prove come operata dai giudici d’appello ai fini del riconoscimento del danno iure proprio, critica non ammissibile in questa sede di legittimità e peraltro non veicolata attraverso lo schema del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis (sentenza d’appello del 2014).
27. Devono ora esaminarsi i motivo di ricorso incidentale.
28. Il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile per le ragioni già esposte nel paragrafo precedente atteso che è censurato non l’omesso esame di un fatto inteso in senso storico fenomenico (cfr. Cass., S.U., n. 8053 del 2014) bensì l’errata determinazione del quantum risarcitorio sul rilievo che l’importo richiesto iure proprio dagli eredi non fosse stato contestato dalla società. Nè il dato della mancata contestazione può avere rilievo, in questa sede, quanto alla dedotta violazione dell’art. 423 c.p.c., una volta emessa la pronuncia di merito, con conseguente carenza di interesse.
29. Inammissibile risulta anche il secondo motivo di ricorso incidentale, con cui si denuncia la mancata applicazione delle tabelle del tribunale di Milano, sul presupposto dell’essere penalizzanti le tabelle del tribunale di Roma, utilizzate dalla Corte di merito.
30. Questa Corte (Cass. n. 27562 del 2017; n. 12397 del 2016; n. 24205 del 2014) ha affermato come in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la denuncia in sede di legittimità della violazione delle tabelle diffuse dal Tribunale di Milano ovvero dell’omesso esame di un fatto specializzante idoneo a giustificare uno scostamento dalle stesse è ammessa esclusivamente ove nel giudizio di merito la parte abbia prodotto tali tabelle (o, almeno, ne abbia allegato il contenuto) e posto la questione dell’applicazione dei relativi parametri, adempimenti neanche allegati nel caso di specie.
31. In base alle considerazioni finora svolte, deve accogliersi il sesto motivo di ricorso principale, assorbito il quinto motivo, e devono respingersi i residui motivi di ricorso principale; deve respingersi anche il ricorso incidentale; cassarsi la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, che procederà alla liquidazione del danno iure hereditatis conformandosi ai principi sopra enunciati, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
32. Si dà atto della sussistenza, nei confronti dei ricorrenti incidentali, dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
PQM
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso principale, assorbito il quinto motivo e respinti gli altri; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi incidentali, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.
Così deciso in Roma, il 28 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2019