Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.1014 del 17/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4848-2018 proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato SANTESE ROSARIO;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA dell’Istituto medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati CORETTI ANTONIETTA, TRIOLO VINCENZO, STUMPO VINCENZO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 853/2017 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 07/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 18/06/2019 dal Consigliere Relator Dott. SPENA FRANCESCA.

RILEVATO

che con sentenza in data 27 novembre – 7 dicembre 2017 numero 853 la Corte d’Appello di Salerno riformava la sentenza del Tribunale della stessa sede e, per l’effetto, dichiarava che F.G. aveva svolto in ciascuna delle annualità oggetto di giudizio 41 giornate lavorative come coltivatore diretto, con le relative conseguenze sulla posizione e sulle prestazioni previdenziali; compensava le spese del doppio grado di giudizio e poneva le spese di ctu a carico di entrambe le parti, in solido;

che a fondamento della decisione la Corte territoriale osservava che l’appellante sosteneva che la propria attività principale era quella di lavoratore agricolo dipendente e che erano necessarie per la conduzione dei terreni di sua pertinenza soltanto 14 giornate lavorative annue; il c.t.u. nominato nel grado di appello aveva accertato in 41 giorni il numero di giornate di impegno personale per la cura dei fondi nella sua disponibilità. Tale numero era compatibile con la fruizione dell’indennità di disoccupazione per i residui periodi non lavorati come dipendente, ancorchè insufficiente per la iscrizione come lavoratore autonomo.

Le spese processuali andavano interamente compensate tra le parti, anche in ragione della peculiarità e controvertibilità delle questioni trattate, tali da richiedere approfonditi accertamenti in corso di causa con esito non pienamente conforme a nessuna delle tesi contrapposte; le spese di c.t.u., atto peraltro compiuto nell’interesse generale della giustizia e dunque nell’interesse comune delle parti, dovevano essere poste a carico di entrambe le parti, in solido;

che avverso la sentenza ha proposto ricorso F.G., articolato in un unico motivo, cui ha opposto difese l’INPS con controricorso;

che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti -unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale – ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

CONSIDERATO

che con l’unico motivo il ricorrente ha dedotto- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., impugnando la sentenza per aver motivato la compensazione delle spese del doppio grado con un generico riferimento alla peculiarità delle questioni trattate- laddove la questione esaminata risultava di facile lettura- e per avere posto le spese di c.t.u. a carico di entrambe le parti, con vincolo di solidarietà, ritenendo la consulenza atto compiuto nell’interesse comune delle parti;

che ritiene il Collegio si debba respingere il ricorso;

che nella specie si applica ratione termporis il testo dell’art. 92 c.p.c. nel testo vigente a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 69 del 2009 (il ricorso di primo grado è del 27.12.2012) a tenore del quale le spese possono essere compensate, parzialmente o per intero, “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”.

Nel caso in esame si discute della sussumibilità delle ragioni indicate nella motivazione alla ipotesi di “gravità ed eccezionalità” normativamente prevista.

La norma di cui all’art. 92 c.p.c., comma 2, nella parte in cui consente al giudice di disporre la compensazione delle spese di lite allorchè ricorrano gravi ed eccezionali ragioni, è invero norma elastica, che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico – sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice di merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche (Cass. S.U. 22.2.2012 n. 2572 e ribadito giurisprudenza successiva; per tutte: Cassazione civile, sez. III, 26/09/2017, n. 22333).

In particolare, la compensazione è stata disposta dal giudice dell’appello “in ragione della peculiarità e controvertibilità delle questioni trattate, tali da richiedere approfonditi accertamenti tecnici in corso di causa con esito non pienamente conforme a nessuna della contrapposte tesi “.

Si tratta, come è evidente, di considerazioni che riguardando la controversia decisa, secondo il canone enunciato da questa Corte (ex plurimis: Cassazione civile, sez. III, 05/07/2017, n. 16473; Cass. sez. VI 14/07/2016 n. 14411; Cassazione civile sez. VI, 29/01/2018, n. 2148; Cassazione civile sez. II, 29/11/2016, n. 24234) ed attinenti alla difficoltà dell’accertamento dei fatti in discussione, nella specie consistenti nel numero delle giornate di lavoro necessarie alla coltivazione dei terreni di cui la parte aveva la disponibilità.

La formula utilizzata è inoltre specifica perchè dà conto delle difficoltà dell’indagine tecnica e dei suoi esiti non pienamente conformi alle allegazioni della stessa parte vittoriosa.

La difficoltà dell’accertamento di fatto compiuto in sentenza, ove specificamente motivata e coerente rispetto all’iter logico della decisione assunta, può costituire una grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese, in quanto si sostanzia in una oggettiva incertezza circa il buon fondamento della pretesa o delle difese della parte risultata vittoriosa all’esito della lite;

che, pertanto, non essendo condivisibile la proposta del relatore, il ricorso deve essere respinto con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.

che le spese di lite seguono la soccombenza;

che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ed Euro 1.500 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processiali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

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