Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.1185 del 21/01/2020

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Il socio moroso di società a responsabilità limitata non è ammesso, secondo il disposto dell’art. 2466 c.c., ad esprimere il proprio voto nelle decisioni e deliberazioni assembleari, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, ai sensi dell’art. 2476 c.c., comma 2, sino a che egli resti parte della compagine societaria in esito al procedimento intrapreso dagli amministratori.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21680/2018 proposto da:

B.L., elettivamente domiciliato in Roma, Via Aureliana n. 53, presso lo studio dell’avvocato Strano Antonino, rappresentato e difeso dagli avvocati Barazzoni Gian Paolo, Camellini Veronica, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

e contro

Citielle S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Lattanzio n. 5, presso lo studio dell’avvocato Ciano Fabrizio Maria, rappresentata e difesa dall’avvocato Moretto Davide, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 299/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, pubblicata il 31/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2019 dal cons. NAZZICONE LOREDANA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE MATTEIS Stanislao, che si riporta alle conclusioni scritte depositate;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Camellini che si riporta;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato Moretto che si riporta al controricorso.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Bologna con sentenza del 31 gennaio 2018 ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale di Reggio Emilia del 27 dicembre 2013, la quale aveva disatteso, a sua volta, le domande proposte da B.L. contro la Citielle s.r.l..

Tali domande, per quanto riferisce la sentenza impugnata e come riportate integralmente in controricorso, quali conclusioni attoree di primo grado, avevano ad oggetto la domanda di condanna della società al risarcimento del danno per il rifiuto frapposto all’esercizio del diritto di ispezione del socio; l’accertamento del diritto del B. di compensare il debito da sottoscrizione per l’aumento di capitale deliberato dall’assemblea del 28 luglio 2010 con il credito del finanziamento soci, con condanna della società alla restituzione della somma di Euro 5.000,00 già versata; in subordine, l’accertamento del corretto versamento dell’intera somma dovuta per l’aumento; in ulteriore subordine, l’accertamento della propria perdurante titolarità nella quota di nominali Euro 4.000,00; infine, l’accertamento dell’illegittimità della propria esclusione e dell’assemblea” del 29 aprile 2011.

La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che:

– l’art. 2466 c.c. sulla c.d. vendita in danno non impedisce al socio di s.r.l. di esercitare il suo diritto di controllo sulla gestione sociale, ma, nondimeno, è corretta la pronuncia di rigetto della domanda risarcitoria, non essendo stato allegato, prima ancora che provato, nessun danno dal socio;

– fissato il termine per il versamento del residuo 75% del capitale sottoscritto, la sua scadenza ha reso legittimo il rifiuto dell’amministratore di accettare un pagamento tardivo, essendo ciò rimesso alla discrezionalità del medesimo e degli altri soci;

– non vi è prova dell’esistenza di finanziamenti da parte del socio, nè comunque avrebbe potuto il credito relativo essere utilizzato in compensazione, trattandosi di aumento del capitale a pagamento, che richiede il versamento di denaro contante;

– l’art. 2466 c.c. trova applicazione anche al debito da sottoscrizione di un aumento di capitale, non solo a quello per il conferimento iniziale, sorto in sede di costituzione della società;

– è legittima l’esclusione del socio in toto, pur in presenza di una mora parziale, come dimostra l’espressa previsione del diritto della società di trattenere le somme già riscosse dal socio moroso.

Avverso questa sentenza propone ricorso il soccombente, sulla base di tre motivi. Si difende con controricorso la società, proponendo un motivo di ricorso incidentale.

Il ricorrente ha depositato la memoria di cui all’art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2466 c.c., il quale non potrebbe applicarsi al debito da sottoscrizione di un aumento del capitale sociale; inoltre, l’amministratore era in conflitto di interessi, in quanto socio, e gli altri due soci si trovavano ad avere, in tal modo, accresciuto la propria quota alla misura del 50% ciascuno, mentre neppure gli è stata liquidata la quota di Euro 4.000,00 nominali conferita all’atto di costituzione della società.

Con il secondo motivo, lamenta la violazione dell’art. 2466 c.c., perchè la quota sociale è divisibile, onde l’organo amministrativo avrebbe dovuto procedere alla vendita o all’annullamento solo della parte proporzionale non liberata, senza attaccare la quota già detenuta sin dalla costituzione della società, e tenuto anche conto che, operando in contrario, si è inciso maggiormente sul patrimonio sociale; comunque, egli ha diritto al rimborso della quota corrispondente alla porzione liberata.

Con il terzo motivo, si duole della violazione dell’art. 2481 c.c., in quanto ha errato la sentenza impugnata nel ritenere non compensabile il credito da finanziamento soci con il debito da sottoscrizione, per l’erronea considerazione secondo cui quest’ultimo avrebbe dovuto essere soddisfatto esclusivamente in contanti, mentre essa ha omesso ogni pronuncia sull’esistenza di detto finanziamento.

Nel suo ricorso incidentale, la società deduce la violazione dell’art. 2466 c.c. e art. 2476 c.c., comma 2, per avere la sentenze impugnata ritenuto la sussistenza del diritto di controllo del socio moroso.

2. – Il primo motivo è infondato.

Correttamente la corte territoriale ha ritenuto che l’art. 2466 c.c. trovi applicazione anche qualora il debito in capo al socio, rimasto insoddisfatto, derivi dalla sottoscrizione della quota di capitale in aumento a lui spettante, trattandosi di disposizione che (al pari dell’art. 2477 c.c. anteriore alla D.Lgs. n. 6 del 2003), mira a preservare l’effettività del capitale sociale.

La norma prevede un procedimento in cui, dall’iniziale richiesta di adempimento entro trenta giorni rivolta al socio, si perviene, attraverso scansioni alternative o successive, all’azione giudiziale di condanna all’adempimento, alla vendita proporzionale ai soci secondo il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato, alla vendita all’incanto, ed, infine, all’esclusione del socio, con la conseguente riduzione nominale del capitale sociale (dunque, operata solo in tale ultima ipotesi).

Ciò palesa come il procedimento abbia di mira, anzitutto, la tutela della situazione patrimoniale della società, tutela che non ha ragione di essere limitata al momento della sua costituzione e dell’inadempimento all’obbligo dei conferimenti iniziali, essendo essa applicabile – in via diretta, e non estensiva od analogica all’esecuzione dei conferimenti in sede di successivo aumento del capitale sociale.

Per quanto, infine, attiene alla circostanza, dedotta nel motivo, del conflitto di interessi in capo all’amministratore, si tratta di allegazione nuova inammissibile.

3. – Il secondo motivo è fondato.

3.1. – Dalla sentenza impugnata, come pure dal ricorso e dal controricorso, si trae, in punto di fatto, che l’assemblea dei soci del 28 luglio 2010 deliberò un aumento del capitale sociale da Euro 12.000,00 (suddiviso tra i tre soci, nella misura del 33,33% ciascuno) a Euro 72.000,00, offerto in sottoscrizione ai soci in proporzione della partecipazione da ciascuno detenuta, pari a nominali Euro 4.000,00 e, quindi, per la somma di Euro 20.000,00 ciascuno.

Ivi si narra, altresì, che l’odierno ricorrente sottoscrisse per intero la quota di capitale a lui spettante, versando immediatamente la somma di Euro 5.000,00, pari al 25% della quota sottoscritta, mentre non eseguì il versamento del restante 75% nel termine fissato dall’organo amministrativo del 30 ottobre 2010.

L’amministratore della società, una volta accertato l’inadempimento del socio al versamento dei decimi mancanti, ha deliberato, quindi, in mancanza di compratori, l’esclusione del socio, trattenendo le somme riscosse, mentre l’assemblea del 30 giugno 2011 ha deliberato la riduzione del capitale, ai sensi dell’art. 2466 c.c., comma 3.

3.2. – Dalla descritta situazione in fatto, accertata dai giudici del merito, risulta dunque che il B. era – in esito all’assemblea deliberante l’aumento ex art. 2481-bis c.c. – socio per una quota di nominali Euro 24.000,00, di cui versati Euro 9.000,00 (ossia, Euro 4.000,00 conferiti all’atto della costituzione della società e Euro 5.000,00 versati in occasione dell’aumento del capitale) ed Euro 15.000,00 non ancora versati.

In sostanza, della quota di nominali Euro 24.000,00, la porzione pari ad Euro 15.000,00 era sottoscritta, ma non versata; e solo il versamento della somma Euro 5.000,00 afferiva all’aumento non interamente liberato, mentre quello di ulteriori Euro 4.000,00 riguardava la quota sottoscritta e liberata in sede di conferimento iniziale.

Tale situazione di fatto induce, pertanto, a concludere come, in ragione della preesistenza, nella titolarità del socio, della quota nominale di Euro 4.000,00, sia stato illegittimo il ricorso alla procedura di c.d. vendita in danno per l’intera partecipazione sociale posseduta dal socio medesimo, pari ad Euro 24.000,00, con la conseguente violazione dell’art. 2466 c.c..

3.3. – Invero, l’art. 2466 c.c., in esito al procedimento di legge e laddove non siano state possibili soluzioni meno drastiche, prevede che il socio venga escluso dalla società, con corrispondente riduzione del capitale sociale, l’ente “trattenendo le somme riscosse”.

Si tratta, dunque, di una riduzione nominale per la parte non versata, ma reale per quella già versata.

Il capitale nominale, o capitale sociale, è un’entità fissa, determinata contabilmente secondo l’art. 2328 c.c., comma 2, n. 4 e art. 2463 c.c., comma 2, n. 4, ed indicata, al passivo, nella voce A-I del patrimonio netto, ai sensi dell’art. 2424 c.c.. Esso, quindi, può essere ridotto solo in modo nominale.

Peraltro si distingue, a seconda che alla riduzione del capitale sociale corrisponda anche la riduzione del patrimonio netto della società (riduzione reale) oppure l’operazione si risolva in un mero adeguamento contabile del capitale sociale al patrimonio netto (riduzione nominale). Da un lato si pone, tipicamente, la riduzione c.d. per esuberanza; dall’altro, la riduzione per perdite.

Nella categoria della riduzione reale vengono ricondotte, inoltre, la riduzione per recesso del socio ai sensi degli artt. 2437 e 2473 c.c., quella dovuta al socio per il suo recesso in caso di conferimento in natura di cui all’art. 2343 c.c., comma 4, ed altre evenienze, qui non rilevanti.

Nella categoria della riduzione nominale rientrano, fra le altre, le ipotesi codicistiche della riduzione a causa dei conferimenti in natura sovrastimati ex artt. 2343 c.c., dell’annullamento di azioni proprie ai sensi dell’art. 2357 c.c. e di azioni della società controllante illecitamente possedute di cui all’art. 2359-ter c.c. ed, appunto, della “decadenza” o esclusione del socio moroso, ai sensi degli artt. 2344 e 2466 c.c..

Ora, nel meccanismo previsto da tale ultima disposizione, qualora il socio venga escluso, sebbene egli fosse moroso solo in parte e non per l’intero debito del conferimento, la riduzione del capitale in proporzione all’intera quota finisce per costituire – per la parte corrispondente ai versamenti già eseguiti – una riduzione non solo nominale, ossia di mero adeguamento alle effettive risorse conferite in società, ma in parte reale, permettendo di “liberare” i corrispondenti importi, non più vincolati a capitale. Si tratta delle “somme riscosse”, che vengono legittimamente “trattenute” dalla società, ai sensi dell’art. 2344 c.c., comma 2, e art. 2466 c.c., comma 3, andando a costituire una riserva, e non più la posta corrispondente al vincolo del capitale, sia pure sempre nell’ambito del patrimonio netto, di cui alla lettera A del passivo dello stato patrimoniale di bilancio.

Tale meccanismo, esplicitamente previsto dalla norma con riguardo alla sottoscrizione parziale di un’unitaria operazione, non può tuttavia essere esteso al caso in cui il socio, in virtù di una precedente sottoscrizione attuata in fase di costituzione o anche di un pregresso aumento del capitale, fosse già tale, e senza debiti di conferimento, prima dell’aumento che abbia condotto alla morosità in tal modo sanzionata.

In tale evenienza, il socio non potrà, invero, essere escluso, mentre la riduzione del capitale riguarderà, in modo corrispondente, solo la parte relativa alla sottoscrizione operata con riferimento all’aumento de quo.

3.4. – Con riguardo al profilo della unitarietà e non frazionabilità della quota sociale, è vero che la quota di una società a responsabilità limitata è unica per ciascun socio, non potendo essa essere rappresentata da azioni (art. 2468 c.c., comma 1) e non essendo, a differenza di queste, la mera componente di un “pacchetto” di titoli (art. 2346 c.c., comma 1).

E, tuttavia, non è vero che la quota non sia divisibile: il contrario desumendosi già dalla lettera della norma in esame, laddove prevede che la quota del socio moroso possa essere venduta “agli altri soci in proporzione della loro partecipazione”, ai sensi dell’art. 2466 c.c., comma 2, al pari di quanto previsto nell’art. 2473 c.c., comma 4, per l’ipotesi del recesso del socio, nonchè in ragione della pacifica alienabilità parziale della quota sociale. Ciò, peraltro, fa salvo il caso che lo statuto esplicitamente contempli l’indivisibilità della quota di ciascun socio.

3.5. – Risponde dunque al precetto di legge, nonchè ai principi di buona fede e correttezza i quali necessariamente informano anche i rapporti societari, che la procedura di annullamento della quota con corrispondente abbattimento del capitale sia intrapresa dall’organo amministrativo solo per la frazione della partecipazione sociale sottoscritta in occasione dell’aumento del capitale sociale rimasto in tutto o in parte ineseguito, e non per la parte di cui il socio fosse titolare prima della deliberazione di aumento stessa.

Infatti, l’inadempimento del socio all’obbligo di versare quanto sottoscritto riguarda non l’intera quota, posseduta dopo l’aumento e risultante dalla somma di questa con la partecipazione originaria, ma solo la porzione derivante dall’aumento di capitale, deliberato dall’assemblea nel corso della vita sociale, se l’iniziale debito da conferimento fosse stato regolarmente, a suo tempo, onorato.

In tal modo laddove, in esito al procedimento di cui all’art. 2466 c.c., si pervenga alla riduzione del capitale sociale, questa sarà operata solo per la parte corrispondente al conferimento dovuto in forza della sottoscrizione dell’aumento (costituendo, dunque, una riduzione in parte nominale, con riguardo alla quota non liberata, ed in parte reale, con riguardo al versamento parziale operato dal socio) e non per l’intera misura della partecipazione, di cui il socio sia titolare: con conseguente vantaggio per gli interessi della stessa società e più generali alla conservazione del valore del capitale sociale, ratio sottesa all’intero procedimento previsto dalla disposizione, il quale infatti procede, via via, dai rimedi endosocietari sino alla soluzione estrema della rinuncia a quel conferimento mediante la riduzione del capitale sociale.

Al contrario, la ratio di permettere agli altri soci, in virtù dell’inesecuzione del conferimento, di escludere definitivamente il socio inadempiente dalla società non è rinvenibile nella disposizione in esame.

In conclusione, deve enunciarsi il seguente principio di diritto:

“Nel caso di mora del socio nell’esecuzione dei versamenti, dovuti alla società a titolo di conferimento per il debito da sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale deliberato dall’assemblea nel corso della vita della società, il socio non può essere escluso, essendo egli titolare della partecipazione sociale sin dalla costituzione della società; pertanto, ferma la permanenza del socio in società per la quota già posseduta, l’assemblea deve deliberare la riduzione del capitale sociale solo per la misura corrispondente al debito di sottoscrizione derivante dall’aumento non onorato, fatto salvo solo il caso in cui lo statuto preveda l’indivisibilità della quota”.

4. – Il terzo motivo è inammissibile.

La sentenza impugnata contiene una duplice ratio decidendi, avendo escluso che il socio abbia dato la prova dell’esistenza di finanziamenti alla società, e avendo solo ad abundantiam affermato come, in ogni caso, il relativo credito non avrebbe potuto essere compensato con il debito da conferimento, trattandosi di aumento del capitale a pagamento.

La prima ratio, che del resto attiene ad accertamento di fatto qui non ripetibile, non è stata confutata dal motivo e resta, dunque, idonea a sorreggere la decisione, oltre a palesare l’inconsistenza della censura relativa all’omesso esame di tale circostanza.

5. – Il ricorso incidentale è infondato.

Il socio moroso di società a responsabilità limitata non è ammesso, secondo il disposto dell’art. 2466 c.c., a partecipare alle decisioni o alle deliberazioni assembleari esprimendo il proprio voto, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, sino a che egli resti parte della compagine societaria.

Il socio moroso, invero, fino al completamento del procedimento di vendita coattiva o di esclusione non cessa di essere socio (ad es., egli è computato nel quorum costitutivo, ma non nel quorum deliberativo, come si desume dall’art. 2368 c.c., comma 3).

Mentre, dunque, il voto resta “sospeso” per il tempo della morosità, quale misura sanzionatoria e sollecitatoria dell’adempimento, non così i diritti amministrativi ed, in primis, il diritto di informazione e di ispezione, di cui all’art. 2476 c.c., comma 2, che resta a presidiare la trasparenza dell’andamento societario, e tanto più necessario (salvo abusi, di cui però nella specie non si discute) proprio nel momento del conflitto con gli altri soci o con la gestione societaria.

Sul punto, giova enunciare il seguente principio di diritto:

“Il socio moroso di società a responsabilità limitata non è ammesso, secondo il disposto dell’art. 2466 c.c., ad esprimere il proprio voto nelle decisioni e deliberazioni assembleari, ma non perde anche il diritto di controllo sugli affari sociali, ai sensi dell’art. 2476 c.c., comma 2, sino a che egli resti parte della compagine societaria in esito al procedimento intrapreso dagli amministratori”.

6. – La sentenza impugnata va dunque cassata in accoglimento del motivo accolto, con rinvio innanzi alla Corte del merito, in diversa composizione, perchè provveda – sulla base del principio enunciato al punto 3 – a decidere le domande di accertamento dell’invalidità dell’esclusione del socio e di accertamento dell’entità della quota residua in capo al ricorrente.

Alla corte del merito si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso principale, respinto il primo ed inammissibile il terzo; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, innanzi alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020

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