Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.169 del 09/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7025-2018 proposto da:

C.V., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO GALLINA;

– ricorrente –

contro

PIX TATOO DI P.L., in persona del titolare pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONELLA CACCESE;

– resistente –

avverso la sentenza n. 533/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 12/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 02/07/2019 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCA SPANA.

RILEVATO

che con sentenza in data 7-12 dicembre 2017 numero 533 la Corte d’Appello di Brescia confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva respinto la domanda proposta da C.V. nei confronti della ditta PIX TATTOO di P.L. per l’accertamento della intercorrenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato nel periodo 9 gennaio 2006 – 31 dicembre 2012 e per la condanna del P. al pagamento delle differenze di retribuzione (Euro 129.876,77);

che a fondamento della decisione la Corte territoriale osservava che, come correttamente rilevato dal primo giudice, le deposizioni delle due testi introdotte dalla parte ricorrente, pur confermando lo svolgimento da parte della C. di alcune attività di lavoro, non contenevano alcun riferimento al potere di controllo, alla eterodirezione delle attività svolte, alla soggezione al potere disciplinare, all’obbligo di giustificare le assenze.

Inoltre, come ancora giustamente rilevato dal primo giudice, i clienti abituali dello studio (testi U., T., S.) avevano riferito di non aver mai visto al lavoro la C., presente in studio solo in qualità di compagna del P., il quale era aiutato da altri collaboratori.

Il giudizio del giudice di primo grado era corretto anche quanto ai documenti: l’estratto di una chat intercorsa tra le parti era irrilevante a fronte di un rapporto di lavoro che si assumeva durato sette anni; le poche fotografie della parte intenta ad eseguire tatuaggi erano compatibili con un aiuto discontinuo al compagno P., al di fuori di vincoli di subordinazione.

Quanto ai cosiddetti fogli di presenza – elenchi che riportavano il nome della C. accanto a quello degli altri collaboratori – non era vero che essi non fossero stati disconosciuti; costituendosi in giudizio il convenuto ne aveva eccepito l’ignota provenienza (senza considerare che le annotazioni in corrispondenza del nome della C. erano rarissime);

che avverso la sentenza ha proposto ricorso C.V., articolato in un unico motivo; l’intimato ha depositato procura alle liti;

che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti -unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

CONSIDERATO

che con l’unico motivo la parte ha dedotto- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, – violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., riguardo alla sussistenza degli indici rivelatori del vincolo di subordinazione.

La parte ricorrente ha esposto che la subordinazione può manifestarsi in forme attenuate quando la prestazione è caratterizzata da un grado di autonomia maggiore rispetto al lavoro manuale e ripetitivo; la subordinazione viene desunta in tal caso sulla base di indici sussidiari, quali la continuità e la personalità della prestazione, l’inserimento nell’organizzazione aziendale, l’assenza di rischio.

Nella fattispecie di causa le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro deponevano per la sua qualificazione come subordinato: ella poneva la propria prestazione a disposizione della parte convenuta in via continuativa; l’attività da svolgere veniva indicata dal titolare; era tenuta ad osservare un orario di lavoro; non disponeva di strumenti di lavoro propri, servendosi di quelli messi a disposizione dalla ditta.

Dalle deposizioni dei testi B.N. e G.P., emergeva la durata del rapporto, le mansioni svolte, l’orario di lavoro ed il potere direttivo del signor P..

A conferma di quanto dedotto erano state prodotte: documentazione fotografica, che la ritraeva impegnata nello svolgimento delle attività; fogli di presenza elaborati dalla parte datoriale; copia del verbale di pronto soccorso in data 1 dicembre 2008, a seguito di infortunio occorsole nello svolgimento delle mansioni.

che ritiene il Collegio si debba dichiarare inammissibile il ricorso;

che nella giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione secondo cui, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto – cioè l’individuazione del parametro normativo – mentre costituisce accertamento di fatto, come tale censurabile in detta sede nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione, la valutazione delle risultanze processuali al fine della verifica di integrazione del parametro normativo (cfr. Cassazione civile sez. lav., 01/03/2018, n. 4884; Cass., n. 17009 del 2017; Cass., Sez. 6, n. 9808 del 2011; Cass., n. 13448 del 2003; Cass. n. 8254 del 2002; Cass., n. 14664 del 2001; Cass., n. 5960 del 1999). Nella fattispecie di causa la parte ricorrente non pone in discussione i parametri normativi alla cui stregua la Corte territoriale ha escluso la qualificazione del rapporto come subordinato ma piuttosto si duole della valutazione delle risultanze istruttorie, testimoniali e documentali, effettuata dal giudice del merito, a suo dire attestanti la ricorrenza della subordinazione, in quanto indici sussidiari.

La deducibilità del vizio di motivazione è poi in limine preclusa dal disposto dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, applicabile nella fattispecie di causa per il giudizio conforme in fatto reso nei due gradi di merito;

che, pertanto, essendo condivisibile la proposta del relatore, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con ordinanza in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.;

che non vi è luogo a provvedere sulle spese per la sostanziale assenza di attività difensiva dell’intimato;

che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, (che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte dichiara la inammissibilità del ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 2 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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