Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.184 del 09/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10750/2018 R.G. proposto da:

A.W., rappresentato e difeso dall’Avv. Roberto Maiorana, con domicilio eletto in Roma, viale Angelico, n. 38;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta n. 294/17 depositata il 16 novembre 2017.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 22 ottobre 2019 dal Consigliere Guido Mercolino.

RILEVATO

che A.W., cittadino del Pakistan, ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso la sentenza del 16 novembre 2017, con cui la Corte d’appello di Caltanissetta ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 2 dicembre 2015 dal Tribunale di Caltanissetta, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;

che il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Considerato che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per essere incorsa in insanabile contraddizione con riguardo alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, avendo da un lato ritenuto che la situazione del Paese di origine di esso ricorrente fosse caratterizzata da una violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato interno, e avendo dall’altro escluso l’applicabilità della misura invocata, in quanto la predetta situazione non era stata riferita nella narrazione della vicenda personale allegata a sostegno della domanda;

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 7 e 14, sostenendo che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, la sentenza impugnata non ha tenuto conto che tale misura non è subordinata necessariamente alla sussistenza di un pericolo di persecuzione individuale, risultando sufficiente anche una situazione di violenza generalizzata e di persecuzione ai danni degli appartenenti a determinate confessioni religiose o a gruppi etnici o nei confronti di oppositori;

che i due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono infondati;

che, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, la Corte territoriale ha dato puntualmente atto delle tensioni sociali e politiche esistenti in Pakistan e della condizione generale d’insicurezza che ne consegue, anche a causa del ripetersi di atti terroristici, ma ha escluso per un verso la configurabilità di un conflitto interno, talmente grave da costituire di per sè solo una minaccia per chiunque risieda nel territorio del predetto Stato, rilevando per altro verso la mancata prospettazione di una specifica situazione di pericolo per la vita o la persona del ricorrente;

che le due proposizioni non possono ritenersi in contrasto tra loro, avuto riguardo ai connotati di gravità ed individualità che devono necessariamente contraddistinguere la minaccia richiesta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, i quali postulano la diretta esposizione a rischio del richiedente o in virtù di una minaccia a lui specificamente rivolta, o in virtù di una situazione di violenza talmente grave e diffusa da mettere in pericolo chiunque entri in contatto con il territorio interessato;

che, in tema di protezione sussidiaria, questa Corte ha infatti affermato costantemente, in conformità della giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia UE, 30/01/2014, in causa C-285/12, Diakitè), che la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva soltanto se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, abbiano raggiunto un grado di violenza talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (cfr. Cass., Sez. VI, 8/07/2019, n. 18306; 2/04/2019, n. 9090; 31/05/2018, n. 13858);

che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19, del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, art. 28, comma 1, della L. 14 luglio 2017, n. 110 e dei principi generali di cui all’art. 10 Cost. ed all’art. 3 della CEDU, censurando la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, nonostante l’accertata gravità della situazione politica, economica e sociale del Paese di origine di esso ricorrente, caratterizzata dalla diffusione di atti terroristici e da un conflitto armato ancora in corso;

che il motivo è inammissibile, risolvendosi nella generica insistenza sulla situazione generale d’insicurezza del Pakistan, la cui valutazione, in assenza di uno specifico collegamento con la situazione personale del richiedente e con l’abbandono del Paese di origine, non potrebbe in alcun caso assumere portata determinante ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, risultando di per sè inidonea ad evidenziare una condizione di vulnerabilità soggettiva;

che infatti, come ripetutamente affermato da questa Corte, la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria dev’essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata non già alla situazione generale del Paese di origine, ma a quella personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 7/02/2019, n. 3681);

che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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