Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.189 del 09/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12034-2015 proposto da:

INSO S.p.A. in Amministrazione Straordinaria, in persona dei Commissari Straordinari pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA BENEDETTO CAIROLI 6, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA GERVASIO, rappresentata e difesa dagli avvocati VIERI ROMAGNOLI, SILVIA DRIGANI;

– ricorrente –

contro

M.G. e B.A. M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VITTORIO COLONNA 32, presso lo studio dell’avvocato FABIO CINTIOLI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITTORIO BECHI;

– controricorrenti –

contro

ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE STUDIO LEGALE M.- B.- R.-

T.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 644/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 15/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/06/2019 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO.

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– dopo che per molto tempo la Nuova Pignone Holding s.p.a. e poi la INSO s.p.a., che era subentrata alla prima, si erano avvalse per la tutela dei propri interessi davanti ai giudici amministrativi degli avvocati M.G. e B.A. M., che facevano capo ad una associazione professionale, venuto meno il rapporto fiduciario, s’innestò contenzioso giudiziario in relazione al pagamento delle attività professionali residue;

– i due professionisti citarono in giudizio la INSO (si omette la posizione dell’Associazione perchè non più rilevante), chiedendo che questa fosse condannata al pagamento della complessiva somma di Euro 803.102,87;

– il Tribunale, dopo una prima sentenza parziale, con quella definitiva ritenne che tra le parti fosse intercorso un accordo, in base al quale i professionisti si erano obbligati ad applicare il minimo tariffario, minimo che, tuttavia, nonostante che l’assistenza e rappresentanza legale si fosse svolta davanti al giudice amministrativo, non poteva essere riferito allo scaglione della controversia di valore indeterminabile, bensì a quello del corrispondente valore effettivo del bene della vita preteso (interesse, nella specie, diretto a conservare il contrato d’appalto), e fatto luogo a CTU, sulla base dell’adottato criterio liquidò in favore dei professionisti la complessiva somma di Euro 405.448,33;

– la Corte d’appello di Firenze, decidendo sull’impugnazione della INSO:

a) escluse, prestando adesione ai precedenti di legittimità, che l’individuazione dello scaglione, in un simile caso, potesse essere riferito al valore dell’aspettativa indiretta, derivante dall’accoglimento della pretesa caducatoria dell’atto amministrativo, dovendosi applicare, invece, quello del valore indeterminato;

b) tuttavia, reputò che il criterio del valore del bene della vita anelato era quello a cui le parti avevano inteso riferirsi nella loro esperienza negoziale pluriennale, pur con la prescrizione della quantificazione nel minimo della tariffa, riferito al predetto valore;

c) in ragione di ciò, pur avendo impropriamente enunciato in dispositivo la riforma parziale, confermò, con rettifica della motivazione, la sentenza di primo grado;

ritenuto che la INSO ricorre avverso la decisione d’appello sulla base di due motivi, che gli avv.ti M.G. e B.A. M. resistono con controricorso, che entrambe le parti (occorre precisare che alla ricorrente, caduta in insolvenza, è subentrata l’amministrazione straordinaria) hanno depositato memoria illustrativa e che, infine, i controricorrenti hanno chiesto trattazione in pubblica udienza, al fine di controdedurre all’eccezione di giudicato esterno avanzata dalla ricorrente con la memoria;

ritenuto che con i due motivi, tra loro osmotici, la ricorrente denunzia falsa applicazione dell’art. 2233 c.c. e art. 1362 c.c., commi 1 e 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo che:

a) la sentenza aveva dato credito ad un parametro di liquidazione implausibile e di fantasia, soggetto alla volontà e agli aggiustamenti disposti ad libitum dai due professionisti a seconda del caso concreto;

b) il contenuto letterale dell’accordo (le plurime lettere dei due avvocati, che si erano impegnati a richiedere il minimo di tabella) era stato pretermesso, valorizzando una insussistente prassi applicativa e il mero fatto dei pagamenti, i quali altro non rappresentavano che un adempimento, sul presupposto, in buona fede, della correttezza della pretesa;

c) la sentenza, evocando una prassi applicativa insussistente, era così incorsa nella falsa applicazione dei criteri ermeneutici di legge, privilegiando ingiustamente il parametro di cui sopra aveva svuotato di significato il riferimento al minimo di tariffa, che avrebbe dovuto essere inteso in relazione alle cause aventi valore indeterminabile; inoltre la decisione, in ogni caso, non avrebbe potuto contrastare il patto negoziale, il cui contenuto era stato reiteratamente espresso dai due legali;

d) esistendo un tale accordo, che aveva pieni effetti obbligatori, e non meramente programmatici, il giudice non avrebbe potuto modificare la determinazione stabilita nel minimo, evocando una pretesa prassi applicativa;

e) per altro una tale prassi non sussisteva, stante che la INSO pagava le parcelle nel convincimento che esse esponessero, nel rispetto degli accordi, l’onorario minimo in relazione al criterio tabellare di legge;

ritenuto che in via di preliminarietà deve prendersi in esame l’eccezione di giudicato esterno che la INSO ha formulato in seno alla memoria;

ritenuto che il dedotto giudicato nasce, secondo la INSO, dalla sentenza di questa Corte n. 21304 del 20/10/2016, la quale aveva confermato la sentenza della Corte d’appello di Firenze, la quale aveva condannato i due professionisti a restituire alla Nuova Pignone/INSO la somma di oltre un milione di Euro pretesi per onorari richiesti oltre il dovuto, essendo rimasto accertato che le parti avevano stabilito convenzionalmente l’applicazione dei minimi tariffari dei relativi scaglioni di pertinenza;

considerato che la deduzione deve essere scrutinata in quanto, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire a Sezioni Unite, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata; si tratta infatti di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto. Il suo accertamento, pertanto, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del “ne bis in idem”, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione. Tale garanzia di stabilità, collegata all’attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive, non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato; questi ultimi, d’altronde, comprovando la sopravvenuta formazione di una “regula iuris” alla quale il giudice ha il dovere di conformarsi in relazione al caso concreto, attengono ad una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione, e sono quindi riconducibili alla categoria dei documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso (sent. n. 13916, 16/6/2006, Rv. 589695; conf., ex multis, sent., n. 360/2006; 14190/07, 20779/07, 24664/07, 2732/08, 21200/09, 10537/010, 26041/010, 12159/011, 16675/011, 8607/017, 1534/018);

considerato che la preclusione evocata non sussiste sulla base di quanto appresso:

– l’autorità del giudicato sostanziale opera solo entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione, e presuppone che tra la causa precedente e quella in atto vi sia identità di soggetti, oltre che di “petitum” e “causa petendi”; l’accertamento del contenuto sostanziale e dell’effetto preclusivo che il giudicato può spiegare in un successivo giudizio (Sez. 3, n. 15222, 19/7/2005, Rv. 583285; conf., ex multis, Sez. L, n. 2113, 12/2/2013);

– è del tutto evidente che qui manca la identità oggettiva, la quale non può risolversi, come, in definitiva, pretende la ricorrente, nell’omogeneità della questione giuridica che viene in rilievo;

– per maggior chiarezza devesi precisare che nella causa in precedenza definita la sentenza di questa Sezione del 2016, per quel che qui interessa, decidendo sul quinto e sul settimo motivo del ricorso, confermò il principio, già più volte ribadito in sede di legittimità, secondo il quale, ai fini della determinazione degli onorari di avvocato, in base all’art. 6 della tariffa forense approvata con D.M. 5 ottobre 1994, n. 585 (applicabile “ratione temporis”), va considerata di valore indeterminabile la controversia introdotta innanzi al giudice amministrativo per l’annullamento di un atto (nella specie, di aggiudicazione di un appalto di opere pubbliche), qualora la “causa petendi” della domanda sia l’illegittimità dell’atto stesso e il “petitum” la sua eliminazione, senza che rilevino eventuali risvolti patrimoniali della vicenda (ex multis, Sez. 2, n. 1754, 24/1/2013, Rv. 624983);

– qui, ben diversamente, la Corte locale, nonostante abbia prestato piena adesione al principio di diritto sopra richiamato, ha confermato, come si è visto, la sentenza di primo grado, sulla base dell’interpretazione della volontà negoziale, e, infatti, come si è anticipato, la ricorrente con l’odierno ricorso contesta proprio questa interpretazione; questione questa che non ha formato oggetto del dibattito processuale nella causa definita con la sentenza di questa Corte del 2016;

considerato che i due connessi motivi, esaminati unitariamente, non possono essere accolti, in ragione delle seguenti considerazioni:

a) nonostante gli sforzi argomentativi di parte ricorrente, la vicenda resta confinata negli apprezzamenti di merito, non bastando, come più volte chiarito in questa sede, la enunciazione della pretesa violazione di legge in relazione al risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, occorrendo individuare, con puntualità, il canone ermeneutico violato correlato al materiale probatorio acquisito; in quanto, “l’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 c.c. e ss., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi: pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili (il secondo, ovviamente, sotto il regime del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti; di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579. 16.3.04 n. 5359, 19.1.04n. 753)” (Sez. 2, n. 18587, 29/10/2012; si veda anche, per la ricchezza di richiami, Sez. 6-3, n. 2988, 7/2/2013);

b) per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un negozio giuridico non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Sez. 3, n. 24539, 20/11/2009, Rv. 610944; conformi: Sez. 1, n. 16254, 25/9/2012, Rv. 623697; Sez. 1, n. 6125, 17/3/2014, Rv. 630519; Sez. 1, n. 27136, 15/11/2017, Rv. 646063);

c) nel caso di specie la Corte territoriale giunge alla conclusione, facendo uso degli strumenti ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e segg., e tenendo conto del comportamento tenuto dalle parti nel corso del pluriennale rapporto, che aveva visto affidare ai due professionisti il rilevante contenzioso aziendale, che le parti avevano cristallizzato un accordo, in base al quale la parcella, piuttosto che fare riferimento allo scaglione individuato per le cause davanti al giudice amministrativo (valore indeterminato), avrebbe dovuto fare riferimento al valore effettivo della controversia, tuttavia, nell’ammontare minimo;

d) trattasi, per quel che già si è chiarito, di valutazione di merito, in questa sede non sindacabile, dovendosi escludere che la sentenza abbia affidato alla piena e incontrollabile volontà dei due avvocati la determinazione del quantum, ben diversamente ritenendo, sulla scorta del vaglio probatorio, che, libere le parti di pattuire il compenso, esso era stato posto nel minimo, ma in riferimento al valore del bene della vita al quale la società aspirava, attraverso la caducazione dell’atto amministrativo impugnato davanti al giudice amministrativo;

e) tutte le mosse critiche, singolarmente e nel loro complesso, mirano ad un inammissibile riesame degli insindacabili apprezzamenti di merito e la denunzia di violazioni di legge non determina, per ciò stesso, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (cfr., da ultimo, Cass. nn. 11775/019, 6806/019, 30728/018);

f) di talchè costituiscono mere congetture assiomatiche, derivanti da un’alternativa e inammissibile ricostruzione fattuale, le affermazioni secondo le quali si fosse in presenza di puntuazioni meramente programmatiche e non di pattuizioni obbligatorie; che la condotta posta in essere in esecuzione del contratto d’opera professionale, costituita dal pagamento delle parcelle, emesse sulla base del valore mediato della lite, fosse frutto di errore, commesso in buona fede, sul presupposto che i professionisti si fossero attenuti al minimo tabellare per le cause di valore indeterminato; che la mandante (società commerciale d’importante rilievo), rappresentata, da persone fisiche, rivestenti il ruolo apicale necessario, indubbiamente qualificate ad apprezzare la congruità dell’ammontare delle parcelle, avesse per anni pagato più del dovuto;

g) infine, deve ricordarsi che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che i criteri di determinazione del compenso spettante ai prestatori d’opera intellettuale sono dettati dall’art. 2233 c.c. secondo una scala preferenziale che indica al primo posto l’accordo delle parti, in subordine le tariffe professionali ovvero gli usi e, infine, la decisione del giudice, previo parere obbligatorio, ma non vincolante, delle associazioni professionali; pertanto, il ricorso ai criteri sussidiari (tariffe professionali, usi, decisione giudiziale) è precluso al giudice quando esista uno specifico accordo tra le parti, le cui pattuizioni risultano preminenti su ogni altro criterio di liquidazione (Sez. 6 – 2, n. 29837, 29/12/2011, Rv. 620796);

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte della ricorrente, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 25 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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