LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 29661/2015 proposto da:
SRI REAL ESTATE SRL, ORA PROJET HIGH TECH SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V.QUATTRO FONTANE 161, presso lo studio dell’avvocato ANGELO ANGLANI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANTONIO PAOLO TOLA, IOLANDA BOCCIA, PIERO GUIDO ALPA;
– ricorrente –
contro
D.D.M., P.L., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 116, presso lo studio dell’avvocato STEFANO FIORELLI, che li rappresenta difende unitamente agli avvocati GIOVANNI BATTISTINI, LUISA MARIA SALVATORI;
MEDIOCREDITO ITALIANO SPA, in persona del Procuratore speciale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE FORNACI 38, presso lo studio dell’avvocato FABIO ALBERICI, rappresentata e difesa dall’avvocato LEONARDO BOTTAZZI;
– controricorrenti –
e contro
IMMOBILIARE FRASTINA SRL;
– intimata –
avverso la sentenza n. 3101/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 15/07/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/09/2019 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato Uttaro Loretta con delega depositata in udienza dall’avvocato Guido Alpa, difensore della ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
uditi gli Avvocati Alberici Fabio con delega orale dell’avvocato Bottazzi Leonardo e Fiorelli Stefano, difensori d resistenti, che hanno chiesto di riportarsi alle difese depositate.
FATTI DI CAUSA
P.L., D.D.M. e la s.r.l. Frastina Immobiliare convennero in giudizio la SRI Socially Responsible Italia s.p.a., poi Real Estate s.r.l., proponendo azione di accertamento negativo del diritto reale d’uso sul cortile interno del complesso edilizio sito in *****.
Il predetto complesso, fino al 1984 in capo a un solo proprietario, fatto oggetto di vai atti di alienazione, al momento della domanda si distingueva in un “corpo interno”, in proprietà della s.p.a. Leasint (poi Mediocredito Italiano s.pa.), concesso in leasing alla SRI Socially Responsible Italia s.p.a., e in un “corpo esterno”, inclusivo del cortile, di proprietà degli attori.
Con la prima alienazione del 1984 si era previsto che “il cortile interno, che resta di proprietà esclusiva della società venditrice, viene concesso alla società acquirente (addenda: per se ed aventi causa) in uso esclusivo da esercitare senza limitazione salvo il diritto di transito pedonale per accedere al locale e al sevizio del negozio esistente nel cortile (…) (addenda: L’area del cortile di cui è stato concesso l’uso alla società acquirente (…) appartiene al corpo di fabbrica esterno per la necessità urbanistica)”.
Il Tribunale, rigettata la domanda con la quale gli attori avevano chiesto eliminarsi talune opere, qualificò il diritto istituito con il negozio del 1984 reale d’uso, cedibile ai terzi aventi causa, per deroga espressa inserita nell’atto, limitato alla durata trentennale, essendo stato costituito in favore di persona giuridica (artt. 1026 e 979 c.c.), con scadenza che la sentenza indicava nel 31/1/2014.
La Corte d’appello di Milano, decidendo sull’impugnazione della SRI Real Estate s.r.l., confermò quella di primo grado.
Avverso quest’ultima pronunzia ricorre la SRI Real Estate sulla base di tre motivi di doglianza.
Controricorrono D.D.M. e P.L., i quali, a loro volta, in via incidentale, chiedono condannarsi la controparte ai sensi dell’art. 96, c.p.c., per responsabilità processuale aggravata. Cotroricorre, del pari, la s.p.a. Mediocredito Italiano.
All’approssimarsi dell’udienza la s.r.l. Project High tech, già SRI Real Estate s.r.l., ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1021 e 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Assume la ricorrente che, alla stregua delle regole sull’ermeneutica negoziale (principio di letteralità, della comune intenzione, della complessiva logicità delle clausole e di buona fede), avrebbero dovuto escludersi i caratteri tipici del diritto reale d’uso, mancando, in particolare, la temporaneità e la caratterizzazione secondo l’intuitu personae, oltre all’obbligo per l’usuario di rispettare la destinazione economica del bene. Per contro, nel caso di specie potevano rilevarsi caratteristiche incompatibili con il diritto d’uso: la perpetuità e la trasmissibilità, essendo rimasto il cortile in capo alla venditrice solo “per la necessità urbanistica”, essendosi, inoltre, precisato che “qualora venissero meno tali esigenze, la società venditrice si impegna per sè o suoi aventi causa a concedere il diritto di prelazione alla società acquirente al prezzo e modalità da convenirsi”.
2. Con il secondo motivo viene denunziata violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Afferma la ricorrente che il giudice ha il dovere di sussumere l’accertata vicenda fattuale nel regolamento giuridico più appropriato; ciò che nel caso non si era verificato, poichè la fattispecie concreta indirizzava verso la costituzione di un uso atipico, nei termini prospettati dalla ricorrente, che la Corte d’appello aveva escluso attraverso valutazioni squisitamente astratte, senza peritarsi di verificare, proprio alla stregua della stessa giurisprudenza di legittimità richiamata dalla decisione, “se la fattispecie oggetto del contendere potesse essere assunta in quei diritti/rapporti a carattere obbligatorio cui fa riferimento (quella) giurisprudenza”, così da sottrarre, nel rispetto della volontà delle parti, l’istituito diritto “alla regola della tipicità dei diritti reali su cosa altrui”. Si trattava, in definitiva di un rapporto avente natura obbligatoria, meritevole di tutela.
Inoltre, il diritto in questione trovava ricezione nel regolamento condominiale, opponibile ai terzi, in quanto trascritto.
Infine, in parte motiva la sentenza di secondo grado aveva affermato, incidenter tantum, che “Effetto della conferma della sentenza di accertamento del diritto di uso, ora scaduto, è l’obbligo del rilascio del cortile, con l’obbligazione della sua rimessione in pristino”. Sibbene all’affermazione non era conseguita pronuncia, conclude la ricorrente per l’erroneità della stessa, tenuto conto delle mosse critiche.
3. La prospettazione censuratoria, che si ricava dai due esposti motivi, è in parte infondata e in parte inammissibile.
3.1. Certamente inammissibile si dimostra l’evocazione dell’art. 113 c.p.c.: invero, pur nei casi in cui debba riscontrarsi la violazione o la errata applicazione di una norma giuridica, non può addebitarsi al giudice di aver perciò deciso secondo lo schema dell’equità, regolato dal comma 2, del predetto articolo, piuttosto che secondo diritto. Fermo restando che l’eventuale errore di sussunzione (positivo o negativo che esso sia) o di perimetrazione e individuazione degli effetti giuridici potrà costituire motivo di denunzia di violazione o falsa applicazione di legge.
3.2. Ammissibile, ma infondata, risulta la tesi prevalentemente svolta con il primo motivo.
La Corte territoriale ha giudicato incompatibile con l’altrui diritto di proprietà la costruzione di un uso reale atipico, esclusivo e perpetuo, che svuoterebbe di ogni significato il diritto di proprietà e darebbe vita a un diritto reale incompatibile con l’ordinamento.
Il percorso interpretativo e il risultato al quale giunge la Corte d’appello di Milano debbono condividersi.
La clausola, peraltro riportata dalla stessa ricorrente, quale che ne fosse stato il motivo (che, come noto, salvo casi tassativi, che qui non ricorrono, non assume rilievo) dell’apposizione, non incide sulla titolarità del bene qui in controversia, stante che il contratto lascia in piena proprietà dell’alienante il cortile di cui si discute, salvo a costituire un diritto di prelazione a favore dell’acquirente, ove di essa proprietà la venditrice non avesse avuto in futuro necessità urbanistica, “al prezzo e modalità da convenirsi”.
Di talchè deve convenirsi che proprio nel rispetto delle regole sull’ermeneutica negoziale s’impone un’interpretazione incompatibile con quella sostenuta dalla ricorrente.
La tesi della ricorrente, scontrandosi con la evidenza contrattuale di cui si è detto, implicherebbe la costituzione di un diritto di proprietà vuoto, mero simulacro o parvenza, al quale non corrisponderebbe alcuna delle facoltà del proprietario, prima fra tutte quella di poter godere pienamente e indisturbatamente della res. Nè la contraddizione potrebbe risolversi limitandosi ad affermare che in futuro esso proprietario potrebbe decidere di vendere il bene, perchè di esso nessuno si farebbe compratore, proprio perchè privo di utilità; nè avrebbe interesse a rendersi acquirente la stessa ricorrente, la quale trarrebbe di già ogni utilità dal predetto bene.
3.2.1. Devesi, inoltre, soggiungere che, escluso il diritto reale d’uso, la pretesa della ricorrente sconfinerebbe nella ipotesi di una servitù “personale” o “irregolare”, sulla scorta della quale la proprietà verrebbe limitata, senza apposizione di termine (evenienza questa ancor più emblematica ove il fruitore non sia una persona fisica), a vantaggio di un soggetto, invece che di un fondo, in contrasto con il nostro ordinamento (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 5603, 26/2/2019). Nè la situazione che ne deriverebbe sarebbe in alcun modo assimilabile alla cd. servitù di parcheggio, riconosciuta da questa Corte a condizione, appunto, che la facoltà che ne deriva risulti attribuita a diretto vantaggio del fondo dominante, per la sua migliore utilizzazione, quale utilitas di carattere reale (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 7561, 18/3/2019; Sez. 2, n. 16698, 6/7/2017).
In sintesi, deve affermarsi, enunciando principio di diritto, che il diritto reale d’uso, istituito in favore di una persona giuridica, a mente degli artt. 1026 e 979 c.c., non può superare il trentennio; non essendo, inoltre, compatibile con l’ordinamento la ipotizzabilità di un diritto perpetuo di natura obbligatoria a favore di un soggetto, nè che un tal diritto possa privare del tutto d’utilità la proprietà.
3.2.2. Infine, è appena il caso di soggiungere che sulla base del decisivo elemento costituito dal contenuto letterale della clausola, la interpretazione del Giudice d’appello, oltre che conforme, come si è visto, alla disciplina dei diritti reali, risulta rispettosa dei parametri interpretativi legali, riducendosi le censure dell’impugnante a mere enunciazioni del testo normativo, incapaci d’individuare in che consista il mancato rispetto della legge sull’ermeneutica negoziale, avuto riguardo alle specifiche emergenze di causa (sulla necessità per il ricorrente d’individuare nel concreto sviluppo argomentativo la violazione della regola ermeneutica e le sue effettive ricadute cfr., ex pluribus, Cass. 9.8.04 n. 15381; n. 13839, 21.7.04; n. 13579. 16.3.04 n. 5359; 19.1.04 n. 753; n. 18587, 29/10/2012; n. 2988, 7/2/2013).
4. Con il terzo motivo la ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, e art. 102 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Secondo l’assunto la Corte locale aveva errato a condannare la società ricorrente al rimborso delle spese legali in favore della terza chiamata Mediocredito Italiano, nonostante che quest’ultima non avesse impugnato la sentenza di primo grado “nella parte in cui quest’ultima ha omesso di pronunciarsi sulla domanda di manleva dalla stessa proposta nei confronti della SRI”. Inoltre, soggiunge la ricorrente, la chiamata era intervenuta a seguito di ordinanza d’integrazione del contraddittorio, in quanto la Mediocredito risultava la titolare del “corpo interno”, su richiesta degli attori. La chiamata nel giudizio d’appello di Mediocredito, instaurato dalla ricorrente, era divenuta necessità processuale non eludibile.
4.1. La censura va disattesa.
Non è controverso che l’immobile venne acquistato da Mediocredito Italiano, già Leasint s.p.a., in esecuzione di un contratto di locazione finanziaria in lease-back, e consegnato immediatamente alla società utilizzatrice. Ne consegue che correttamente risulta essere stato disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti della predetta società di leasing, esclusiva proprietaria del bene, nei confronti della quale doveva reputarsi rivolta in via prioritaria l’azione di accertamento negativo del diritto reale d’uso sul cortile interno del complesso edilizio. Sull’altro fronte, se poteva reputarsi sussistere un interesse giuridicamente protetto della locataria a vedersi affermato il diritto d’uso oltre il trentennio sul cortile di cui si discute, non v’è dubbio che prevalente interesse avesse la proprietaria del bene, del quale il diritto d’uso era accessorio.
Escluso, pertanto, che Mediocredito possa considerarsi mera terza chiamata, avendo assunto posizione in contrasto con quella della ricorrente, sia pure evidenziando il suo ruolo d’intermediario finanziario, privo di materiale rapporto col bene messo a disposizione della società utilizzatrice, dalla quale pretende di essere manlevato, nel rispetto del principio di soccombenza, la ricorrente, che ha resistito alla pretesa attorea, deve farsi carico anche delle spese legali di Mediocredito.
5. D.D.M. e P.L., in via incidentale hanno chiesto condannarsi la ricorrente a titolo di responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., comma 1, assumendo la temerarietà del ricorso principale.
5.1. La pretesa è manifestamente destituita di giuridico fondamento.
Non solo i ricorrenti incidentali non hanno dedotto quale pregiudizio economico avrebbero patito, ma ancor prima, non hanno neppure spiegato in cosa sia consistita l’addotta temerarietà dell’impugnazione, che, ovviamente, si caratterizza per la consapevole pretestuosità dell’azione giudiziaria intrapresa, occorrendo che la parte soccombente abbia agito o resistito “in giudizio con mala fede o colpa grave” (art. 96 c.p.c., comma 1).
6. La ricorrente deve rifondere le due parti controricorrenti, senza che rilevi il rigetto della domanda di responsabilità aggravata per una d’esse.
Sul punto assai di recente questa Corte ha condivisamente chiarito che “Secondo un primo indirizzo, che ha trovato consacrazione nella sentenza n. 20838 del 14/10/2016 (Rv. 641572) di questa Sezione, “il rigetto di parte della domanda ovvero di alcune delle domande proposte dalla stessa parte configura l’ipotesi di parziale soccombenza reciproca, che giustifica la compensazione totale o parziale delle spese di lite, in applicazione del principio di causalità, in forza del quale sono imputabili a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per aver resistito a pretese fondate, ovvero per aver avanzato pretese infondate (da ultimo, con ampi richiami, Cass., sez. 3, sentenza n. 3438 del 2016)”.
Altro e successivo orientamento di legittimità ha espresso il principio secondo il quale il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, nè in primo grado nè in appello, sicchè non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c. (Sez. 6, n. 9532, 12/4/2017, Rv. 643825).
Questa seconda opzione interpretativa risulta essere stata condivisa, sulla base di un ordito motivazionale di maggiore incisività, da una successiva decisione (Sez. 6, n. 11792,15/5/2018).
La Corte, dopo aver dato atto di volersi confrontare con il primo orientamento, propende per la seconda opzione interpretativa, “stante la natura meramente accessoria della domanda ex art. 96 c.p.c., rispetto all’effettivo tema di lite cui va rapportata la verifica della soccombenza (domanda che presuppone, quale condizione necessaria – anche se non sufficiente – per il suo accoglimento, proprio il riconoscimento della soccombenza integrale della parte cui si attribuisce l’illecito processuale), nel caso – come quello all’esame – di rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., proposta dagli appellati e di rigetto dell’appello (con conseguente conferma del rigetto della domanda proposta in primo grado dagli appellanti) non dà luogo ad una ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare la soccombenza reciproca sulla quale il Tribunale ha fondato la compensazione delle spese di lite di secondo grado”.
Il Collegio reputa doversi dare continuità a questo secondo indirizzo, del quale condivide la struttura argomentativa portante.
A voler completare la delineazione del quadro pare utile precisare che il dato dirimente è rappresentato non tanto dalla natura dell’istanza, che si traduce, per forza di cose, in una domanda, pur indubbiamente accessoria, quanto nella testuale condizione necessaria della riconosciuta integrale soccombenza del preteso litigante temerario.
L’ostacolo alla tesi opposta non si rinviene nella dedotta mancanza di contrapposizione delle domande (tutte le domande che le parti si rivolgono contro sono contrapposte per forza di cose, non essendo richiesto che siano simmetriche), ma nell’accessorietà della domanda per lite temeraria, la quale, come puntualmente osservato, presuppone che la controparte risulti integralmente soccombente.
Infine, non dovrebbero sorgere ostacoli ad una condanna ai sensi dell’art. 92 c.p.c., seconda parte, a carico dell’istante per responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., ove, a sua volta, abbia trasgredito al dovere di cui all’art. 88 c.p.c.”.
6.1. Le spese del giudizio di legittimità di entrambe le parti controricorrenti, pertanto, debbono essere poste a carico della ricorrente nella misura, stimata congrua, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività svolte, di cui in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale e di quelli incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale e quello incidentale e condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese legali in favore di ciascuna delle due parti resistenti, che liquida, per ognuna d’esse, in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale e di quelli incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 10 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020
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