LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21483-2015 proposto da:
Avv. S.G., rappresentato e difeso dall’Avvocato MARIA BRUNA PESCI, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in PERUGIA, VIA OBERDAN 27;
– ricorrente –
contro
A.M.L. e SE.EL., rappresentate e difese dall’Avvocato FABRIZIO CEPPI ed elettivamente domiciliate presso il suo studio in PERUGIA, PIAZZA PICCININO 10;
– controricorrenti –
avverso l’ordinanza R.G. n. 1306/2015 del TRIBUNALE di PERUGIA, pronunciata il 10/07/2015;
udita la relazione delle cause svolta nella pubblica udienza del 26/09/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati MARIA BRUNA PESCI per il ricorrente e FABRIZIO CEPPI per le controricorrenti, i quali hanno concluso rispettivamente come in atti.
FATTI DI CAUSA
Con decreto ingiuntivo n. 236/2015 il Tribunale di Perugia ingiungeva a A.M.L. e a SE.EL. il pagamento della somma di Euro 22.634,68 in favore dell’Avv. S.G., a titolo di pagamento del compenso professionale per l’attività prestata nella causa civile n. 224/2007 davanti al medesimo Tribunale.
Avverso detto decreto ingiuntivo proponevano opposizione A.M.L. ed SE.EL., contestando il pagamento ingiunto con riguardo al quantum del compenso. In particolare, deducevano che erroneamente era stato individuato il valore della controversia in relazione allo scaglione di valore da 260,000,01 a 520.000,00 in quanto la domanda, avente ad oggetto un’azione di riduzione di disposizione testamentaria assertivamente lesiva della quota di legittima, doveva essere valutata, ai fini del valore, in analogia alla disciplina dettata con riferimento ai giudizi di divisione e quindi facendo riferimento “alla quota ovvero ai supplementi di quota” in contestazione. Pertanto, ritenendo di dover fare applicazione del valore minimo dello scaglione di riferimento, deducevano che il compenso spettante al difensore, detratto l’acconto già versato, fosse pari a Euro 1.338,42. In via subordinata, deducevano che, anche facendosi riferimento all’intero valore della massa, lo stesso andava determinato ai sensi degli artt. 14 e 15 c.p.c., con la conseguenza che, in ragione dell’importo stimato e della natura della controversia, dovessero applicarsi gli importi minimi e quindi, detratto l’acconto già versato, il compenso dovuto fosse pari a Euro 5.112,58. Concludevano per la revoca del decreto ingiuntivo e per accertare come dovuti i minori importi indicati.
Si costituiva in giudizio l’avv. S., facendo rilevare come, anche a fare riferimento al valore della quota assegnata a SE.EL. come stimato dal CTU, in corso di causa, lo stesso, in quanto pari a Euro 261.015,00, era ricompreso nello scaglione indicato nella parcella, redatta in conformità ai parametri di legge, tenuto conto dell’attività svolta.
Con ordinanza n. 1306/2015, depositata in data 23.7.2015, il Tribunale di Perugia revocava il decreto ingiuntivo opposto e liquidava al professionista la somma di Euro 629,29, ritenendo di fare riferimento al supplemento di quota in contestazione e applicando lo scaglione fino a Euro 26.000,00.
Avverso l’ordinanza propone ricorso per cassazione l’avv. S.G. sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria; resistono A.M.L. e SE.EL. con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione ed errata applicazione delle norme di diritto per violazione e mancata applicazione dell’art. 12 c.p.c.”, là dove la contestazione mossa dalle opponenti nel giudizio de quo riguardava non solo l’asserita lesione della quota di legittima e la conseguente domanda di reintegrazione, ma anche il valore dell’intera massa. Del resto, nelle conclusioni, le attrici chiedevano la nomina di un CTU al fine di descrivere e valutare i beni caduti in successione. Pertanto, correttamente il difensore ha fatto rientrare il compenso nello scaglione compreso tra Euro 260.001,00 e Euro 520,000,00, attenendosi alla media tariffaria, stante il valore dell’asse ereditario determinato dal CTU in Euro 380.163,48 e stimato dalle attrici in domanda tra 343.000,00 e 370.000,00.
1.1. – Il motivo non è fondato.
1.2. – L’art. 12 c.p.c., comma 2, secondo il quale il valore delle cause per divisione si determina in base a quello della massa da dividere e non con riferimento alle singole quote o supplementi di quote, non si applica nella fattispecie.
Da un lato, infatti, il D.M. n. 55 del 2014, art. 5, comma 1, (norma speciale ai sensi della quale: (…) Quando nei giudizi di divisione la controversia interessa anche la massa da dividere, si ha riguardo a quest’ultima) – premette che “Nella liquidazione dei compensi a carico del soccombente, il valore della causa “salvo quanto diversamente disposto dal presente comma” – è determinato a norma del codice di procedura civile. (…)”, così espressamente derogando, per quanto riguarda i giudizi di divisione (disposizioni applicabili, analogicamente, per pacifica giurisprudenza, anche alle azioni di riduzione e alla liquidazione degli onorari dovuti dal cliente), al rinvio effettuato nel suo stesso ambito alle norme del codice di procedura civile per la determinazione del valore della causa ai fini della liquidazione dei compensi dell’avvocato.
Dall’altro lato, questa Corte ha, altresì, affermato che, “ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato, il valore della causa di divisione non è quello della massa attiva ex art. 12 c.p.c., ma quello della quota in contestazione, poichè il D.M. n. 127 del 2004, art. 6, pur rinviando in generale al codice di procedura civile per la determinazione del valore della causa ai fini della liquidazione degli onorari a carico del soccombente, deroga a tale rinvio in materia di giudizi divisori, per i quali stabilisce che il valore è determinato in relazione “alla quota o ai supplementi di quota in contestazione” (cfr. anche Cass. n. 10939 del 2006); tale norma, inoltre, in quanto diretta a collegare il valore della causa all’interesse in concreto perseguito dalla parte, è applicabile analogicamente anche per la liquidazione degli onorari dovuti dal cliente in relazione all’azione di riduzione” (Cass. n. 6765 del 2012).
Il Tribunale di Perugia ha, dunque, esattamente rilevato che, essendo l’oggetto del giudizio la pretesa lesione della quota di riserva delle attrici con condanna della convenuta al pagamento dei conguagli, e non riguardando la controversia anche la massa da dividere, doveva farsi riferimento alla misura del conguaglio stimata dal CTU, in corso di causa, in favore delle attrici e pari a Euro 7.572,68.
2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione ed errata applicazione delle norme di diritto per violazione e mancata applicazione del D.M. n. 55 del 2014, art. 5 in tema di determinazione dei compensi professionali, ove non si è tenuto conto del valore effettivo della controversia in relazione agli interessi perseguiti dalle parti”, giacchè (anche a voler accedere alla tesi della delimitazione del valore in base alle quote in contestazione), il Tribunale di Perugia avrebbe dovuto comunque tenere conto di quella parte del compendio da dividere coincidente con l’interesse perseguito dalla parte, che, nel caso di specie, coincideva con quello afferente alla quota delle odierne controricorrenti; dovendosi avere riguardo al valore delle quote spettanti a entrambe le clienti, coincidendo queste con l’interesse dalle medesime perseguito. Pertanto, il compenso professionale andava iscritto nello scaglione compreso tra Euro 260.000,00 ed Euro 520.000,00, in quanto la quota di appartenenza di SE.EL. era stata determinata in Euro 261.015,00, somma cui si aggiungeva la quota di legittima riconosciuta dal CTU alla A., pari a Euro 95.040,87. Essendo d’altronde errato stimare il valore della controversia in Euro 7.572,68, atteso che tale importo neanche rappresenta il conguaglio necessario a reintegrare la legittima lesa, avendo il CTU specificato che alle attrici, nel progetto di divisione, viene assegnato tale importo e tutti i restanti beni (evidentemente anche quelli non compresi nel testamento).
2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – Valgono integralmente le medesime considerazioni svolte sub 1.2. (cui si rinvia), avendo correttamente il Tribunale fatto applicazione del predetto principio giurisprudenziale, già formatosi sotto la vigenza del precedente D.M. n. 127 del 2004 (ordinanza impugnata, pagina 3), in coerenza con l’altro principio espresso dalla citata Cass. n. 10939 del 2006, per il quale, “In tema di compensi spettanti all’avvocato, nei giudizi di divisione il valore della controversia deve essere individuato con riferimento a quello relativo alla quota in contestazione e quindi alla stregua della valutazione eventualmente effettuata dal consulente tecnico d’ufficio”.
Peraltro, l’assunto del ricorrente in base al quale il Tribunale avrebbe dovuto tenere conto del valore effettivo della controversia in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, e del valore delle quote spettanti a entrambe le clienti, coincidendo queste con l’interesse dalle medesime perseguito, mira piuttosto a sollecitare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).
3. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione ed errata applicazione delle norme di diritto per violazione e mancata applicazione dell’art. 112 c.p.c.”, osservando che giammai le opponenti avessero determinato il valore della controversia in quello erroneamente individuato dal Tribunale, che – pur avendo le controparti sempre ricompreso il compenso in uno scaglione che supera Euro 52.000,00 – ha nonostante ciò determinato il valore nella minore misura di Euro 7.572,68, così violando il divieto di decidere ultra o extra petita partium (art. 112 c.p.c.).
3.1. – Il motivo non è fondato.
3.2. – E’ pacifico nella giurisprudenza di legittimità che non sussiste il vizio di extrapetizione quando il Giudice dell’opposizione revochi il provvedimento monitorio ed emetta una sentenza di condanna al pagamento di una somma inferiore a quella richiesta dal ricorrente (Cass. n. 28660 del 2013; Cass. n. 1954 del 2009; Cass. n. 9021 del 2005; Cass. n. 24021 del 2004). Questa Corte ha infatti affermato che, nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, si afferma che nell’originaria domanda di pagamento di un credito, contenuta nel ricorso per ingiunzione, e nella domanda di rigetto dell’opposizione o in appello, sia ricompresa quella subordinata di accoglimento della pretesa per un importo minore; ed ancora, si precisa che non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorchè il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto (Cass., sez. II, 5 novembre 2009, n. 23490).
Non si deve ravvisare, pertanto, alcuna modifica di causa petendi o petitum quando il giudice riduce semplicemente la somma, rispetto a quella domandata: la condanna al minus è ricompresa in quella ad una somma maggiore.
4. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce la “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”, là dove il Tribunale ha affermato in maniera apodittica che la controversia non riguarda anche la massa da dividere senza specificare per quale motivo. Il Giudice di merito ha altresì omesso ogni considerazione sul valore effettivo della controversia in relazione all’interesse perseguito dalle parti, parimenti determinando il valore sulla base del solo interesse perseguito dalle attrici e non su quello delle convenute. Tale ragionamento, oltre che illogico, risultrebbe affetto da un macroscopico errore, in quanto il Tribunale ha ritenuto che il conguaglio in contestazione sia di soli Euro 7.572,68, senza considerare gli altri beni assegnati alle legittimarie, ivi compresi quelli non contemplati nel testamento.
4.1. – Il motivo è inammissibile.
4.2. – La denuncia di “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, risulta inammissibile per non essere riconducibile al modello introdotto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche alla ordinanza oggetto del presente ricorso straordinario, decisa il 10 luglio 2015.
Prevede, infatti, il nuovo testo che la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Orbene è noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014), la norma consenta di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe dovuto specificamente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Orbene, nella specie, della enucleazione di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde poter procedere all’esame del denunciato parametro, non v’è traccia. Sicchè, alla luce del sopra richiamato consolidato indirizzo giurisprudenziale, riguardante la più angusta latitudine della nuova formulazione rispetto al previgente vizio di “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, le censure mosse in riferimento al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 si risolvono, in buona sostanza, nella ulteriore richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della ordinanza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018), inammissibile seppure effettuata con asserito riferimento alla congruenza sul piano logico e giuridico del procedimento seguito per giungere alla soluzione adottata dalla Corte distrettuale e contestata dalla ricorrente.
5. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore delle controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 26 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020