Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.212 del 09/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5384/2014 proposto da:

C.A., C.N., elettivamente domiciliati in Roma, Via Monte Zebio 37, presso lo studio dell’avvocato D’Urso Stefano, rappresentati e difesi dall’avvocato Munafò Luigi Mario, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Comune Furnari, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Giosuè Borsi 4, presso lo studio dell’avvocato Scafarelli Federica, rappresentato e difeso dall’avvocato D’Anna Guglielmo, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 746/2012 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata l’11/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2019 da Dott. IOFRIDA GIULIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale e l’assorbimento del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato Guglielmo D’Anna per il controricorrente incidentale, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento del ricorso incidentale.

FATTI DI CAUSA

Nel giugno 1995, C.N. ed C.A. – proprietari di un fondo sito nel Comune di *****, destinato inizialmente alla realizzazione di un vivaio, con progetto approvato dalla Cassa per il Mezzogiorno, e poi occupato d’urgenza, a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, nel 1984, dal Comune per la realizzazione di una “Casa Albergo per anziani”, opera poi realizzata in assenza di decreto di esproprio – convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, il Comune di Furnari, al fine di sentire dichiarare risolto un atto “di impegno di cessione volontaria”, relativo a porzione di mq.1640 dell’area di proprietà dei C., stipulato tra le suddette parti nel gennaio 1985 (e registrato il 14/4/1988), per grave inadempimento dell’Ente comunale (il quale non aveva stipulato l’atto pubblico definitivo, nè versato il saldo del prezzo o eseguito le opere ivi previste, essenzialmente a protezione dell’azienda dei C.), con condanna del convenuto al risarcimento dei danni, quantificati in oltre Lire 1.541.000.000, conseguenti all’occupazione illegittima (di circa 4.000 mq di proprietà dei C.), alla distruzione di piante, alle aree rimaste incolte ed al blocco forzato dell’attività aziendale (a causa di un esposto trasmesso dal Comune alla Cassa per il Mezzogiorno, che aveva determinato, secondo gli attori, la revoca di un finanziamento concesso dalla Cassa).

La Corte d’appello di Messina, con sentenza n. 746/2012, depositata in data 11/12/2012, in questa sede di legittimità impugnata, ha riformato la decisione di primo grado, del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto dell’ottobre 2009, che aveva, all’esito di una consulenza tecnica, parzialmente accolto le domande attoree, riconoscendo il solo danno da occupazione illegittima, quantificato in Euro 121.737,79, di cui Euro 54.642,79 per deprezzamento del terreno residuo, limitrofo agli scavi (“per effetto della perdita dell’intero fronte strada”), Euro 24.000,00 per danni da smottamenti e dissesti del suolo ed Euro 41.195,00, per danni da distruzione di piante, respinte le altre richieste attoree – anche quelle di risoluzione del contratto e di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, stante il mancato pagamento del residuo prezzo e la mancata realizzazione di muri di contenimento necessarie a garantire la sopravvivenza dell’azienda vivaistica degli attori, essenzialmente, – e l’eccezione di prescrizione sollevata dal Comune, con riferimento sia all’azione risarcitoria che a quella di risoluzione.

In particolare, i giudici d’appello (decidendo sul gravame promosso dal Comune, appellante principale, con appello incidentale proposto dai C.) hanno dichiarato “improcedibili” tutte le domande attoree, per preclusione rappresentata, come eccepito dal Comune appellante all’udienza del 16/7/2012, dal giudicato esterno relativo ad una sentenza della Corte d’appello di Messina n. 701/2009, emessa nel dicembre 2009 (in parziale riforma di decisione del Tribunale di Messina del 2001), con la quale era stato definito altro giudizio promosso, anteriormente, dai C., con citazione del maggio 1986, dinanzi al Tribunale di Messina, al fine di sentire condannare il Comune di Furnari, per lo stesso terreno, previa esatta delimitazione dell’area oggetto dell’atto di impegno alla cessione (per mq complessivi 1.640), all’adempimento degli accordi inerenti la cessione volontaria (e quindi al pagamento del residuo prezzo e dell’equivalente in denaro delle prestazioni omesse) ed al risarcimento dei danni, conseguenti essenzialmente all’omessa esecuzione, da parte del Comune, delle opere di contenimento (con smottamenti nel terreno contiguo, impossibilità di accedere a parte delle aree con conseguente abbandono delle colture), nonchè all’intempestiva acquisizione di parte delle aree (prima che i germani C. avessero provveduto a liberare le superfici dalle colture esistenti) e dei danni ulteriori, verificatisi in corso di causa. In particolare, con la sentenza della Corte d’appello di Messina del 2009, passata in giudicato, il Comune, in parziale accoglimento del gravame principale dei C. e di quello incidentale del Comune, all’esito di consulenze tecniche, era stato condannato, in relazione alla superficie di mq 1640, oggetto dell’atto di cessione volontaria, a versare il residuo prezzo (Lire 40.375.000) ed ad eseguire le opere previste nello stesso atto (essenzialmente, di contenimento) ed, in relazione ad un’area ulteriore (di mq 1438), rispetto a quella volontariamente ceduta, occupata abusivamente, a corrispondere ai proprietari, a titolo di risarcimento del danno (così modificato il capo 3 del dispositivo di primo grado, che contemplava una condanna al pagamento di Lire 134.496.140), l’importo complessivo di Euro 49.553,48, nonchè a risarcire il danno afferente ad un terreno limitrofo agli scavi e non più coltivabile a causa delle opere pubbliche, liquidato nell’importo di ulteriori Euro 63.622,33, causa in relazione alla quale il Comune, nel presente giudizio di primo grado, avviato successivamente nel 1995, aveva eccepito la litispendenza.

La Corte territoriale ha compensato integralmente tra le parti le spese del giudizio di appello, alla luce della complessiva valutazione dei fatti e della sussistenza del giudicato esterno, “intervenuto solo recentemente”.

Avverso la suddetta pronuncia, C.N., ed C.A. propongono ricorso per cassazione, affidato ad un motivo, nei confronti del Comune di Furnari (che resiste con controricorso e ricorso incidentale in quattro motivi). Il controricorrente ha depositato memoria.

Con ordinanza interlocutoria n. 17003/2019, il ricorso è stato rinviato a N. R. per impedimento del relatore.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I ricorrenti lamentano, con unico motivo, sia la violazione e mancata applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1453 c.c. nonchè dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, sia l’omessa e comunque insufficiente motivazione circa un fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, rilevando che la Corte territoriale, anzichè dichiarare improcedibile la domanda, avrebbe dovuto verificare che il Comune non aveva adempiuto neppure alle statuizioni contenute nella pronuncia n. 701/2009 (nel giudizio promosso al fine di ottenere la condanna dell’Ente locale all’adempimento) e conseguentemente accogliere la successiva, e diversa, domanda, di risoluzione dello stesso contratto del 24/1/1985, sottoscritto tra le parti, domanda “che può essere sempre formulata anche quando la condanna dell’altra parte ad adempiere sia stata emessa con sentenza passata in giudicato”, e di condanna del convenuto alla restituzione del fondo detenuto illegittimamente ed al risarcimento dei danni.

2. Il ricorrente incidentale svolge quattro motivi di ricorso in relazione alla statuizione sulla compensazione delle spese processuali, lamentando la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 112, 91, 92 c.p.c., sia in relazione alla mancata statuizione sulle spese del giudizio di primo grado (compensate dal Tribunale soltanto per la metà, stante l’accoglimento solo parziale delle domande attoree, e poste per la restante parte a carico del soccombente Comune), essendo il dispositivo della sentenza d’appello limitato a quelle del secondo grado di giudizio, spese che avrebbero dovuto porsi, invece, in riforma della decisione del Tribunale ed in forza di specifico motivo di gravame del Comune appellante, integralmente a carico degli attori risultati soccombenti, sia in relazione alla operata compensazione integrale delle spese del giudizio di appello, nonchè l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo, deducendosi, in realtà, un vizio di apparente motivazione sulla sussistenza dei giusti motivi ai fini della disposta compensazione integrale delle spese del giudizio d’appello.

3.La censura del ricorso principale è fondata nei sensi di cui in motivazione.

3.1. Questa Corte (Cass. 5788/1986; Cass. 4830/1994; Cass. 19826/2004; Cass. 15290/2011) ha affermato che “in materia contrattuale, il diritto di scelta tra domanda di adempimento e domanda di risoluzione attribuito dall’art. 1453 c.c., comma 1 alla parte adempiente non si consuma all’esito della pronunzia di condanna del debitore all’esecuzione della prestazione (il suo esercizio non rimanendo “a fortiori” precluso dal mancato esperimento della relativa azione esecutiva o dall’esito infruttuoso di questa), giacchè il rapporto contrattuale continua in tal caso ad essere regolato dall’art. 1453 c.c. e, se è ad essa consentito di mutare, nell’ambito dello stesso processo, la domanda di adempimento in quella di risoluzione, a maggior ragione deve ritenersi ammissibile la proposizione della domanda di risoluzione (la cui ragione è costituita dall’inadempimento del debitore e non già dall’inattività palesata dal creditore nel mettere in esecuzione il giudicato di condanna a sè favorevole) qualora l’inadempimento del debitore sia già stato accertato con pronunzia di condanna divenuta definitiva, non risultando in tal caso nemmeno configurabile l’ipotesi del contrasto di giudicati, atteso che la condanna del debitore all’adempimento attribuisce alla parte il diritto all’esecuzione del contratto non negandole tuttavia il diritto di ottenerne viceversa lo scioglimento laddove l’inadempimento si protragga ulteriormente rispetto a quello già accertato e posto a fondamento della decisione passata in cosa giudicata”.

Nella pronuncia del 2004, questa Corte ha chiarito, in motivazione, che “il giudicato, inoltre, si forma rispetto ai fatti dedotti dalle parti e in relazione alle richieste che ne vengono di conseguenza formulate. Con la domanda di risoluzione la parte mira a conseguire un risultato diverso da quello conseguito nel precedente giudizio, e cioè lo scioglimento anzichè l’esecuzione del contratto, sulla base di un’inadempienza protratta rispetto a quella già accertata con il giudicato”.

Questa Corte a Sezioni Unite (Cass. 8510/2014), a composizione di un contrasto, ha successivamente precisato, riguardo alla questione della proponibilità o meno, con la nuova domanda di risoluzione del contratto, di cu in precedenza era stato chiesto l’adempimento, che “la parte che, ai sensi dell’art. 1453 c.c., comma 2, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello “ius variandi”, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale”.

In ordine poi alla relazione di continenza tra il giudizio instaurato nel 1986 ed il presente giudizio promosso nel 1995, questa Corte ha da tempo chiarito (Cass. 15532/2011; Cass. 7525/2007; Cass. 17737/2005) che “ai sensi dell’art. 39 c.p.c., la relazione di continenza sussiste non solo quando due cause, pendenti contemporaneamente davanti a giudici diversi, abbiano identità di soggetti e di “causae petendi” e differenza quantitativa di “petitum” (cd. continenza in senso stretto), ma anche quando vi sia una coincidenza parziale di “causae petendi”, ovvero qualora le questioni dedotte in una causa costituiscano il presupposto logico – giuridico necessario per la definizione dell’altra causa, o siano in tutto o in parte comuni alla decisione di entrambe, avendo le rispettive domande origine dal medesimo rapporto negoziale, risultando tra loro interdipendenti o contrapposte, cosicchè la soluzione dell’una interferisce su quella dell’altra (cd. continenza per specularità), come nell’eventualità in cui una delle cause sia stata proposta per la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte, con condanna della stessa al risarcimento del danno, e l’altra per l’adempimento del medesimo contratto”.

3.2. Il giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.) fa stato a ogni effetto tra le parti per l’accertamento di merito positivo o negativo del diritto controverso, e si forma, su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti di fatto che ne rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico e giuridico, il che determina un effetto preclusivo dell’esame delle stesse circostanze in un successivo giudizio, che abbia gli identici elementi costitutivi della relativa azione e cioè i soggetti, la causa petendi e il petitum (cfr. di recente Cass. n. 5138/2019).

L’accertamento su un punto di fatto o di diritto costituente la premessa necessaria della decisione divenuta definitiva, quando sia comune a una causa introdotta posteriormente, preclude il riesame della questione (v. già Cass. n. 9695/2003), anche se il giudizio successivo abbia finalità diverse da quelle del primo e a condizione che i due giudizi abbiano identici elementi costitutivi dell’azione; la preclusione a riesaminare la questione implica il vincolo del giudice a decidere la propria regiudicanda in conformità di ciò che si desume dal giudicato, vale a dire implica l’impossibilità di decidere la questione in modo diverso.

3.3. Nella specie, è pacifico che, nel secondo giudizio di merito avviato dai C., dinanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, non è intervenuta la necessaria pronuncia sull’eccezione di litispendenza sollevata dal Comune convenuto, rispetto al giudizio previamente instaurato tra le stesse parti dinnanzi al Tribunale di Messina.

Orbene, risulta, dall’esame degli atti, effettuato da questa Corte, essendo dedotto un vizio procedurale (la contestazione in ordine alla preclusione per giudicato esterno, statuita dalla Corte d’appello), che, nel giudizio instaurato nel 1986, dinanzi al Tribunale di Messina, gli attori C. avevano chiesto, oltre l’esatta delimitazione dell’area oggetto della scrittura del 1985, denominata “atto di impegno alla cessione”, la condanna del Comune di Furnari – accertato il suo inadempimento all’accordo di cui alla scrittura privata del gennaio 1985 (implicante, per quanto emerge dagli atti, impegno alla cessione di un’area di mq 1640 all’Ente comunale dietro corrispettivo di Lire 40.375.000) – al pagamento dell’equivalente in denaro delle prestazioni omesse (opere di contenimento e passo carrabile per accesso alla contigua azienda agricola degli attori), nonchè del residuo prezzo ed al risarcimento dei danni, anche quelli “ulteriori che dovessero verificarsi in corso di causa”.

In primo grado, con sentenza del Tribunale di Messina, in persona di un GOT, del 19/3/2001, veniva accertato, oltre all’inadempimento del Comune rispetto alla scrittura del 1985, che lo stesso aveva occupato “altri mq 1.438” e che un altro terreno di proprietà degli attori era rimasto danneggiato, e quindi il Comune veniva condannato a pagare agli attori il residuo non ancora versato, a titolo di corrispettivo concordato per la cessione di mq 1.640, nonchè ad eseguire le opere previste nella scrittura del 1985 ed a versare ulteriori Euro 134.496.140, a titolo di risarcimento dei danni, incluso quello conseguente all’abusiva occupazione di altri 1438 mq.

Con la sentenza n. 701/2009, depositata il 9/12/2009, la Corte d’appello di Messina, dopo avere dato atto della contestuale pendenza, davanti al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, di altro giudizio “avente sostanzialmente il medesimo oggetto” e del fatto che tale giudice successivamente adito non aveva provveduto a dichiarare la litispendenza, rilevando che si poteva tenere comunque conto delle consulenze tecniche espletate in detto giudizio, prodotte dalle parti, riformava la suddetta decisione di primo grado, in quanto: 1) in parziale accoglimento dell’appello dei C., il Comune veniva condannato al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 63.622,33, a titolo di danno subito da un terreno, limitrofo agli scavi (di mq 996), non più coltivabile, danno quantificato proprio sulla base di una CTU espletata nel secondo giudizio (ancora pendente in primo grado, dinanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto), oltre rivalutazione monetaria dal novembre 1998 ed interessi legali; 2) in accoglimento dell’appello incidentale del Comune, veniva ridotto ad Euro 49.553,48 l’importo del risarcimento del danno per l’occupazione abusiva dell’area ulteriore, accertato che solo una porzione della suddetta area era edificabile, che era congruo il valore stimato in una delle CTU espletate nel secondo giudizio (allo stato pendente ancora in primo grado) e che non poteva essere riconosciuto anche il danno da mancata fruttificazione, trattandosi di occupazione usurpativa, con conseguente rinuncia alla proprietà ed acquisizione della stessa in capo all’Ente, con l’atto introduttivo del giudizio.

La Corte di merito, sempre nella sentenza n. 701/2009, ha poi respinto i motivi di gravame degli appellanti C., inerenti alla omessa liquidazione del danno da: a) mancata coltivazione (“fruttificazione”) di una rilevante porzione del loro fondo (circa mq 25.000), a causa degli sbancamenti operati dall’Ente, per difetto di prova sia della dipendenza causale dai lavori eseguiti dal Comune sia della loro entità; b) posizionamento dell’opera pubblica a distanza illegale dal confine, con compromissione delle potenzialità edificatorio del fondo, per difetto di prova; c) mancata esecuzione di opere di picchettaggio del terreno e da crollo del muro della quinta terrazza, per difetto di prova, quinto al primo, e perchè già ricompreso nella voce di danno liquidata in relazione al terreno limitrofo non più coltivabile.

3.4. I ricorrenti deducono che, se la domanda di risoluzione poteva essere avanzata addirittura quando la condanna dell’altra parte ad adempiere sia stata emessa con sentenza passata in giudicato, tanto più essa poteva essere formulata quando la causa per ottenere l’adempimento era ancora in corso ed il Comune avrebbe dovuto eccepire, in detto giudizio previamente instaurato dai C., l’intervenuta cessazione della materia del contendere per effetto della proposizione, in separato successivo giudizio, dell’azione di risoluzione del contratto del 1985.

3.5. Ora, effettivamente la Corte d’appello di Messina ha ritenuto intervenuta una preclusione da giudicato esterno, con conseguente improcedibilità di tutte le domande attoree (di risoluzione dell’atto del 1985, impegno alla cessione volontaria, di riduzione in pristino dello stato dei luoghi e di risarcimento danni), essendo oggetto del giudizio, tra le stesse parti, definito con il giudicato rappresentato dalla sentenza della Corte d’appello di Messina n. 701/2009, il medesimo negozio giuridico.

La Corte di merito non ha, in effetti, distinto tra la domanda di risoluzione del contratto, comunque azionabile malgrado l’intervenuto giudicato sulla pretesa originaria di adempimento del contratto, e la domanda risarcitoria, in relazione alla quale doveva essere vagliata l’effettiva totale sovrapposizione delle domande, quella azionata dai C. nel 1986 e quella oggetto del presente giudizio, avviata nel 1995.

Ora, in realtà il giudicato esterno formatosi con la sentenza n. 701/2009 della Corte d’appello di Messina doveva intendersi riferito alle domande degli attori C. inerenti alla parte di terreno occupata abusivamente ed usurpata ed ai danni correlati, poichè la diversa domanda di risoluzione, successivamente azionata dai C. e proponibile, in quanto non preclusa dal pregresso giudicato sull’adempimento, per quanto detto sopra, non poteva concernere che il bene oggetto del negozio di cessione, vale a dire i mq. 1.640 di area di proprietà dei C., di cui era stata convenuta la cessione al Comune dietro corrispettivo di denaro ed obbligo di eseguire determinate opere.

Non era dunque precluso invocare l’inadempimento del contratto medesimo in vista della pronuncia costitutiva di risoluzione e del risarcimento dei distinti danni da occupazione dell’area originaria, oggetto del negozio.

Il giudicato di cui alla sentenza n. 701/2009 si è formato anche sulla natura definitiva, e non di mero “impegno” di carattere preliminare, avente ad oggetto una cessione volontaria mai intervenuta (che, ove inerente ad un momento della procedura espropriativa, avrebbe potuto intendersi comunque caducato, in caso di mancata emissione del decreto di esproprio o di conclusione dell’atto di cessione volontaria, cfr. Cass. 8706/1998; Cass. 2538/2019), del contratto di compravendita concluso nel 1985 tra Comune ed i C., assoggettato alla disciplina privatistica (peraltro, può farsi richiamo a quanto chiarito da questa Corte, Cass. n. 5390/2006,sulla possibile coesistenza dei due strumenti contrattuali, la cessione volontaria, ad oggetto pubblico, inserito nell’ambito di un procedimento amministrativo, ed il trasferimento dell’immobile a mezzo di un comune contratto di compravendita, del tutto assoggettato alla disciplina privatistica).

Ma, in ogni caso, sulla diversa domanda, di risoluzione dell’atto di impegno del 1985, contratto definitivo di cessione di mq 1.640, di natura privatistica, azionata nel successivo giudizio, in luogo di quella di adempimento oggetto del primo giudizio, definito con il giudicato, e soltanto sui danni strettamente correlati a tale diversa domanda di risoluzione per inadempimento del contratto, non si era formato il giudicato.

4. Venendo quindi all’esame del ricorso incidentale, non condizionato, relativo alle spese processuali del giudizio di appello, lo stesso è di conseguenza assorbito.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va accolto, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte d’appello di Messina, in diversa composizione.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale nei sensi di cui in motivazione, assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Messina, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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