LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 36725-2018 proposto da:
D.M., T.G.S.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato MARIO ANTONINI, rappresentati e difesi dall’avvocato ROBERTO COSIO;
– ricorrente –
contro
CITTA’ METROPOLITANA DI REGGIO CALABRIA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 329/2018 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 15/06/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 07/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. ALFONSINA DE FELICE.
RILEVATO
che:
la Corte d’appello di Reggio Calabria, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, che aveva rigettato la domanda di D.M. e altri, dipendenti con contratti precari di vario genere (contratti a termine, di collaborazione continuata e continuativa, e a progetto) presso la Provincia di Reggio Calabria, rivolta a sentir dichiarare il proprio diritto alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro, avendo prestato la loro attività per soddisfare le esigenze istituzionali e permanenti dei Centri per l’impiego della Provincia (CIP);
la Corte territoriale ha ritenuto che i contratti a termine erano legittimi, dato che la loro durata non aveva superato i 36 mesi consentiti di tal che nessun risarcimento andava riconosciuto ai rispettivi titolari a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, e che le collaborazioni erano autentiche, atteso che avevano riguardato specifici progetti e si erano svolte senza vincolo di subordinazione;
ha invece accolto la domanda degli appellanti in relazione al capo della sentenza del Tribunale che aveva dichiarato cessata la materia del contendere relativamente a due mensilità (mensilità di dicembre 2011 e tredicesima mensilità del 2011), pagate dall’ente solo nel 2014 solo per la sorta capitale, senza computo degli accessori di legge derivanti da mora debendi;
la Corte territoriale ha accertato in proposito che i dipendenti avevano chiesto, già in primo grado, gli interessi maturati (richiesta rimasta priva di contestazione), ed ha condannato l’ente a corrispondere la maggior somma fra interessi al tasso legale e rivalutazione monetaria sulle somme riscosse il 7 gennaio 2104 a titolo di mensilità di dicembre 2011 e tredicesima 2011, oltre accessori decorrenti dalla maturazione fino al soddisfo;
la cassazione della sentenza è domandata da D.M. e dai suoi litisconsorti sulla base di due motivi;
la Città Metropolitana di Reggio Calabria (già Amministrazione provinciale di Reggio Calabria) è rimasta intimata;
è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.
CONSIDERATO
che:
col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i ricorrenti denunciano “Violazione dell’art. 2697 c.c. e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, perchè il Collegio Calabrese ha ritenuto provate le esigenze “temporanee ed eccezionali” che giustificano la stipulazione di contratti a termine”;
la censura contesta l’affermazione del giudice dell’appello secondo cui l’esistenza delle ragioni temporanee ed eccezionali poste a base dei contratti precari stipulati con i ricorrenti, sarebbe risultata provata, anche per implicito/ dai lavoratori, sì come richiesto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36;
la ragione addotta dall’ente, il quale avrebbe ricondotto dette esigenze alla necessità di attuare i POR finanziati con i fondi UE, secondo i ricorrenti non sarebbe idonea a dimostrare la temporaneità ed eccezionalità delle esigenze cui la norma si riferisce ai fini della legittimità della stipulazione di contratti di lavoro a scadenza;
col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contestano “Violazione della L. n. 183 del 2010, art. 36, comma 5, perchè il Collegio calabrese non ha applicato il risarcimento dei danni previsto da detta norma”;
la censura viene prospettata quale necessaria conseguenza dell’affermata illegittimità della stipulazione dei contratti temporanei, da cui deriverebbe il diritto al risarcimento del danno ai sensi della L. n. 183 del 2001, art. 36, comma 5;
i due motivi, esaminati congiuntamente, per intima connessione, sono inammissibili;
le prospettazioni dei ricorrenti deducono solo apparentemente una violazione di legge, là dove mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito;
nel caso di specie la Corte territoriale ha svolto un’accurata ed esaustiva istruttoria, avendo accertato che il limite di trentasei mesi entro il quale sono validamente stipulati contratti a termine con la p.a., fermo restando l’espletamento delle procedure concorsuali, non era stato oltrepassato da nessuno degli appellanti, sì che ad essi non andava riconosciuto il diritto al risarcimento di cui al D.Lgs. n. 161 del 2001, art. 36, comma 5;
per quanto riguarda le collaborazioni e i contratti a progetto, ha accertato che i lavoratori riconducibili a tali forme contrattuali avevano svolto l’attività al di fuori di qual si voglia vincolo di subordinazione, in totale autonomia e per l’esecuzione di specifici progetti, senza essere soggetti ai poteri di etero organizzazione da parte dei responsabili e dei dirigenti;
ha valorizzato la circostanza per cui la Giunta provinciale, che pure aveva auspicato nella Del. n. 54 del 2011 di provvedere alla stabilizzazione di 66 unità di personale assunto con contratto a progetto nel 2008, aveva successivamente deliberato (Del. n. 138 del 2011) di bandire una nuova procedura selettiva e che la legittimità di tale decisione (la quale contravveniva alla auspicata stabilizzazione degli odierni ricorrenti) aveva ottenuto il giudizio favorevole del Tar Calabria sez,. distaccata di Reggio Calabria (sent. n. 66/2015), sul presupposto che la pianta organica dell’ente non prevedeva le figure professionali cui aspiravano i ricorrenti;
dalle determinazioni del giudice dell’appello circa l’esatta configurazione della fattispecie sì come risultata provata in atti, appare evidente che le censure dei ricorrenti appaiono rivolte ad ottenere una rivalutazione dei fatti di causa in senso ad essi più favorevole;
ciò è inibito in sede di legittimità alla luce del pacifico orientamento di questa Corte, secondo cui va considerato “…inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.” (Cass. n. 18721 del 2018; Cass. n. 8758 del 2017);
in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile;
non si provvede alle spese del presente giudizio in assenza di attività difensiva da parte dell’intimata;
in considerazione dell’esito del giudizio, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 7 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2020