LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 28410/2019 proposto da:
V.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE N. 76, presso lo studio dell’avvocato MARTA DI TULLIO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrenti –
e contro
MINISTERO DELL’INTERNO, *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– resistenti –
avverso il decreto del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 24/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/07/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.
RILEVATO
che:
1. V.V., cittadino della *****, chiese alla competente commissione territoriale il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4, domandando:
(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;
(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;
(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).
2. A fondamento della sua istanza il richiedente dedusse di esser fuggito dalla Nigeria per la paura di essere ucciso. Nel 2014, mentre lavorava come meccanico, fu rapito e portato nei campi ai confini del paese, dove lo costrinsero a lavorare. Riuscì a fuggire, ma una volta tornato a casa fu licenziato dal datore di lavoro e per la paura di essere nuovamente rapito andò in Libia. Anche qui fu imprigionato e picchiato e decise dunque di fuggire di nuovo, per giungere infine in Italia.
La Commissione Territoriale rigettò l’istanza. Ritenne le circostanze riportate dal richiedente non credibili, contraddittorie e poco circostanziate.
Avverso tale provvedimento V.V. propose ricorso D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, ex art. 35, dinanzi il Tribunale di Roma, che con decreto n. 15815 pubblicato il 24 luglio 2019 ha rigettato il reclamo.
Il Tribunale ha ritenuto:
a) non credibile il richiedente asilo;
b) infondata la domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato, ritenendo il racconto del richiedente inattendibile e privo di riscontro in assenza di specifiche allegazioni;
b) infondata la domanda di protezione sussidiaria provenendo il richiedente da una zona, Edo State, esente da violenza indiscriminata;
d) infondata la domanda di protezione umanitaria non avendo l’istante allegato nè provato alcuna circostanza di fatto, di per sè dimostrativa d’una situazione di vulnerabilità.
3. Il decreto è stata impugnato per cassazione da V.V., con ricorso fondato su un tre motivi.
Il Ministero dell’Interno non presenta difese.
CONSIDERATO
che:
4.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta “la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, dell’art. 16 Direttiva Procedure 2013/32 UE, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 “. Il Tribunale avrebbe negato la protezione internazionale in base a un giudizio negativo sulla credibilità del richiedente senza acquisire d’ufficio le informazioni attinenti alla situazione descritta dal ricorrente e senza verificare se i timori di persecuzione e di subire danni fossero fondati.
Il motivo è inammissibile.
Innanzitutto occorre rilevare che esso si disinteressa completamente della motivazione resa dal tribunale sulla non credibilità e, dunque, risulta del tutto generico nel sostenere che non si sarebbe assolto al dovere di acquisizione di informazioni su quanto raccontato dal ricorrente. Altrettale genericità risulta, poi, quanto al rilievo che l’interrogatorio libero, cui ha proceduto il Tribunale, non sarebbe stato condotto secondo quanto si sarebbe dovuto. L’assunto è del tutto generico e nemmeno si indica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, il modo in cui l’interrogatorio darebbe stato condotto: il decreto dice che il ricorrente confermava le dichiarazioni rese alla Commissione, che prima ha riportato e su cui il motivo nemmeno prende posizione. Esse, peraltro, sono del tutto generiche.
In secondo luogo il dovere c.d. “di cooperazione istruttoria”, infatti, nelle due forme di protezione cd. “maggiori”, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma si colloca in stretta connessione logica rispetto alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile.
Certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente asilo non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del detto potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa ed attuale conoscenza della complessiva situazione dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).
Il giudice deve, pertanto, prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è funzionale, in astratto, all’attivazione officiosa del dovere di cooperazione volta all’accertamento della situazione del Paese di origine del richiedente asilo; ma non appare conforme a diritto l’affermazione secondo cui le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di credibilità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono poi, in alcun caso, un approfondimento istruttorio officioso (in tal senso, invece, ma non condivisibilmente, tra le altre, Cass. Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Sez. 6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).
Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.
Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro assertivo e probatorio fornito non sia esauriente, ma la relativa subordinazione, tout court, al giudizio di veridicità della narrazione alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca: Sez. 6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez. 6, 10/5/2011, n. 10202) non appare legittimamente predicabile.
Il principio secondo il quale le dichiarazioni del richiedente giudicate inattendibili non richiedano, comunque, un approfondimento istruttorio officioso va, difatti, opportunamente precisato e circoscritto, nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), qualora la mancanza di tali presupposti emerga ex actis. Quindi, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (in tal senso, di recente Cass. 2954/2020; Cass. 3016/2019).
Nella specie risulta tuttavia accertato che, nella regione di provenienza dell’odierno ricorrente, non sussiste una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato.
Sotto il profilo della credibilità intrinseca della narrazione, nel caso di specie il giudice del merito ha affermato che il ricorrente “ha dedotto un timore solo soggettivo che non trova riscontro nelle fonti consultabili in assenza di specifiche allegazioni che l’atto introduttivo non contiene; trattasi dunque di un timore meramente soggettivo e proporzionato rispetto all’asserito sequestro di cui sarebbe stato vittima; apparendo invece un motivo meramente economico alla base dell’espatrio”.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta “la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5, 7 e art. 14, lett. b)”. Il Tribunale avrebbe omesso una indagine officiosa circa la situazione presente in Nigeria per suffragare le dichiarazioni del ricorrente.
Il motivo una volta dichiarato inammissibile il primo, è assorbito, perchè in mancanza di attendibilità delle dichiarazioni non si dovevano svolgere attività istruttorie officiose.
4.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta “la violazione c/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6”. Il Tribunale avrebbe erroneamente negato il riconoscimento della protezione umanitaria, senza verificarne adeguatamente i presupposti specifici.
Il motivo è inammissibile in quanto non si correla alla motivazione, perchè dice che non sarebbe stata esaminata la domanda di protezione umanitaria, in quanto non si sarebbe “ravvisato la sussistenza delle condizioni di riconoscimento delle condizioni di riconoscimento delle misure maggiori”: invece, il decreto non ha detto affatto questo ma, esaminando la domanda, dopo le premesse giuridiche alla fine di pag. 4 e alla pagina 5, ha motivato dicendo che: “ebbene nella fattispecie, nessuna specifica ragione di vulnerabilità è stata allegata dal ricorrente nè risulta allegata alcuna documentazione”.
5. Non è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, attesa la indefensio della parte pubblica.
6. L’inammissibilità del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), a condizione che esso sia dovuto: condizione che non spetta a questa Corte stabilire. La suddetta norma, infatti, impone all’organo giudicante il compito unicamente di rilevare dal punto di vista oggettivo che l’impugnazione ha avuto un esito infruttuoso per chi l’ha proposta.
PQM
la Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2020