Corte di Cassazione, sez. Unite Civile, Ordinanza n.24104 del 30/10/2020

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di sez. –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15389-2019 proposto da:

STAMPERIA B.G. S.N.C. DI A.B., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 14, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE PAFUNDI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIULIANO RIZZARDI, e GIACOMO BONOMI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI POLAVENO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPIA NUOVA 96, presso lo studio dell’avvocato PAOLO ROLFO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO BALLERINI;

– controricorrente –

e contro

PROVINCIA DI BRESCIA, Z.P., BO.GI., BO.ED., BO.AD.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1661/2019 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 13/03/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/10/2020 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI.

RITENUTO

1. Che la Stamperia B.G. s.n.c. di A.B. ha proposto, nei confronti del Comune di Polaveno, della Provincia di Brescia, di Z.P., di Bo.Gi., di Bo.Ad., e di Bo.Ed., ricorso per cassazione per motivi inerenti la giurisdizione, per l’annullamento della sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 1661 del 2019, che ha deciso sull’appello della sentenza n. 760 del 2018 del TAR Lombardia, Brescia, adito in sede di ottemperanza dalla medesima società, per l’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato n. 303 del 1992 e della sentenza del TAR Lombardia, Brescia, n. 1293 del 2017.

2. Ha premesso la ricorrente:

di essere proprietaria di un complesso immobiliare nel Comune di Polaveno, in parte produttivo e in parte residenziale, edificato in base alla concessione edilizia n. *****, per l’esercizio dell’attività di stampaggio di minuteria in barra di ottone a caldo, in conformità alla destinazione di zona del piano di fabbricazione allora vigente, in applicazione della L. n. 765 del 1962, art. 17;

che nel fabbricato non si era, di fatto, mai potuta insediare l’attività di stamperia;

il titolo edilizio era stato impugnato da un vicino e poi annullato in via di autotutela dal Comune il 16 ottobre 1982; a ciò facevano seguito plurimi ordini di sospensione dei lavori e di decadenza dal titolo edilizio, provvedimenti impugnati dinanzi al TAR Lombardia, Brescia;

con la sentenza del Consiglio di Stato n. 303 del 1992, il giudice amministrativo confermava l’invalidità dei suddetti provvedimenti comunali, già acclarata dal TAR Lombardia, Brescia con la sentenza n. 681 del 1987, e respingeva l’impugnazione contro il titolo edilizio, riformando sul punto la sentenza del TAR;

che la con sentenza n. 348 del 2017 la Corte d’Appello di Brescia, giudice del rinvio a seguito di sentenza di questa Corte, condannava il Comune di Polaveno in solido con l’ex sindaco Z.P. a rifondere ai fratelli B. i danni subiti, nella misura di Euro 90.876,00, per il lungo periodo di fermo cantiere, con rivalutazione e interessi sulle somme annualmente rivalutate dal 7 settembre 1987 al saldo;

una volta ultimata la costruzione, rilasciato il 2 settembre 1997 il certificato di agibilità ed idoneità del fabbricato all’esercizio di attività produttive e industriali, e avviata tra il 1999 e il 2001 da parte della conduttrice Salomone un’attività di stoccaggio e produzione dolciaria, il Comune, sul presupposto del sopravvenire della normativa urbanistica restrittiva recata dal PRG del 2000, che consentiva nell’area soltanto la destinazione residenziale e l’artigianato di servizio, denegava con provvedimento del 9 marzo 2004, n. 910, l’avvio dell’attività industriale, formalmente richieste con istanza del 7 marzo 2002;

tale diniego veniva impugnato al TAR, così come, con distinto ricorso, venivano impugnate le relative previsioni urbanistiche, e, con ulteriore ricorso, il nuovo PGT approvato con Delib. n. 37 del 2011;

il primo ricorso era dichiarato perento, il secondo improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, il terzo veniva rigettato con la sentenza n. 1293 del 2017;

che pur in presenza di statuizione di rigetto, il TAR ad avviso della odierna ricorrente consentiva l’esercizio dell’attività produttiva in ragione del principio di salvaguardia;

pertanto, essa ricorrente diffidava l’Amministrazione comunale a rilasciare il titolo abilitante all’esercizio della attività produttiva, ma il Comune emanava preavviso di rigetto (12 dicembre 2017), e poi definitivo diniego (21 dicembre 2017).

3. Tanto premesso, la ricorrente ripercorre il giudizio di ottemperanza con cui aveva chiesto al TAR Lombardia, Brescia, previo accertamento della nullità dei provvedimenti ostativi del 2004 e del 2007, la messa in esecuzione delle sentenze n. 303 del 1992 del Consiglio di Stato, e n. 1293 del 2017 del TAR Brescia.

Nel contempo venivano tempestivamente impugnati i suddetti provvedimenti ostativi, L. n. 241 del 1990, art. 21 e art. 29 cod. proc. amm., e si faceva istanza per la conversione dell’azione ex art. 32, comma 2 cod. proc. amm.

Con la sentenza n. 760 del 2018, pronunciata sul ricorso n. 217 del 2018, il TAR Lombardia, Brescia, respingeva il ricorso, e sebbene rilevasse per inciso l’incompetenza del TAR a conoscere dell’ottemperanza della sentenza n. 303 del 1992 del Consiglio di Stato, esaminava il merito della domanda di nullità e ottemperanza, statuendo che il titolo edilizio rilasciato non fosse di per sè idoneo a prenotare anche l’insediamento dell’attività produttiva richiesta. Il Comune poteva legittimamente impedire l’avvio di attività contrastanti con la destinazione d’suo sopravvenuta, e la valutazione negativa del Comune si sarebbe consolidata nel 2010 a seguito del decreto di perenzione avverso il diniego del 9 marzo 2004.

La sentenza veniva impugnata dinanzi al Consiglio di Stato, che con la sentenza n. 1661 del 2019 respingeva l’appello.

Il Consiglio di Stato rilevava l’inammissibilità della domanda di ottemperanza proposta dinanzi al TAR in relazione alla sentenza 330 del 1992, avendo quest’ultima riformato la sentenza di primo grado, e perchè la sentenza n. 1293 del 2017 non poteva considerarsi ottemperabile contenendo un dispositivo di rigetto.

Rilevava, nel merito, l’insussistenza di un titolo abilitante all’esercizio dell’attività richiesta, la legittimità del potere dell’autorità di modificare in peius, nel periodo che precede l’avvio dell’attività produttiva, la disciplina urbanistica inibendo le lavorazioni con essa contrastanti, come affermato nel diniego del 2004, gli effetti del quale si erano consolidati a seguito di perenzione.

4. Ricorre la Stamperia prospettando due motivi di impugnazione.

5. Resiste con controricorso il Comune di Polaveno.

6. In prossimità della camera di consiglio la ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO

1. Che la Stamperia B.G. s.n.c. di A.B. deduce che il Consiglio di Stato ha omesso di esaminare le censure prospettate sub 5 del ricorso in appello e quindi la domanda sollevata in via subordinata, di rimessione della causa al primo giudice per la conversione dell’azione, affinchè fosse esaminata la domanda di annullamento dedotta a margine del ricorso introduttivo.

1.1. Premette che è pacifico che i provvedimenti del 2017 e del 2004 siano stati gravati mediante un cumulo di domande, sebbene rispondenti a tipologie, forme di tutela, e riti processuali distinti, nonchè competenze funzionali di giudici diversi.

Si era inteso radicare in un solo giudizio dinanzi al giudice dell’ottemperanza anche il rimedio impugnatorio, in ragione delle statuizioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2013 che, in relazione alla riedizione del potere amministrativo a proposito di un giudicato consolidato, aveva ammesso che per consentire l’unitarietà della trattazione di tutte le censure svolte a fronte della riedizione del potere conseguente ad un giudicato, le doglianze relative venissero dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza.

Nella specie, la domanda impugnatoria era stata tempestivamente proposta davanti al giudice dell’ottemperanza.

La questione della conversione, tuttavia, non veniva esaminata dal Consiglio di Stato, pur dando atto quest’ultimo della richiesta della ricorrente.

1.2. Tanto premesso, si rileva che la sentenza del Consiglio di Stato è impugnata sia per la violazione dei principi regolatori del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 6, art. 360 bis c.p.c., e art. 39, comma 2 cod. proc. amm., sia per il vizio sintomatico di denegata giustizia.

Espone la ricorrente, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità sul punto, che il sindacato giurisdizionale non verte solo sulla verifica della spettanza della giurisdizione nella materia o nella singola controversia, o sulle modalità di esercizio della stessa attraverso la categoria dell’eccesso di potere per sconfinamento nella sfera riservata alle valutazioni di merito dell’Amministrazione, ma sulla verifica se, attraverso lo stravolgimento di regole processuali o sostanziali, si pervenga al risultato di denegare la giustizia rifiutando la giurisdizione.

1.3. Con il primo motivo di ricorso è dedotto difetto di giurisdizione per violazione dei principi del giusto processo, art. 111 Cost., comma 6, art. 360 bis c.p.c., art. 39 cod. proc. amm.

La sentenza impugnata ha omesso completamente di motivare in relazione al vizio esposito sub. 5 dell’atto di appello e, quindi, di prendere posizione sulla domanda, svolta in via subordinata, di rimessione della causa al primo giudice perchè convertisse il rito, esaminasse le censure di legittimità, e decidesse in ordine alla domanda di annullamento dedotta nel ricorso e memorie difensive.

L’omissione totale della motivazione viola le specifiche regole processuali afferenti i diversi tipi di processo, ma anche, direttamente, l’art. 111, comma 7 che sancisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, L’assenza totale di motivazione va ad incidere sulla essenza stessa della giurisdizione, e quindi rende configurabile e fondato il vizio di giurisdizione.

1.4. Con il secondo motivo di ricordo è dedotto il vizio di giurisdizione per denegata giustizia in relazione all’art. 32, comma 2 cod. proc. amm., per come interpretato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2013.

Il sindacato sui limiti esterni della giurisdizione può spingersi fino a verificare se il giudice abbia rispettato i “tratti essenziali” della forma di tutela che è chiamato ad erogare.

Nel caso di specie, risultava che, in violazione della regola processuale di cui all’art. 32, comma 2 cod. proc. amm., per come interpretato dalla giurisprudenza amministrativa, il giudice amministrativo aveva negato la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio dinanzi al giudice della cognizione.

Sussisteva, quindi, il vizio di denegata giustizia, atteso che le censure di legittimità ed annullamento non erano state per nulla esaminate.

La motivazione della sentenza del Consiglio di Stato non teneva conto di tutte le ragioni impugnatorie esposte (riportate da pag. 16 a pag. 19 del ricorso) rispetto a quelle che erano state disattese.

1.5. Infine, il ricorrente censura la regolamentazione delle spese di giudizio del grado di appello, in ragione della quale è stata dichiarata la soccombenza di essa ricorrente con la condanna a rifondere le spese dei due gradi di giudizio nella misura di Euro 2.000,00, oltre accessori di legge.

Ed infatti, ove il giudice avesse esaminato ed accolto la domanda subordinata, le spese si sarebbero dovute compensare.

2. Preliminarmente, occorre rilevare che il ricorso supera il vaglio di specificità delle censure, risultando priva di pregio la relativa eccezione della controparte.

2.1. I motivi, che possono essere scrutinati congiuntamente, sono inammissibili.

Queste Sezioni Unite hanno affermato reiteratamente (ex multis, Cass., S.U., n. 19183 del 2020, n. 19168 del 2020, n. 414 del 2020, n. 7926 del 2019) che l’eccesso di potere denunziabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione (che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale), o di difetto relativo di giurisdizione (riscontrabile quando detto giudice abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici).

E’ stato precisato, in coerenza con la nozione posta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 6 del 2018, che siffatto vizio non è configurabile in relazione ad “errores in procedendo”, i quali non investono la sussistenza e i limiti esterni del potere giurisdizionale del giudice amministrativo e dei giudici speciali, bensì solo la legittimità dell’esercizio del potere medesimo (tra le più recenti, citate Cass., S.U., n. 19183 del 2020, n. 19168 del 2020).

Che, come da ultimo ricordato da Cass., S.U., n. 19183 del 2020, nel richiamare la giurisprudenza in materia, i principi innanzi richiamati sono stati ribaditi anche con riguardo a fattispecie nelle quali il ricorso per cassazione è stato proposto avverso le sentenze del Consiglio di Stato o della Corte dei Conti pronunciate su impugnazione per revocazione, e con riguardo a fattispecie nelle quali era stato dedotta la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Ai principi affermati nelle sentenze sopra richiamate va data continuità perchè il Collegio condivide le argomentazioni esposte in tali sentenze, da intendersi qui richiamate ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. cod. proc. civ., atteso che la ricorrente nel ricorso non apporta argomenti decisivi che impongano la rimeditazione dell’orientamento giurisprudenziale innanzi richiamato.

2.2. La ricorrente, con la censura di denegata giustizia, in effetti sollecita un sindacato su pretesi “errores in procedendo” ed “errores in iudicando” commessi dal Consiglio di Stato in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame, derivanti dalla asserita violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (omessa pronuncia sub 5 dell’appello) e dell’applicazione data ai principi di cui all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2013.

Essa, contestando la legittimità del concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali attribuite al giudice amministrativo, finisce in realtà per sollecitare, al di là della prospettazione formale, un sindacato per violazione di legge, scambiando per diniego di giurisdizione o per ineffettività della tutela quello che invece è stato, con tutta evidenza, un esercizio della giurisdizione, sebbene in modo non conforme alle aspettative ed alle attese della ricorrente stessa.

2.3. La sentenza impugnata non ha nè ecceduto la giurisdizione a danno di altra, nè, tanto meno, ha negato l’amministrazione della giustizia, atteso che ha pronunciato nel merito, affermando la mancanza di un titolo abilitante la società all’esercizio dell’attività produttiva richiesta, non rinvenibile peraltro nella sentenza del Consiglio di Stato n. 303 del 1992, che riguardava un edificio ancora da costruire e non una destinazione d’uso già insediata.

In tal modo, il Consiglio di Stato ha fatto applicazione dell’insegnamento dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2013, secondo la quale quando l’amministrazione rinnova l’esercizio delle sue funzioni dopo l’annullamento di un atto operato dal giudice amministrativo, l’interessato che si duole (anche) delle nuove conclusioni raggiunte dall’amministrazione può proporre un unico giudizio davanti al giudice dell’ottemperanza, lamentando la violazione o la elusione del giudicato ovvero la presenza di nuovi vizi di legittimità nella rinnovata determinazione.

Ed infatti, in tal caso, verificatosi nella specie, il giudice dell’ottemperanza è chiamato, in primo luogo, a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori; nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, ne dichiara la nullità, con la conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda (quella cioè volta a sollecitare un giudizio sulla illegittimità dell’atto gravato). Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità, il giudice dispone la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione, ai sensi dell’art. 32, comma 2 cod. proc. amm.

Al giudice dell’ottemperanza, dunque, spetta, indipendentemente dalla esplicita impugnazione degli stessi, stante l’ampio potere (di merito) rimesso al giudice dell’esecuzione, di valutare se questi ultimi siano stati adottati in elusione ovvero in violazione di giudicato, posto che la loro eventuale nullità deve essere scrutinata ex officio dal giudice dell’esecuzione, anche al fine di ritenere improcedibile il giudizio di ottemperanza per l’intervenuta esecuzione della sentenza che ne è oggetto ovvero di dichiarare la cessata materia del contendere.

Tale potestà giurisdizionale è stata esercitata nella specie, seppure in modo non condiviso dalla ricorrente, le cui doglianze, quindi, investono in modo inammissibile i limiti interni della giurisdizione amministrativa e la legittimità dell’esercizio del potere giurisdizionale.

2.4. In conclusione il ricorso è inammissibile anche quanto alla doglianza sulla condanna alle spese pronunciata dal Consiglio di Stato.

3. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

4. La ricorrente va condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura indicata in dispositivo, in favore del Comune di Polaveno.

5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 6.000,00, per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali nella misura del 15%, e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2020

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472