Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.24191 del 02/11/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28554/2019 proposto da:

K.A., rappresentato e difeso per procura in calce al ricorso dall’avv. CHIARA BUSANI, con studio in Modena, via Nonantola 192;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, *****;

– intimato –

avverso la sentenza n. 969/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 20/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/07/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. K.A., cittadino del *****, propone ricorso per cassazione articolato in due motivi nei confronti del Ministero dell’Interno, avverso la sentenza n. 969/2019 della Corte d’Appello di Bologna, pubblicata in data 20.3.2019, non notificata.

Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

2. Il ricorrente, proveniente dal Mali, ricostruisce nella parte introduttiva del ricorso la sua vicenda personale, che assume non essere stata adeguatamente tenuta in conto dalla corte d’appello: svolgeva l’attività di apprendista camionista con il cugino, rimaneva coinvolto in un incidente stradale in cui il cugino moriva e il camion, di proprietà di un terzo, andava distrutto; per sottrarsi alle minacce del proprietario del camion che voleva essere da lui risarcito, fuggiva nel 2014, prima in Costa d’Avorio poi attraverso Burkina Faso, Niger, Libia, fino a raggiungere l’Italia.

3. In primo grado, la sua richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato veniva rigettata, ma il Tribunale, all’esito del giudizio di primo grado, gli riconosceva il diritto alla protezione umanitaria, sia per la situazione di pericolosità del Mali (in particolare nella zona sud, di provenienza del ricorrente), sia per l’accertato stato d’ansia in cui viveva il ricorrente, come disturbo post-traumatico derivante dal percorso migratorio.

4. Il Ministero dell’interno appellava e l’impugnazione veniva accolta dalla Corte d’Appello di Bologna, che riformava la decisione di primo grado rigettando anche la domanda volta alla concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, non ritenendo credibile il ricorrente, in quanto privo di documentazione a supporto della sua versione dei fatti, e ritenendo anche poco credibile che avesse preferito sobbarcarsi la spesa del viaggio piuttosto che utilizzare quello stesso denaro raccolto per rimborsare il proprietario del costo del camion evitando in tal modo di doversi sottoporre alla fuga e ai rischi connessi. La sentenza terminava la motivazione escludendo la vulnerabilità del ricorrente sostenendo che fossero circostanze idonee ad escluderla quegli stessi elementi positivi grazie ai quali aveva costruito il suo percorso di integrazione in Italia: l’essere giovane, in buona salute, con solidi legami familiari, idoneo al lavoro.

5. Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 8 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, nonchè il difetto di motivazione.

Sostiene che, nel ritenere non provate le sue affermazioni, in relazione alla protezione sussidiaria richiesta, la corte di merito sia incorsa nel mancato rispetto dei parametri normativi tipizzati di valutazione dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, che avrebbero imposto, ove rispettati, di considerare veritiere le dichiarazioni del richiedente, che avrebbero comunque dovuto essere considerate nel loro complesso, perchè sorrette da ogni ragionevole sforzo di documentazione e completezza e infine la corte d’appello avrebbe comunque dovuto attingere alle COI aggiornate relative al paese di provenienza.

6. Il motivo è fondato.

Con il motivo in esame il ricorrente denuncia che la corte d’appello sia incorsa in un errore di metodo nell’accertamento istruttorio, non avendo tenuto conto delle regole particolari dettate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, a presidio dello svolgimento dell’attività istruttoria in questo tipo di giudizi, caratterizzati, sempre, dal fatto che il soggetto che si rivolge all’autorità giudiziaria italiana per avere tutela è uno straniero, che assume di essere dovuto fuggire dal proprio paese di origine, e quindi non si trova nelle stesse condizioni di una ordinaria parte, che consentano di sottostare all’onere probatorio imposto dalle regole ordinarie di svolgimento del processo: per questo, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, detta delle regole peculiari e di favore per lo svolgimento dell’istruttoria nelle cause di protezione internazionale, derogatorie rispetto a quelle ordinarie, fondate sul riconoscimento della impossibilità, per la stessa condizione del richiedente, di incardinare il processo e svolgere l’istruttoria secondo le regole generali, che si traducono, riassuntivamente e principalmente, nel dovere di cooperazione istruttoria in capo al giudice e nell’onere probatorio attenuato che grava sulla parte.

La misura della particolarità delle regole di svolgimento del giudizio è stata diversamente definita dalla giurisprudenza di legittimità, che ne ha dato una lettura talora massimamente ampia, fino ad incidere non solo sull’onere probatorio, ma sullo stesso onere di allegazione, talatra più circoscritta: anche se si volesse aderire alla più rigida e restrittiva regola interpretativa di esse, le regole dettate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non sono state rispettate dalla corte d’appello di Bologna nella sentenza impugnata.

In primo luogo, un processo regolato dal principio della cooperazione istruttoria, è un processo nel quale non vale l’ordinaria scansione della attività processuale ed in particolare non sono applicabili le preclusioni (v. Cass. n. 2875 del 2018): al contrario del processo ordinario, questo giudizio è teso, a mezzo della cooperazione del giudice, se non alla ricerca della verità quanto meno a facilitarne l’emersione in relazione alla situazione di ogni richiedente la protezione: per questo, l’affermazione della corte d’appello che ha ritenuto inammissibile la documentazione prodotta dal ricorrente unitamente alla comparsa conclusionale in quanto tardiva, trattandosi di documenti formatisi precedentemente è errata, e finanche non rispettosa delle difficoltà e dell’impegno che possono essere costati ad un cittadino straniero extracomunitario procurarsi documenti ufficiali (il passaporto, e poi la rettificazione della data di nascita, la carta di identità, il diploma di studi in patria) proprio per massimamente collaborare a definire la propria identità e il proprio diritto alla protezione.

Inoltre, l’art. 3 citato impone una valutazione complessiva del materiale probatorio acquisito, che tenga conto di tutti gli indici in esso riportati e che consenta, esercitando il dovere di cooperazione istruttoria, di ricostruire la situazione del richiedente. In questo senso già Cass. n. 8282 del 2013: “in tema di protezione sussidiaria, la valutazione di affidabilità del dichiarante alla luce del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, è vincolata ai criteri indicati dalla lett. a) e d) e deve essere compiuta in modo unitario (lett. e), tenendo conto dei riscontri oggettivi e del rispetto delle condizioni soggettive di credibilità contenute nella norma, non potendo lo scrutinio finale essere fondato sull’esclusiva rilevanza di un elemento isolato, specie se si tratta di una mera discordanza cronologica sulla indicazione temporale di un fatto e non sul suo mancato accadimento”.

La corte d’appello invece, pur richiamando l’art. 3, effettua una valutazione atomistica di ogni singolo aspetto, volta a ricercare ed esaltare le contraddizioni nella ricostruzione delle lunga storia del richiedente, escludendo che esse potessero essere eliminate dalla successiva produzione documentale e introduce una serie di minuziosi rilievi che appaiono poco improntati all’atteggiamento collaborativo richiesto dalla legge al giudice, che presuppone un obbligo di cooperazione a carico del giudice compensativo delle difficoltà per i richiedenti le protezioni di procurarsi documentazione a sostegno della loro versione dei fatti dal paese di provenienza nel rispetto dei termini ordinari.

7. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (protezione umanitaria) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3.

Richiama varie norme nonchè il principio del non refoulement, e sostiene che lo straniero ha il diritto soggettivo a non vedersi nuovamente inserito in un contesto di elevato rischio personale ed evidenzia che la situazione che caratterizza lo Stato del Mali, in particolare la regione sud di esso, che è la sua regione di provenienza, seppur non fosse caratterizzata dalla situazione di violenza diffusa, atta a fondare il riconoscimento della protezione sussidiaria, è di certo caratterizzata da una forte instabilità e che il ricorrente si troverebbe in una evidentissima situazione di vulnerabilità ove costretto a rientrare. Richiama a pag. 18 del ricorso, gli elementi caratterizzanti di tale vulnerabilità non tenuti adeguatamente in conto dalla corte d’appello.

8. L’accoglimento del primo motivo, sul procedimento seguito per l’accertamento del diritto alla protezione sussidiaria e per arrivare ad una valutazione di non credibilità, assorbe il secondo, dovendo il giudice del rinvio rinnovare la valutazione in fatto tenendo conto dei criteri di legge su tutte le forme di protezione richieste, non senza rilevarsi che la valutazione comparativa non è stata correttamente eseguita. Va segnalato come sfugga alla logica del giudizio di comparazione, in cui deve tenersi conto, sia delle difficoltà che il soggetto dovrebbe affrontare in caso di un suo forzato rientro nel paese di provenienza, sia i traumi subiti e gli sforzi compiuti per integrarsi nella nuova realtà, il ribaltamento esclusivamente in malam partem degli indici di una buona integrazione, presi in considerazione solo a testimonianza della capacità di adattamento del ragazzo in ogni situazione, senza minimamente considerare che questi abbia riportato attestati danni psicologici derivanti proprio da tutto il percorso migratorio e che la capacità di reagire alle avversità, per la giovane età o per la forza di carattere, non possa giocare esclusivamente a pregiudizio della persona.

La sentenza impugnata va cassata e la causa rimessa alla corte d’appello di Bologna in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo, assorbito il secondo, cassa e rinvia alla corte d’appello di Bologna anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2020

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