LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 30857/2018 proposto da:
I.L., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Corate Giacinto;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 4140/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 18/09/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24/09/2019 da Dott. FALABELLA MASSIMO.
FATTI DI CAUSA
1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Milano, pubblicata il 18 settembre 2018, con cui è stato respinto il gravame proposto da I.L. nei confronti del Tribunale del capoluogo lombardo, il quale aveva dedotto di aver lasciato la Nigeria nel 2014 in quanto perseguitato da un vicino ricco ed influente che si era impossessato di un terreno del padre; lo stesso odierno ricorrente ha narrato di aver tentato di rivendicare il fondo e di aver ricevuto minacce anche con riti magici, tanto da essere emarginato dalla propria gente e definitivamente dissuaso dal ritornare nel paese di origine. Al ricorrente non è stato riconosciuto lo status di rifugiato ed è stato altresì escluso che lo stesso possa essere ammesso alla protezione sussidiaria e a quella umanitaria.
2. – Il ricorso per cassazione si fonda su tre motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo lamenta la violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU e omesso esame di fatti decisivi. La censura investe, anzitutto, il profilo attinente alla ritenuta non credibilità del racconto del ricorrente. Assume inoltre I. che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, le vicende personali e familiari da lui narrate (incentrate sull’uccisione del padre e sulle minacce che egli aveva dovuto subire) costituivano una ipotesi di persecuzione; rileva, poi, che i cittadini nigeriani sono sottoposti a violenze e che la Corte di merito non aveva espresso alcun “apprezzamento critico dei fatti pur presenti nel rapporto” citato dallo stesso giudice distrettuale.
Il secondo motivo oppone la violazione dei parametri relativi alla credibilità delle dichiarazioni rese, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), non essendo stato “compiuto alcun esame comparativo tra le informazioni provenienti dal richiedente stesso e la situazione personale del ricorrente nelle aree da esso indicate da eseguirsi mediante la puntuale osservanza degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale”. L’istante si duole, in sintesi, della mancata acquisizione di ufficio di informazioni sul contesto socio-politico del paese di origine in correlazione coi motivi di persecuzione o di pericolo cui espone la presenza in Nigeria.
Col terzo mezzo si lamenta violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2, art. 10 Cost., comma 3, nonchè motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; si lamenta”, inoltre, omesso esame di fatti decisivi circa la sussistenza di quest’ultima. L’istante si duole del mancato riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, nonostante le “massicce violazioni dei diritti umani in Nigeria”: paese che esporrebbe le persone a elevatissimo rischio. Viene infine censurata l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, per cui l’istante non avrebbe dimostrato, nè allegato, di aver seguito un percorso di integrazione in Italia.
2. – I motivi sopra riassunti vanno disattesi e il ricorso deve essere respinto.
La Corte di appello ha ritenuto che il racconto del richiedente risultava vago, generico e lacunoso, oltre che contraddittorio nelle differenti versioni fornite alla Commissione (cui era stato riferito che il padre era morto di malattia) e al Tribunale (cui è stato dichiarato che il genitore era stato avvelenato dal vicino). Lo stesso giudice del gravame ha inoltre osservato come non risultasse provato il compimento di alcun atto di persecuzione posto in essere ai danni del ricorrente e che le ragioni che avevano spinto quest’ultimo a lasciare la Nigeria erano “di natura eminentemente personale, legate a vicende private, tali da non consentire di ritenere sussistente nei suoi confronti una situazione persecutoria che lo ponesse in una situazione di effettivo – o quantomeno verosimile – rischio di danno grave alla persona”.
Sul punto, la pronuncia impugnata si sottrae a censura.
Per un verso, infatti, la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c); tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340). Nella fattispecie il giudizio espresso dalla Corte di merito non risulta essere minato da alcuno dei vizi indicati, essendosi l’istante limitato a formulare generici rilievi critici sul giudizio espresso dal giudice distrettuale quanto all’attendibilità della richiamata narrazione.
Per altro verso, risulta certamente corretta l’affermazione del giudice del gravame per cui le vicende private, in sè e per sè considerate, non possono essere ricondotte a una situazione persecutoria (come pure, è da aggiungere, all’ipotesi del danno grave che da titolo alla protezione sussidiaria); e del resto, il ricorrente nemmeno deduce di aver prospettato, nella precorsa fase di merito, che i soggetti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. a) e b), non abbiano potuto o voluto fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi secondo quanto previsto dell’att. 5 cit., lett. c). Si rammenta, in proposito, che la proposizione del ricorso nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197; in senso conforme: Cass. 29 ottobre 2018, n. 27336).
Non concludente è, inoltre, la doglianza imperniata sulla mancata spendita, da parte giudice di appello, dei poteri officiosi. Infatti, “la riferibilità soggettiva e individuale del rischio di subire persecuzioni o danni gravi rappresenta un elemento costitutivo del rifugio politico e della protezione sussidiaria art. 14, ex lett. a) e b), escluso il quale da punto di vista dell’attendibilità soggettiva non può riconoscersi il relativo status” (Cass. 17 giugno 2018, n. 16925, in motivazione). In altri termini, ove vengano in questione le ipotesi del rifugio politico e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e lett. b), in cui rileva, se pure in diverso grado, la personalizzazione del rischio oggetto di accertamento (cfr. Cass. 20 marzo 2014, n. 6503; Cass. 20 giugno 2018, n. 16275 cit.), non vi è ragione di attivare i poteri di istruzione officiosa se questi sono finalizzati alla verifica di fatti, situazioni, o condizioni giuridiche che, in ragione della non credibilità della narrazione del richiedente, devono reputarsi estranei alla vicenda personale di questo (con specifico riferimento allo status di rifugiato cfr. Cass. 21 novembre 2018, n. 30105, secondo cui la situazione socio-politica o normativa del paese di provenienza è rilevante solo se correlata alla specifica posizione del richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica).
Con riguardo alla fattispecie di cui all’art. 14, lett. c), la Corte di appello ha invece correttamente accertato, basandosi sulle più accreditate fonti di informazione (richiamate nel provvedimento) che la regione di provenienza del ricorrente non era “caratterizzata dalla presenza di un conflitto armato generatore di una situazione di violenza tanto diffusa e indiscriminata da interessare qualsiasi persona ivi abitualmente dimorante”.
Parimenti infondata è, poi, la censura vertente sulla protezione umanitaria: e ciò per l’assorbente rilievo per cui la Corte di appello, giudicando del tutto inattendibile il resoconto dell’istante, non ha evidentemente rinvenuto, nella sua vicenda personale, elementi che potessero far pensare a una particolare vulnerabilità dello stesso. Ed è da sottolineare, in proposito, che la condizione di vulnerabilità deve essere sempre correlata a elementi legati alla vicenda personale del richiedente, apprezzata nella sua individualità e concretezza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).
3. – Nulla è ovviamente da statuire in punto di spese processuali.
P.Q.M.
la Corte:
rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020