Nel caso in cui il genitore agisca in giudizio in rappresentanza del figlio minore in difetto di autorizzazione ex art. 320 c.c., l'eccezione di carenza di legittimazione processuale sollevata dalla controparte è infondata se l'autorizzazione viene prodotta, sia pure successivamente alla scadenza dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., ovvero se il figlio, diventato maggiorenne, si costituisce nel giudizio (nella specie, di appello), così ratificando l'attività processuale del rappresentante legale, operando in entrambe le ipotesi la sanatoria retroattiva del vizio di rappresentanza ai sensi dell'art. 182 c.p.c.
Cassazione, sez. III Civile, Sentenza 04/02/2020 n. 2460
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 17807/2017 R.G. proposto da:
E.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Roberto De Vito,
con domicilio eletto in Roma, via Carlo Conti Rossini, n. 26, presso
lo studio dell’Avv. Sabrina Metta;
– ricorrente –
contro
K.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Elisa Stevenazzi;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1780/2017 della Corte d’appello di Milano,
depositata il 28/04/2017;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 settembre
2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;
udito l’Avvocato Sabrina Metta, per delega;
udito l’Avvocato Mario Occhipinti, per delega;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo il rigetto.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza dell’11 febbraio 2015 il Tribunale di Monza annullò, per difetto della preventiva autorizzazione del giudice tutelare, la transazione con la quale K.R., in rappresentanza del figlio minore Da., a fronte del quietanzato versamento di alcuni acconti e dell’impegno a versare l’ulteriore somma forfettaria di Euro 60.000, aveva rinunciato nei confronti dell’ E. ad ogni ulteriore pretesa discendente dall’essere il minore unico erede della madre E.I., già socia, con il fratello D., della Assifutura S.a.s. di E.D. & C..
Il Tribunale respinse inoltre la domanda riconvenzionale spiegata dal convenuto di ripetizione della somma di Euro 162.000 di cui alla scrittura impugnata.
2. La Corte d’appello di Milano ha integralmente confermato tale decisione rigettando i motivi di gravame con i quali l’appellante si doleva, per quanto ancora in questa sede rileva:
– del rigetto della preliminare eccezione di inammissibilità della domanda per difetto della preventiva necessaria autorizzazione del giudice tutelare (in tesi tardivamente prodotta dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6);
– del rigetto della subordinata domanda riconvenzionale di ripetizione di indebito.
3. Avverso tale sentenza E.D. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste K.D., depositando controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 320 c.c. e dell’art. 182 c.p.c., in relazione al rigetto della preliminare eccezione di inammissibilità della domanda.
Lamenta che erroneamente il giudice a quo ha ritenuto sanato il difetto di autorizzazione del legale rappresentante del minore a stare in giudizio con la tardiva produzione di detta autorizzazione, effettuata dopo il decorso dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6. Sostiene infatti che l’art. 182 c.p.c., consente bensì la regolarizzazione degli atti concernenti la capacità di stare in giudizio ma stabilisce a tal fine termini perentori fissando anche le modalità con cui tale regolarizzazione deve essere effettuata: termini e modalità nella specie non osservati dal momento che il tribunale, nonostante la relativa eccezione fosse stata sollevata sin dal primo atto difensivo, non rilevò il difetto di autorizzazione nè si espresse in merito.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 1422 e 2033 c.c., in relazione al rigetto della domanda riconvenzionale subordinata.
Al riguardo la Corte d’appello ha escluso il dedotto vizio di ultrapetizione osservando che: la sentenza di primo grado si era limitata a rigettare la domanda riconvenzionale proposta; “le somme riconosciute nella scrittura e corrisposte trovano la propria fonte e causa giustificatrice nella qualità di unico erede di K.D. legittimato ad entrare in possesso dei beni dell’asse ereditario, circostanza come ben detto dal primo giudice mai contestata”; non sussiste pertanto il difetto di causa alla base dell’esercizio dell’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c..
Con il motivo in esame il ricorrente reitera in sostanza detta eccezione rilevando che, con l’atto introduttivo del giudizio, controparte aveva chiesto unicamente la declaratoria di annullamento della scrittura privata mentre non aveva svolto alcuna domanda di accertamento della debenza delle somme erogate (pari a complessivi Euro 162.000), nè era stata conseguentemente svolta alcuna attività istruttoria sul punto.
Sotto il secondo profilo (violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1422 e 2033 c.c.) lamenta in sostanza che la Corte d’appello, in contrasto con la qualificazione dell’atto come transazione – implicante l’esistenza di una lite sulle reciproche pretese alle quali con quel contratto le parti rinunciano proprio al fine di comporla o prevenirne l’insorgenza – ha erroneamente affermato che esso ricorrente non aveva mai posto in discussione il diritto di controparte di ottenere gli importi ivi indicati quale unico erede della madre E.I. e ne ha conseguentemente riconosciuto la spettanza in assenza di alcuna valutazione nel merito della fondatezza della relativa pretesa.
Soggiunge che costituisce un salto logico l’ulteriore affermazione secondo cui gli importi riconosciuti nella transazione annullata avrebbero dovuto considerarsi quali acconti rispetto ad ulteriori importi ancora spettanti.
Osserva, in conclusione, che l’annullamento dell’atto priva l’attribuzione di danaro della sua unica causa giustificatrice, rendendo irrilevante anche un’eventuale indagine volta a stabilire se vi fosse o meno una sperequazione e fondando la pretesa restitutoria secondo le norme sulla ripetizione di indebito.
3. E’ infondato il primo motivo di ricorso (da ricondurre, giova precisare, alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denunciandosi con esso un preteso error in procedendo nel quale sarebbe incorso il giudice d’appello nel rigettare la reiterata eccezione di inammissibilità della domanda introduttiva per difetto di legittimazione ad processum in capo all’attore che agiva in rappresentanza del figlio minore).
La decisione sul punto della Corte d’appello, oltre che sul rilievo sanante, ex art. 182 c.p.c., della autorizzazione prodotta in corso di causa successivamente allo scadere dei termini concessi ex art. 183 c.c., comma 6 – sul quale unicamente si appunta la censura del ricorrente – trova alternative e autosufficienti giustificazioni anche in altre due considerazioni, non fatte segno di alcuna critica in ricorso e che, in quanto pienamente corrette in diritto e ciascuna, di per sè, assorbente, rendono irrilevante l’esame della questione posta con riferimento alla detta alternativa ratio.
3.1. La prima considerazione poggia sul principio, incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte e direttamente discendente dalla previsione di cui all’art. 322 c.c. (a mente della quale “Gli atti compiuti senza osservare le norme dei precedenti articoli del presente titolo possono essere annullati su istanza dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale o del figlio o dei suoi eredi o aventi causa”), secondo cui il difetto di autorizzazione del legale rappresentante del minore a stare in giudizio non può essere fatto valere dalle altre parti, essendo tale autorizzazione posta a tutela del minore (Cass. 29/03/1979, n. 1808).
3.2. La seconda poggia sul rilievo della intervenuta ratifica, dell’attività precedentemente svolta dal rappresentante, operata dal rappresentato, una volta divenuto maggiorenne, attraverso la sua costituzione nel giudizio d’appello.
Sul punto, la Corte d’appello s’è invero correttamente adeguata al consolidato principio giurisprudenziale secondo il quale il difetto di legittimazione processuale del genitore che agisca in giudizio in rappresentanza del figlio, non più soggetto a potestà per essere divenuto maggiorenne, può essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio da quest’ultimo operata manifestando, in modo non equivoco, la propria volontà di sanatoria (v. Cass. 08/11/2012, n. 19308; 29/09/2011, n. 19881; 14/12/2004, n. 23291).
Appare evidente invero che se tale ratifica può ammettersi in ipotesi in cui il potere di rappresentanza difetta in radice, a fortiori è da ammettersi, con gli stessi effetti, nell’ipotesi minore in cui il potere sussiste ma difetta soltanto della condizione richiesta per essere validamente esercitato.
Tanto più tale principio merita di essere ribadito, anche con riferimento alla fattispecie in esame, alla luce del novellato testo dell’art. 182 c.p.c., comma 2 (introdotto come noto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 2, applicabile alla fattispecie ratione temporis), che, estendendo alla procura il previsto meccanismo di sanatoria con efficacia ex tunc, ha radicalmente innovato il sistema, chiaramente ispirandosi all’obiettivo di garantire la riduzione delle ipotesi di nullità ed il rafforzamento degli strumenti di sanatoria degli atti processuali nulli, in modo da ridurre al minimo, se non eliminare del tutto, le ipotesi, giustamente ritenute “antieconomiche”, di rigetto della domanda in rito.
4. Con il secondo motivo il ricorrente svolge due distinte censure, la prima delle quali prospetta un error in procedendo (per il mancato
rilievo di un asserito vizio di ultrapetizione), la seconda invece un error in iudicando (per l’erronea applicazione delle norme in tema di
transazione, invalidità del contratto e ripetizione di indebito).
4.1. La prima di esse è inammissibile e, comunque, infondata.
4.1.2. Il preliminare rilievo di inammissibilità discende, ex art. 366 c.p.c., n. 6, dalla constatazione che il ricorrente omette di fornire l’indicazione specifica dei termini della domanda riguardo alla quale sarebbe stata operata la ultrapetizione e dei termini dell’appello con cui la questione era stata proposta.
4.1.2. E’ agevole comunque rilevare, ad abundantiam, la palese infondatezza della censura, non potendosi certamente predicare alcun vizio di ultrapetizione.
Al di là delle argomentazioni svolte, il decisum delle sentenze di merito non contiene infatti alcuna statuizione di condanna o di accertamento che attribuisca all’attore/appellato un bene dallo stesso non richiesto, ma ben diversamente, come rettamente rilevato in sentenza, si limita a rigettare la domanda riconvenzionale -effettivamente svolta dal convenuto – di ripetizione delle somme da questo corrisposte al primo; la sentenza dunque si mantiene pienamente entro i confini delineati dalle domande ed eccezioni svolte negli atti introduttivi e con l’atto di appello.
4.2. Analoghi rilievi – di inammissibilità, anzitutto, e, comunque, di infondatezza – debbono svolgersi con riferimento alla seconda censura.
4.2.1. Questa invero è anzitutto inammissibile poichè anch’essa postulata senza l’osservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti su cui si fonda, previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
Ancora una volta parte ricorrente omette infatti di precisare i termini della domanda riconvenzionale cui il motivo si riferisce, i termini della difesa svolta riguardo ad essa dalla controparte e i termini che riguardo ad essa aveva assunto la decisione di primo grado e quelli dell’appello proposto sul punto.
D’altro canto, il tenore della motivazione del giudice d’appello fa riferimento alla motivazione della sentenza di primo grado ed indica una precisa causale giustificativa della reiezione della domanda riconvenzionale basata sull’annullamento della transazione.
Ne segue che non solo non viene dimostrato affatto su che cosa fosse basata la riconvenzionale subordinata ed in particolare sul se fosse fondata sulla mera pretesa, per il caso di accoglimento della domanda principale, di una restituzione dell’attribuzione patrimoniale, ma, soprattutto, quand’anche potesse supporsi che la riconvenzionale era stata fondata solo su questo, resterebbe che non ci è stato fatto constare che la parte attrice non avesse allegato, in via di eccezione, che, pur annullata la transazione, la condictio indebiti non sussistesse per essere quell’attribuzione fondata sulla ragione indicata dalla sentenza impugnata.
4.2.2. Può in ogni caso rilevarsi, ad abundantiam, l’infondatezza della critica, per una ragione in iure diversa e per così dire logicamente prioritaria e assorbente rispetto a quella adottata in sentenza: regula iuris che attiene al riparto dell’onere probatorio in ipotesi quale quella in esame e che è opportuno qui enunciare anche nell’esercizio del potere di correzione della motivazione ex art. 384 c.p.c., comma 4.
Secondo principio affermato da un risalente arresto della giurisprudenza di questa Corte, ma successivamente a quanto consta incontrastato, e che, in quanto pienamente condiviso, può qui ribadirsi, l’art. 1443 c.c. – secondo cui, qualora il contratto è annullato per incapacità di uno dei contraenti, questi non è tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio (incombendo al solvens l’onere di provare l’eventuale vantaggio ricevuto dall’incapace e la relativa misura) – si applica anche nel caso in cui il contratto, anzichè essere stato stipulato personalmente dall’incapace, sia stato stipulato in suo nome da chi lo rappresentava senza la prescritta autorizzazione (Cass. 04/03/1968, n. 681; v. anche, per un’analoga estensione a quest’ultima fattispecie della norma di cui all’art. 1442 c.c., comma 2, circa la decorrenza dell’azione di annullamento determinata dalla incapacità o minore età della parte: Cass. 23/03/1977, n. 1140, e Cass. 06/03/1993, n. 2725, ove si evidenzia come la parificazione tra le due ipotesi – del contratto concluso direttamente dall’incapace e di quello invece concluso dal suo rappresentante legale senza le autorizzazioni degli organi tutelari prescritte dalla legge – discenda dall’essere anche la seconda, come la prima, caratterizzata da un vizio dell’atto determinato dalla sua stipulazione senza le garanzie previste dalla legge nell’interesse dell’incapace, e dal ricorrere pertanto, in entrambi i casi, della medesima esigenza di tutela dell’incapace dagli effetti negativi dell’inerzia del tutore).
Alla luce di tale principio, applicabile pertanto anche alla fattispecie in esame, non incombeva al minore (accipiens) l’onere di provare di aver diritto alle somme ricevute indipendentemente dalla annullata transazione, ma al solvens convenuto/appellante dar prova del vantaggio indebito ricevuto dalla controparte.
L’esonero dalla restituzione è invero determinato, anche in tal caso, dalla presunzione che il contraente incapace non abbia tratto profitto dalla controprestazione ricevuta (Cass. n. 681 del 1968). Ciò in quanto la legge presume che (l’incapace) ha mal disposto del suo patrimonio, così come che possa aver dissipato la prestazione ricevuta e, pertanto, il rischio di tale situazione ricade sull’altro contraente che abbia contrattato con l’incapace e possa vedersi rifiutata la restituzione della sua prestazione ove non provi che di essa l’incapace abbia tratto vantaggio (Cass. 21/11/1975, n. 3913), essendo peraltro anche escluso che possa assumere rilievo la buona o malafede dell’altro contraente (Cass. 07/07/2017, n. 16888).
Nel caso di specie pertanto, in mancanza di alcuna allegazione e prova, da parte del solvens, dell’indebito vantaggio ricevuto dalla controparte, corretta deve ritenersi la decisione impugnata.
5. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 10 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020.