Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.2467 del 04/02/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10053/2018 proposto da:

N.M.V., M.R. A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CASSIODORO 1/A, presso lo studio dell’avvocato GIULIANO SCARSELLI, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

F.H., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO PLETTO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 330/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 07/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha chiesto la trattazione del giudizio in pubblica udienza.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza 7.2.2018 n. 330 la Corte d’appello di Firenze ha dichiarato inammissibile, in quanto proposto oltre il termine di decadenza di giorni trenta prescritto dall’art. 702 quater c.p.c., comma 1, l’appello proposto nella forma del ricorso, con atto depositato in Cancelleria il 29.3.2016, avverso la ordinanza di rigetto della domanda di condanna alla restituzione di somme mutuate e di rivendicazione di beni mobili registrati, pronunciata dal Tribunale Ordinario di Siena e comunicata in data 27.2.2016.

La Corte territoriale, conformandosi alla consolidata giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto che:

Il procedimento sommario di cognizione, inserito dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 51, comma 1, nel codice di rito sotto il capo III bis del titolo I del Libro IV (procedimenti speciali) agli artt. 702 bis e 702 quater c.p.c., regola esclusivamente la forma dell’atto introduttivo di primo grado che va proposto con “ricorso”: pertanto in assenza di espressa previsione legislativa, non è invocabile il principio della ultraattività del rito e la forma dell’atto di impugnazione non può che essere quella ordinaria disciplinata dal codice di rito in relazione al mezzo di impugnazione esperibile ex artt. 339 c.p.c. e segg. (nella specie l’appello ex art. 702 quater c.p.c.).

L’irrituale proposizione dell’atto di impugnazione nella forma del ricorso è suscettiva di sanatoria in relazione al principio di conversione degli atti nulli per raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., comma 3), nel caso in cui la diversa forma dell’atto non pregiudichi comunque lo stesso schema processuale previsto dalla norma in funzione della “edito actionis” e della “vocatio in jus”: con la conseguenza per cui, ai fini della “pendenza della lite” e della conoscibilità legale, da parte del destinatario, della domanda/impugnazione proposta, occorre avere riguardo al momento della notifica alla controparte e non anche del deposito dell’atto in Cancelleria.

La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione da N.M.V. e da M.R. A. con ricorso affidato a due motivi.

Resiste con controricorso F.H..

Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte, concludendo con istanza di trattazione del giudizio in pubblica udienza.

Le parti ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione degli artt. 342,409,433,702 quater c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c, comma 1, n. 4) i ricorrenti sostengono che oggetto della causa era anche il rapporto di lavoro dipendente intrattenuto con loro dal F.. Deducono al riguardo di aver rappresentato nell’atto introduttivo in primo grado che le parti avevano convenuto una retribuzione mensile di Euro 1.600,00 e che però dal gennaio 20102 il F. aveva percepito il minore importo di Euro 800,00 in quanto da accordi sopravvenuti in ordine alle somme asseritamente prestate a mutuo, le parti avevano convenuto che la restituzione avvenisse ratealmente mediante trattenute sugli emolumenti mensili: secondo i ricorrenti, pertanto, il Giudice di merito onde accertare se e quali somme fossero state restituite, avrebbe dovuto verificare quale fosse il salario effettivamente pattuito, non rilevando, ai fini dell’obbligatoria scelta del rito lavoristico – e, conseguentemente, della corretta introduzione dell’appello mediante ricorso, ai sensi dell’art. 433 c.p.c. – la circostanza che la causa fosse poi stata definita in base alla ragione più liquida (omessa prova del titolo della elargizione delle somme e della intestazione dei beni mobili registrati), senza dover quindi esaminare la controversia di lavoro.

1.2 Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha esaminato la questione della scelta del rito, confermando la correttezza dell’operato del primo Giudice che aveva svolto la causa nelle forme del procedimento sommario di cognizione, in quanto nessuna controversia concernente i diritti aventi titolo nel contratto di lavoro dipendente era stata introdotta con la domanda di condanna alla restituzione delle somme mutuate e dei beni intestati, diversa essendo la “causa petendi” (contratto di mutuo ed accordo relativo alla intestazione fiduciaria dei beni mobili registrati) ed il “petitum” sostanziale (somme di denaro erogate a prestito; autovetture) rispetto appunto al rapporto di lavoro che, peraltro, era oggetto di altro giudizio pendente tra le parti – avanti il Tribunale in funzione di giudice del lavoro – e del quale non era stato richiesto l’accertamento neppure in via incidentale, non essendo contestata la esistenza del titolo per il quale il F. aveva svolto le prestazioni a favore dei ricorrenti, titolo che veniva in rilievo nella presenta causa esclusivamente quale fatto storico presupposto al pari della retribuzione corrisposta, in quanto tale rilevante, non ai fini della verifica dell’adempimento della obbligazione gravante sul datore di lavoro – in ordine alla quale alcuna domanda era stata formulata in via riconvenzionale dal dipendente, ma soltanto quale mero fatto incidente sulla quantificazione delle somme, queste sì oggetto del giudizio, asseritamente date, ed in parte restituite tramite trattenute operate sulla retribuzione, a titolo di mutuo.

1.3 Pertanto, in difetto di una controversia sui diritti derivanti dal rapporto di lavoro, correttamente i Giudici di merito non hanno disposto la trasformazione del rito, ai sensi degli artt. 427 e 439 c.p.c., andando quindi esente da censure la statuizione della sentenza impugnata.

2. Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 702 quater c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) i ricorrenti intendono criticare, alla stregua di altri e diversi principi giuridici costituzionali e comunitari, l’orientamento espresso da questa Corte – al quale si è uniformata la sentenza impugnata – secondo cui l’appello non può essere trattato con il rito sommario di cognizione, dovendo procedersi ai sensi degli artt. 339 c.p.c. e segg., ed ancora secondo cui ove l’appello sia stato erroneamente proposto con ricorso anzichè con atti di citazione, occorre avere riguardo ai fini del termine di decadenza, non già alla data di deposito ma a quella di notifica dell’atto unitamente al decreto di fissazione della udienza.

2.1 Occorre premettere che il Procuratore Generale ha chiesto la trattazione in pubblica udienza ravvisando nella questione in diritto la rilevanza nomofilattica, sul presupposto della esigenza di un approfondimento delle ragioni addotte dai ricorrenti con la critica mossa alla sentenza impugnata attraverso il secondo motivo di ricorso.

2.2 L’assunto da cui muovono il PG ed i ricorrenti è quello del carattere settoriale (e perciò stesso delimitato ala specifica materia) degli arresti peraltro ripetuti e conformi nella soluzione in diritto – intervenuti, anche con pronunce rese a Sezioni Unite, in ordine:

a) alle condizioni che legittimano la sanatoria mediante conversione dell’atto introduttivo del giudizio (sia in primo che in secondo grado) affetto da vizio di nullità formale;

b) agli effetti che tale sanatoria produce in ordine alla verifica della osservanza di termini di decadenza della impugnazione.

2.3 La critica formulata viene, in particolare, a ribaltare specularmente l’argomento sostenuto dalla Corte territoriale – e conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità -, secondo cui, in assenza di una espressa normativa disciplinatrice della forma introduttiva del giudizio di secondo grado (indicata in modo esplicito nel “ricorso”, come ad esempio: per il rito del lavoro l’art. 433 c.p.c.; per la azione antidiscriminatoria dello straniero nella disciplina – previgente alle modifiche del D.Lgs. n. 150 del 2011 – del TU n. 286 del 1998 che, all’art. 44, commi 2 e 6 individuava la impugnazione nel “reclamo ai sensi degli artt. 737 c.p.c. e segg.”; per la impugnazione delle sentenze rese dal Tribunale delle acque pubbliche: R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 189, comma 1; per il reclamo al tribunale in composizione collegiale, nelle forme prescritte dagli artt. 737 c.p.c. e segg., avverso la ordinanza emessa dal Giudice monocratico in tema di atti antidiscriminatori tra uomini e donne nell’accesso a beni e servizi: D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, art. 55, quinquies, comma 6, nel testo anteriore alla abrogazione disposta dal D.Lgs. n. 150 del 2011), il modello processuale al quale occorre fare riferimento per integrare eventuali lacune della disciplina del secondo grado di giudizio, non può che essere quello “generale” definito dagli artt. 339 c.p.c. e segg., per il giudizio di appello (“cui va riconosciuta una naturale attitudine a regolare tutti i gravami di merito”: Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 2907 del 10/02/2014, in motivazione. La sentenza, resa in materia di opposizione a sanzione amministrativa della L. n. 689 del 1981, ex art. 23, nel regime previgente alle modifiche del D.Lgs. n. 150 del 2011, enuncia una serie di principi che fanno perno sulla mancanza di una regolazione espressa da parte del Legislatore della forma della impugnazione, e che pertanto si estendono a tutti i casi analoghi in cui detta lacuna deve essere colmata attraverso l’intervento dell’interprete) come integrato dalla norma di chiusura dell’art. 359 c.p.c., che, per quanto non espressamente previsto, rimanda, in quanto compatibili, alle norme del codice di rito che regolano il processo ordinario di cognizione in primo grado avanti il Tribunale.

2.4 Appare opportuno riportare di seguito gli enunciati fondamentali ai quali la consolidata giurisprudenza di legittimità riconduce la indicata soluzione interpretativa e che sono stati compendiati nella motivazione della sentenza della Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 2907 del 10/02/2014:

“a) la sicura natura di “rito generale ordinario” della disciplina dell’appello di cui agli artt. 339 c.p.c. e segg., cui va riconosciuta una naturale attitudine a regolare tutti i gravami di merito;

b) il primato del rito ordinario sui riti speciali anche in secondo grado, enucleabile dal combinato disposto dell’art. 40 c.p.c., comma 3 e art. 359 c.p.c., tanto più che quest’ultima disposizione, nel rinviare alle norme del giudizio di primo grado, limita espressamente il richiamo al solo rito davanti al tribunale, e non anche ai riti speciali, con il solo limite di compatibilità delineato dagli artt. 339-358 c.p.c.;

c) il fatto che l’art. 359 c.p.c., opera come una norma di chiusura saldamente collocata all’interno del modello processuale generale, da cui la necessità di una lettura della norma coerente al sistema cui inerisce, caratterizzato da una rigorosa omogeneità tecnica (in particolare, sin dall’identità del momento dialettico iniziale: atto di citazione e comparsa di risposta);

d) il fatto che, ove il legislatore ha voluto disegnare una disciplina speciale anche per il giudizio di secondo grado, lo ha fatto espressamente, come, ad esempio, per il rito del lavoro”.

2.5 Occorre altresì premettere che le Sezioni Unite, nel ribadire il principio di diritto secondo cui l’appello introdotto con ricorso anzichè con citazione, è suscettibile di sanatoria, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., alla condizione che nel termine previsto dalla legge l’atto sia stato non solo depositato nella cancelleria del giudice, ma notificato alla controparte, hanno puntualmente rimarcato la assoluta specificità del diverso caso esaminato nel precedente di Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 8491 del 14/04/2011, rilevando che la difforme soluzione cui erano giunti i Giudici di legittimità (in ordine alla osservanza del termine di decadenza per la impugnazione di delibere assembleari del Condominio ex art. 1137 c.c., proposta con atto di citazione, anzichè con ricorso) trovava giustificazione nella assoluta peculiarità della fattispecie di diritto sostanziale, in quanto il termine di decadenza non era posto a garanzia di un interesse pubblico indisponibile (in quanto attinente allo svolgimento del processo ed alla stabilizzazione degli effetti delle decisioni giudiziarie), ma riguardava invece esclusivamente il rapporto di diritto sostanziale, essendo quindi rimesso l’effetto decadenziale ostativo all’esercizio della azione alla mera eccezione della controparte.

2.6 I predetti enunciati delle Sezioni Unite del 2014 vengono criticati dal PG e dai ricorrenti, in quanto la soluzione adottata nel caso concreto sottoposto all’esame delle Sezioni Unite risulterebbe collidente proprio con quella stessa conclamata esigenza di uniformità del modello tratto dalle norme del codice di rito che, prevedendo la medesima forma dell’atto di citazione per entrambi i gradi di giudizio, verrebbe ad essere del tutto disattesa (in quel caso, come in quello oggetto dell’attuale verifica), in quanto alla previsione dell’art. 702 bis c.p.c., che indica il “ricorso” quale atto introduttivo del primo grado di giudizio, non si farebbe corrispondere la “uniforme” modalità dell’atto di appello ex art. 702 quater c.p.c..

2.7 La critica così formulata, tuttavia, non convince poichè la esigenza di uniforme applicazione del modello generale di riferimento, tratto dalla disciplina del processo ordinario di cognizione, non implica affatto la automatica traslazione, nell’ambito del differente schema procedimentale di cui agli artt. 702 c.p.c. e segg., della corrispondenza formale “atto di citazione-atto di appello” prevista nel modello generale, in quanto la esigenza di uniformità non si riflette nella distorsione del modello generale alle forme del modello sommario, ma al contrario nella riconduzione – qualora manchi una diversa disciplina specifica, eventualmente derogatoria, e non sia altrimenti individuabile in via interpretativa la soluzione idonea ad integrare la lacuna normativa – della fattispecie processuale indefinita, allo schema generale processuale di riferimento.

Pertanto, la esigenza di uniformità posta a fondamento del principio enunciato dalle SS.UU. del 2014, non si traduce nell’applicazione del criterio volto ad affermare una asserita necessità del “continuum” tra forma dell’atto introduttivo in primo grado e forma dell’atto di appello, ma soltanto nella prevalenza della forma del modello generale quando il modello speciale o diverso nulla dispone al riguardo, dovendo osservarsi, al proposito che il modello generale delineato dal codice di rito consente di individuare la forma dell’atto di appello senza ricorrere alla tecnica del “rinvio” ex art. 359 c.p.c., ma direttamente dalla specifica disciplina del mezzo di impugnazione dell’appello, essendo tale forma espressamente indicata dall’art. 342 c.p.c..

2.8 E’ ben vero che la scarna disciplina del procedimento di appello dettata dall’art. 702 quater c.p.c., presenta talune divergenze rispetto al modello generale della stessa impugnazione (1- decorrenza del “dies a quo” per la impugnazione, dalla “comunicazione” dell’ordinanza decisoria – nel suo contenuto integrale – da parte della Cancelleria, se anteriore alla notificazione a cura di parte; 2- ammissione di nuovi mezzi di prova e di nuovi documenti se indispensabili o non potuti produrre per fatto non imputabile alla parte; 3- inaplicabilità del filtro ex art. 348 bis c.p.c., comma 1, n. 2) e del regime di impugnazione della ordinanza dichiarativa della inammissibilità per saltum).

Ma tali elementi in deroga – quanto alle ipotesi sopra indicate – attengono ad aspetti del tutto distinti dalla struttura dell’atto introduttivo idoneo ad instaurare il giudizio di impugnazione, e non appaiono ex se significativi per definire in modo diverso le formalità introduttive del giudizio di secondo grado, tenuto conto altresì che la enfatizzata deroga al modello generale, deve essere notevolmente ridotta ove si consideri in particolare:

a) che la modalità di decorrenza del termine breve di impugnazione, non è estranea al modello generale dell’appello, prevedendo anch’esso, nel caso di discussione orale e pronuncia contestuale della sentenza ex art. 352 c.p.c. (che rinvia all’art. 281 sexies c.p.c.), la decorrenza del termine di impugnazione dalla data dell’udienza in cui è stata data lettura a verbale del dispositivo e delle ragioni della decisione;

b) che la asserita specificità concernente i mezzi di prova, non era voluta tale dal Legislatore al momento della introduzione del “procedimento sommario di cognizione” di cui al Capo III bis del codice di rito, in quanto le contestuali modifiche apportate all’art. 345 c.p.c., comma 3, dalla medesima L. n. 69 del 2009, lasciavano immutato il potere del Giudice – anche nel giudizio ordinario di appello – di ammettere nuove prove costituende e costituite, solo in caso di ritenuta “indispensabilità” ai fini della decisione (essendosi verificata la divergenza, sottolineata dal PG, soltanto a seguito della modifica dell’art. 345 c.p.c., comma 3, disposta dal DL n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. 0b, conv. in L. n. 134 del 2012: in ogni caso non parendo decisiva in alcun modo tale sopravvenuta discrasia in materia di nuove prove, sulla soluzione della questione concernente la forma dell’atto di appello);

c) che la espressa esclusione dell’applicazione del filtro ex art. 348 bis c.p.c., nel procedimento di appello ex art. 702 quater c.p.c., trova giustificazione proprio nella volontà del Legislatore di non trasferire, anche nel grado di appello, il carattere “sommario” del procedimento previsto in primo grado (la dottrina ha avuto modo di individuare le non del tutto coerenti intenzioni del Legislatore, sottese a tale scelta, nel fornire un incentivo alle parti ad avvalersi del procedimento sommario di cognizione – nella pratica forense di fatto negletto, in quanto tale scelta, per eterogenesi del fine, disvela una implicita svalutazione della efficienza di tale schema procedimentale semplificato, venendosi a dubitare della capacità del Giudice in primo grado di pervenire ad una completa cognizione e ad un compiuto accertamento dei fatti controversi: la necessità di garantire un giudizio appello “pieno”, sottraendolo ad una anticipata definizione con una pronuncia di merito “in limine”, pare infatti rispondere alla velata esigenza di sopperire ad una “istruttoria sommaria” ritenuta per ciò solo manchevole e perfettibile soltanto attraverso il successivo grado di giudizio). In ogni caso, anche questo elemento processuale distonico rispetto al modello generale, non rende spiegazione della ragione per cui l’atto di appello dovrebbe rivestire la forma del ricorso anzichè quella generale dell’atto di citazione.

2.9 Avuto riguardo alle precedenti considerazioni svolte, assume quindi carattere recessivo la pur condivisibile critica – fondata sulla incomparabilità nella peculiare fattispecie in esame di riti processuali distinti nella relazione di speciale rispetto a generale – rivolta all’argomento, anch’esso valorizzato da Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 2907 del 10/02/2014, del “primato del rito ordinario sui riti speciali, anche in secondo grado, enucleabile dal combinato disposto dell’art. 40 c.p.c., comma 3 e art. 359 c.p.c.” (disposizione quest’ultima che, nel rinviare alle norme del giudizio di primo grado, limita espressamente il richiamo al solo rito davanti al tribunale, e non anche ai riti speciali).

2.10 Non afferma, inoltre, principi divergenti dalla consolidata giurisprudenza formatasi in materia di forma dell’atto di impugnazione in grado di appello, la recente pronuncia di Corte Cass. Sez. U -, Sentenza n. 28575 del 08/11/2018 così massimata dal CED di questa Corte: “Nel vigore del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, così come modificato dal D.Lgs. n. 142 del 2015, art. 27, comma 1, lett. f), l’appello ex art. 702 quater c.p.c., proposto avverso la decisione di primo grado sulla domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale deve essere introdotto con ricorso e non con citazione, in aderenza alla volontà del legislatore desumibile dal nuovo tenore letterale della norma. Tale innovativa esegesi, in quanto imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso, costituisce un “overrulling” processuale che, nella specie, assume carattere peculiare in relazione al momento temporale della sua operatività, il quale potrà essere anche anteriore a quello della pubblicazione della prima pronuncia di legittimità che praticò la opposta esegesi (Cass. n. 17420 del 2017), e ciò in dipendenza dell’affidamento sulla perpetuazione della regola antecedente, sempre desumibile dalla giurisprudenza della Corte, per cui l’appello secondo il regime dell’art. 702 quater c.p.c., risultava proponibile con citazione. Resta fermo il principio che, nei giudizi di rinvio riassunti a seguito di cassazione, il giudice del merito è vincolato al principio enunciato a norma dell’art. 384 c.p.c., al quale dovrà uniformarsi anche se difforme dal nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità”.

In quel caso, la serie di indici esteriori evidenziati dalle Sezioni Unite nella specifica fattispecie esaminata, tra i quali in particolare quello della esigenza di una rapida definizione del procedimento anche in grado di appello – avuto riguardo alla rilevanza del diritto della persona oggetto della controversia ed al pericolo che il ritardo possa pregiudicare in modo definitivo l’interesse tutelando rendendo “inutiliter data” la pronuncia favorevole -, trovava infatti un solido aggancio nel testo normativo che era stato innovato – rispetto a quello precedente nel quale era del tutto assente la disciplina della impugnazione del provvedimento – dal D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, art. 27, comma 1), lett. f), intervenuto a sostituire del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 19, il comma 9 e che aveva espressamente previsto che “In caso di rigetto, la Corte d’Appello decide sulla impugnazione entro sei mesi dal deposito del ricorso”.

Le Sezioni Unite hanno disatteso la interpretazione fornita dalle Sezioni semplici (Corte Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 17420 del 13/07/2017), secondo cui la nuova disposizione era intesa soltanto a stabilire i termini e non anche la forma dell’atto di impugnazione, statuendo in contrario che l’espresso riferimento contenuto nella norma 1- alla forma del “ricorso” per l’atto introduttivo dell’appello e 2 – alla modalità procedimentale del “deposito”, quale atto necessario a realizzare la “vocatio in jus”, disvelassero la “intentio legis” di volere disciplinare -innovando al precedente regime- proprio la forma dell’atto di appello e la modalità di introduzione del giudizio di secondo grado con ricorso.

Orbene una analoga situazione, avuto riguardo all’elemento testuale della norma di cui all’art. 702 quater c.p.c., oggetto di esame, non è dato riscontrare, posto che tale disposizione si limita a prevedere che l’ordinanza resa dal Giudice in primo grado è suscettibile di acquistare efficacia di giudicato sostanziale “se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione”, rimanendo quindi del tutto impregiudicata la soluzione interpretativa da fornire alla disposizione richiamata, non evincendosi dal testo legislativo alcuna indicazione idonea a richiamare il ricorso o la modalità di formazione successiva della “vocatio in jus”.

2.11 La sentenza delle SS.UU. del 2017, peraltro, riafferma saldamente il principio per cui la conversione della irrituale forma dell’atto introduttivo del giudizio di appello, quale espressione del generale principio di conservazione degli atti giuridici, non esonera la parte dalla osservanza del termine stabilito a pena di decadenza in quanto “quando il legislatore regola l’esercizio del diritto di impugnazione prescrivendo che l’atto di esercizio debba realizzare la “presa di contatto” con il giudice, e quando lo regola prescrivendo invece che detto atto debba realizzare la “presa di contatto” con la controparte tramite la notificazione la prescrizione della forma da osservare entro il termine di impugnazione è fatta a pena di inammissibilità, il che implica che l’onere formale è relativo ad un’attività che indefettibilmente doveva compiersi nel termine la ragione è che l’osservanza del termine è essa stessa parte della forma voluta dal legislatore Solo in tal caso l’atto di esercizio del diritto di impugnazione non rispettoso delle forme quoad contenuto raggiunge lo scopo per cui si doveva compiere l’atto con la forma corretta e, dunque, lo scopo di esercitare validamente il diritto di impugnazione (appunto nel termine previsto dalla legge)…” (in motivazione, paragr. 2.2.). Il Procuratore Generale dubita del carattere meramente assiomatico di tali affermazioni in quanto, non terrebbero in considerazione, da un lato, che con l’irrituale deposito dell’atto – ricorso la parte avrebbe comunque instaurato il contatto con il Giudice e dunque avrebbe definitivamente manifestato la propria volontà di agire in giudizio per ottenere il provvedimento richiesto; dall’altro che collegare la sanatoria al rispetto del termine di decadenza finirebbe per attribuire alla prima “un contenuto evanescente” in quanto “l’errore nella forma non sarebbe mai emendabile se non rispettando al regola dell’atro atto, ossia applicando la regola esatta, il che contraddice il concetto stesso di sanatoria dell’atto non valido”.

2.12 Osserva il Collegio che la pronuncia delle Sezioni Unite n. 17420/2017 ha inteso meditatamente optare per la soluzione adottata disattendendo la tesi dottrinaria (minoritaria) che – sull’assunto del carattere definitivo della scelta compiuta dalla parte, nella specie con il deposito dell’atto introduttivo erroneamente qualificato come ricorso – sostiene la assoluta equipollenza dell’atto-ricorso a produrre in ogni caso l’effetto della regolare instaurazione del giudizio impugnatorio, indipendentemente dalla successiva notificazione alla controparte. Le Sezioni Unite hanno infatti posto in correlazione la instaurazione del giudizio di seconde cure con l’osservanza del termine di decadenza qualificando quest’ultimo come elemento “indefettibile” della disciplina formale dell’atto di impugnazione, sicchè la conversione nella forma della citazione viene necessariamente ad implicare anche il rispetto dell’elemento “formale” cronologico previsto per qual tipo di atto. E tale soluzione si pone in relazione di continuità con il principio, più volte affermato, secondo cui “l’inammissibilità non è la sanzione per un vizio dell’atto diverso dalla nullità, ma la conseguenza di particolari nullità dell’appello e del ricorso per cassazione, e non è comminata in ipotesi tassative ma si verifica ogniqualvolta – essendo l’atto inidoneo al raggiungimento del suo scopo (nel caso dell’appello, evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado) – non operi un meccanismo di sanatoria” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 16 del 29/01/2000; id. Sez. 1-, Sentenza n. 18932 del 27/09/2016).

Orbene l’elemento cronologico fissato dal legislatore per la impugnazione ha il duplice scopo: a) di instaurare il giudizio; b) di impedire il passaggio in giudicato della sentenza.

Quanto al primo scopo il raggiungimento del risultato può essere diversificato dalla norma positiva in relazione allo schema procedimentale che produce l’effetto processuale della pendenza della lite (art. 39, comma 3, c.p.c., come deve ritenersi ormai chiaramente definito, nel caso di citazione o ricorso, nel testo modificato dalla L. n. 69 del 2009). Al proposito le modalità scelte dal Legislatore possono essere le più varie, come è agevole evincere da una rapida ricognizione delle norme del codice di rito: atto di citazione, prima notificato alla parte convenuta in giudizio e poi depositato presso l’Ufficio giudiziario adito (art. 163 c.p.c, comma 1 e art. 165 c.p.c.; art. 342 c.p.c, comma 1 e art. 347 c.p.c, comma 1; art. 615 c.p.c, comma 1); ricorso, prima notificato alla parte intimata e poi depositato presso l’Ufficio giudiziario (art. 360 c.p.c, comma 1 e art. 369 c.p.c, comma 1); ricorso, prima depositato presso l’Ufficio giudiziario e poi notificato – unitamente al decreto in calce di fissazione della udienza – alla parte destinataria (art. 414 c.p.c, comma 1 e art. 415 c.p.c, comma 4; art. 433 c.p.c, comma 1 e art. 434 c.p.c, comma 2; art. 615 c.p.c, comma 2; art. 633 c.p.c, comma 1, art. 638 c.p.c, commi 1 e 3 e art. 643 c.p.c, comma 2 – ma in deroga all’art. 39 c.p.c, comma 3, la pendenza della lite si determina al momento della notifica: art. 643 c.p.c, comma 3; art. 669 bis c.p.c., art. 669 ter c.p.c, comma 4, art. 669 sexies c.p.c.; art. 737 c.p.c.). La distinzione tra le due soluzioni – che conducono entrambe alla costituzione del rapporto processuale – è data soltanto dal fatto che, nel primo caso, è il momento in cui la domanda viene consegnata e portata ad effettiva conoscenza della parte convenuta (vocatio in jus) che determina la introduzione della lite, al tempo stesso realizzandosi attraverso tale attività di partecipazione il contraddittorio tra le parti; mentre, nel secondo caso, l’effetto della pendenza della lite è raggiunto attraverso il deposito dell’atto presso l’Ufficio, ossia attraverso una attività volta a partecipare all’organo della giurisdizione la manifestazione di volontà diretta ad ottenere il provvedimento a tutela dell’interesse giuridico vantato (editio actionis), indipendentemente dalla realizzazione del contraddittorio tra le parti che viene differita ad un tempo successivo.

E’ evidente come in entrambe le ipotesi predette, la mera notifica della citazione – non seguita dal deposito dell’atto al momento della costituzione – così come il mero deposito del ricorso – non seguito dalla notificazione dell’atto e del pedissequo decreto di fissazione della udienza, non fanno insorgere alcun obbligo del Giudice di pronuncia sulla domanda, difettando in tali casi una condizione di procedibilità del giudizio: nel primo caso non venendo il Giudice neppure a conoscenza della avvenuta proposizione di una domanda; nel secondo caso essendo totalmente difettata la condizione della “vocatio in jus”, ossia quell’effetto che – ancor prima della realizzazione della contraddittorio determina in capo al destinatario della notifica la conoscenza della esistenza di una domanda giudiziale formulata nei suoi confronti.

2.13 Ferme tali considerazioni, si tratta di accertare se, nel caso in cui la parte che introduce il giudizio, anzichè notificare la citazione, abbia depositato presso l’Ufficio giudiziario un atto che soddisfa oppure no ai medesimi requisiti strutturali dell’atto di citazione, debba o meno osservare il termine stabilito dalla legge a pena di decadenza per la introduzione del giudizio, tenuto conto che la sanatoria opera per le nullità (art. 156 c.p.c., commi 2 e 3) ma non per il decorso del termine perentorio. Nella specie non vengono in questione i vizi di invalidità – nullità relativi ai vizi strutturali dell’atto concernenti i suoi requisiti essenziali (artt. 125 e 163 c.p.c.), ma i vizi funzionali, che sono direttamente relazionati allo scopo ad esso assegnato.

La scelta del Legislatore della modalità di instaurazione del giudizio di impugnazione, comporta che, entro il termine previsto dalla legge, deve essere realizzato il risultato predeterminato dalla norma che, nel caso della introduzione del giudizio mediante atto di citazione, consiste nel compimento di tutte le attività, ricadenti nella sfera di controllo della parte, dirette a portare ad effettiva conoscenza dell’altra parte i motivi della critica formulata alla sentenza: non è quindi sufficiente ad impedire il decorso del termine di decadenza portare a conoscenza dell’organo giudiziario adito la manifestazione di volontà di impugnare la sentenza. In sostanza non può configurarsi una equipollenza degli effetti processuali nel portare l’atto di impugnazione a conoscenza di uno qualsiasi dei due destinatari del rapporto processuale (parte appellata o intimata, oppure soltanto il Giudice), occorrendo invece necessariamente – onde conseguire l’effetto impeditivo della decadenza – procedere alla notifica della impugnazione all’altra parte. Specularmente, qualora la forma prescritta dalla legge è il ricorso e venga, invece, notificato l’atto di citazione, non si ha alcuna equipollenza rispetto all’effetto impeditivo del termine decadenziale se l’atto di impugnazione non pervenga comunque nel termine all’organo giudiziario.

La sanatoria del contenuto-forma della impugnazione (per difetto di uno dei requisiti di cui all’art. 163 c.p.c.), va quindi tenuta distinta dalla osservanza del termine perentorio: tanto l’atto di impugnazione esente da vizi formali quanto l’atto affetto da vizi di invalidità-nullità sanabile (del quale sia eventualmente disposta la rinnovazione con salvezza degli effetti processuali e/o sostanziali “ex tunc”), debbono in ogni caso risultare idonei ad impedire la decadenza, e tale scopo conseguono soltanto se pervenuti, entro il termine previsto dalla legge, alla conoscenza della parte (citazione) o del Giudice (ricorso).

La modalità prescritta per l’impedimento della decadenza, che richiede la partecipazione dell’atto di impugnazione ad un determinato soggetto – dal rapporto processuale – ed a quello soltanto, non si traduce, pertanto, nel rischio di rendere evanescente la sanatoria dei vizi di nullità dell’atto di impugnazione, operando la conseguenza della inammissibilità (dipendente dalla errata individuazione del soggetto destinatario dell’atto introduttivo), su un piano distinto da quello della sanabilità della invalidità dell’atto.

Ipotizzare la piena equipollenza della partecipazione dell’atto di impugnazione, indifferentemente, ad uno qualsiasi degli altri soggetti del rapporto processuale, renderebbe priva di qualsiasi portata prescrittiva le norma che compendia la scelta voluta dal Legislatore di collegare ad una fattispecie processuale piuttosto che ad un’altra la produzione dell’effetto impeditivo della decadenza: con la conseguenza che una volta ammessa la assoluta interscambiabilità degli elementi della fattispecie processuale neppure più dovrebbe allora attribuirsi rilievo alla esigenza di una sanatoria del vizio formale mediante conversione dell’atto di impugnazione irritualmente proposto, in quanto verrebbe meno alla radice la stessa configurabilità di una difformità tra la fattispecie legale e quella concreta (ricorso depositato al Giudice, invece che citazione notificata alla parte).

Ritiene dunque il Collegio di dovere aderire alla impostazione delle Sezioni Unite del 2017 risultando peraltro tale orientamento, ulteriormente confermato dalla giurisprudenza, anche successiva, che esclude – ai fini della verifica della osservanza del termine di decadenza – qualsiasi rilevanza del comportamento degli uffici giudiziari, discendendo la fattispecie decadenziale dalla legge, sicchè si è ritenuto (in materia di appello erroneamente proposto con ricorso, anzichè con atto di citazione) che non rileva, in senso ostativo alla maturazione della decadenza, la circostanza che il decreto di fissazione dell’udienza sia stato emesso e comunicato dopo lo spirare del relativo termine, non potendo la parte, in ordine ad eventuali elementi di fattispecie sananti che non sono nella propria disponibilità, “pretendere che l’Ufficio provveda in tempi sufficienti a garantire la sanatoria” (cfr. Corte cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 12413 del 17/05/2017; id. Sez. 2 -, Sentenza n. 1023 del 17/01/2018 – con riferimento al ricorso da proporre mediante notifica e poi deposito avverso i provvedimenti sanzionatori irrogati da Consob-; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 22256 del 13/09/2018 – in tema di appello -).

2.15 Di fronte ad un quadro giurisprudenziale assolutamente consolidato che, in assenza di espressa disciplina della forma, riconduce l’atto di impugnazione allo schema processuale della introduzione del giudizio con atto di citazione (con specifico riferimento all’art. 702 quater c.p.c.: Corte cass. Sez. VI-1, 26 giugno 2014, n. 14502; Corte Cass. 15 dicembre 2014 n. 26326; id. Sez. VI-1, 11 settembre 2015, n. 18022; id. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 22387 del 02/11/2015; id. Sez. 2, Sentenza n. 7712 del 19/04/2016; id. Sez. VI-1, 6 luglio 2016, n. 13815; id. Sez. VI-2, 16 gennaio 2017, n. 877; id. Sez. 3, Ordinanza n. 9958 del 20/04/2017; id. id. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 5840 del 08/03/2017; id. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11331 del 09/05/2017; id. Sez. 1 -, Ordinanza n. 8757 del 10/04/2018 -che specifica ulteriormente come non sia possibile, nel caso di appello introdotto mediante ricorso, la salvezza degli effetti dell’impugnazione, mediante lo strumento del mutamento del rito, previsto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, comma 5, trattandosi di disposizione che riguarda solo il primo grado di giudizio-; id. Sez. 2 -, Ordinanza n. 24379 del 30/09/2019), viene meno anche la possibilità di configurare, in relazione alla fattispecie in esame, tanto la ipotesi dell’errore per fatto non imputabile alla parte – determinato da incertezze insorte a causa della equivocazione formulazione del testo normativo e da contrasti rilevabili nelle prassi giudiziarie e nella giurisprudenza -, quanto la ipotesi del cd. “overruling” quale sopravvenuto mutamento, rispetto al giudizio già in corso, di un precedente orientamento stabilizzatosi in ordine alla interpretazione della norma processuale, fenomeni i quali soltanto potrebbero legittimare una rimessione in termine della parte incolpevole.

2.16 La ricostruzione dello schema introduttivo del giudizio di appello previsto dall’art. 702 quater c.p.c., secondo le forme “ordinarie” dell’atto di citazione, è insuscettiva di determinare alcun pregiudizio al diritto di difesa, nè tanto meno impedisce alla parte di agire in giudizio a tutela di un suo interesse giuridico: l’elemento ostativo non è dato dalla forma dell’atto introduttivo, ma dalla norma che prescrive un termine di decadenza entro cui quell’atto deve essere compiuto ossia deve realizzare il risultato (portare a conoscenza dell’altra parte l’atto di impugnazione) al quale la legge ricollega l’effetto impeditivo della decadenza e dunque l’effetto impeditivo del passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

In ogni caso, come esattamente rilevato dal Procuratore Generale, non vi è spazio nel caso di specie per una rimessione della questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE.

Al proposito valgono le considerazioni di seguito svolte.

Occorre premettere che il “rispetto dei diritti di difesa”, nel che si sostanzia il “diritto al contraddittorio” nonchè il diritto ad un “processo equo” (costantemente declinato nel senso che “una norma di procedura nazionale non deve essere tale da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”: Corte di giustizia UE sente za 15.3.2017, causa C-3/16, Aquino; id. sentenza 13.12.2017, causa C- 403/16, Soufiane EI Hassani) costituisce principio fondamentale del diritto dell’Unione in qualsiasi procedimento, ed è attualmente sancito dagli artt. 47, paragr. 1 e 2 e 48, paragr. 2, della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea (o Carta di Nizza) proclamata il 7.12.2000 ed adottata a Strasburgo il 12.12.2007, ed indirettamente tutelato anche dall’art. 41 della medesima Carta, risolvendosi il “diritto ad una buona amministrazione” nel diritto di ogni individuo ad essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo (cfr. Corte Giustizia UE sentenze n. 746/2008, causa C-349/07 Sopropè; n. 744/2012, causa C-277/11, M.M.; 3.7.2014, causa C-129 e 130/13, Kamino International Logistic BV).

Occorre ancora premettere che il diritto ad un “processo equo”, sotto il profilo del diritto all’accesso ad un Tribunale, trova altresì immediata tutela anche nell’art. 6, paragr. 2, CEDU che, “nel significato e nella portata” attribuiti alla norma convenzionale dalla giurisprudenza della Corte EDU, trova ingresso nell’ordinamento comunitario in virtù del rinvio operato dall’art. 52, paragr. 3, CDFUE.

Orbene la questione – prospettata dai ricorrenti- della incompatibilità della norma processuale interna dell’art. 702 quater c.p.c., con il principio generale di tutela giurisdizionale effettiva, sancito dall’art. 47, paragr. 1 della CDFUE, è da ritenersi del tutto irrilevante, in quanto nella fattispecie controversa – oggetto del giudizio deciso al Giudice di merito – non vengono in diretta applicazione norme attributive di diritti di fonte comunitaria.

Occorre osservare, infatti, che le norme della Carta dei diritti fondamentali, che “ha lo stesso valore giuridico dei trattati” (art. 6, paragr. 1 TUE), “non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati” (art. 6, paragr. 1, TUE), e la stessa Carta prevede, all’art. 51, paragr. 1, che le sue disposizioni trovano applicazione a tutti gli Stati membri “esclusivamente nella attuazione del diritto dell’Unione” e nell’ambito delle competenze attribuite all’Unione, come definite nei trattati. Al riguardo è da ritenere assolutamente univoca la giurisprudenza della Corte di giustizia UE, secondo cui la verifica pregiudiziale di compatibilità di una normativa nazionale con i principi della Carta non può essere compiuta laddove la materia disciplinata dalla normativa nazionale non rientri nell’ambito del diritto dell’Unione (cfr.: Corte giustizia sentenza in data 5.10.2010, causa C-400/10, J.McB.; sentenza in data 12.11.2010, causa C-399/10, Krasimir; 15.11.2011, causa C-256/11, Dereci; sentenza in data 14.12.2011, causa C-483 e 484/11, Boncea ed altri; ordinanza 12.7.2012, causa C-466/11, Currà ed altri; sentenza in data 26.2.2013, causa C-617/10, Akerberg-Fransson; sentenza in data 6.3.2014 causa C-206/13, Siragusa; ordinanza 15.4.2015, causa C-497/14, Burzio). E tale discrimine è costantemente ribadito anche dalle pronunce del Giudice delle Leggi e della Corte di legittimità (cfr. Corte costituzionale, sentenze nn. 348 e 349/2007; nn. 93, 138, 1987 e 196/2010; n. 1/2011; in data 11.3.2011 n. 80 che precisato come “la stessa Carta dei diritti, la quale, all’art. 51 (anch’esso compreso nel richiamato titolo VII), stabilisce, al paragrafo 1, che “le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”; recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della ricordata Dichiarazione n. 1… Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione Europea Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto Europeo in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.”. Cfr. da ultimo Corte cass. sez. II ord. interi. 16.2.2018 n. 3831).

Rimane, pertanto, preclusa alla parte ricorrente, in considerazione dei limiti entro cui deve svolgersi il sindacato di legittimità, la possibilità di un surrettizio ampliamento del “thema decidendum” attraverso lo strumento della questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE, tenuto conto altresì che, per consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia questa “può rifiutare di pronunciarsi su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale quando, in particolare, risulta manifestamente che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal giudice nazionale non ha alcuna relazione con la realtà o con l’oggetto della causa principale…” (cfr. Corte giustizia sentenza 7 gennaio 2003, causa C-306/99, BIAO punto 89, sentenza 7 dicembre 2010, causa C-439/08, VEBIC, punto 42; id. sentenza 20.10.2011, causa C- 396/09, Interedil s.r.l. in liq., punto 23; id. sentenza 5 luglio 2012, Geistbeck, C-509/10, punto 48).

In tal caso infatti le questioni pregiudiziali verrebbero ad incorrere nella dichiarazione di irricevibilità, come ripetutamente ribadito dalla Corte di giustizia UE (cfr. Corte di giustizia UE, sentenza 16.6.2015, in causa C-62/14, Gauweiler ed altri, punto 25, secondo cui “Il rifiuto della Corte di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora risulti in modo manifesto che l’interpretazione o l’esame di validità richiesto relativamente ad una norma dell’Unione non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto della controversia nel procedimento principale, oppure qualora il problema sia di natura ipotetica, o anche quando la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni che le vengono sottoposte (v., in tal senso, sentenza Melloni, C-399/11, EU:C:2013:107, punto 29 e la giurisprudenza ivi citata)…”; id. sentenza, in data 7.7.2016, causa C-447/15, Muladi; id. sentenza, in data 20.12.2017, causa C- 322/16, Global Starnet Ltd., punto 17).

Nella specie, infatti, la questione della effettività del diritto di difesa – che i ricorrenti assumono violato – verte su materia di obbligazioni restitutorie, essendo azionato il diritto di credito fondato su asserito rapporto di mutuo ed essendo richiesto l’accertamento della proprietà e la consegna di due autovetture, diritti che trovano compiuta disciplina nelle norme di diritto sostanziale dell’ordinamento interno.

La questione di diritto sostanziale oggetto della controversia, non interessa quindi materia devoluta alla competenza normativa degli organi dell’Unione Europea, non venendo, pertanto, in questione nella fattispecie alcuna necessità di sottoporre alla Corte di Giustizia la verifica di compatibilità dell’istituto processuale interno con le norme della Carta dei diritti fondamentali della UE, alla stregua della interpretazione delle stesse fornita dal Giudice di Lussemburgo, atteso che detta norma processuale, nel caso concreto sottoposto all’esame di questa Corte, non impedisce nè ha impedito -in quanto si palesa del tutto indifferente – la attuazione del diritto comunitario nella materia oggetto della controversia.

2.17 Non sussiste neppure la esigenza, prospettata dal PG, di sottoporre la norma processuale al sindacato di legittimità costituzionale, per non manifesta infondatezza della violazione di norma interposta (art. 47 CDFUE; art. 6 CEDU), in relazione ai parametri degli artt. 24 e 117 Cost..

Nella specie, infatti, occorre prendere le mosse dalla uniformità nomofilattica garantita dalla interpretazione della norma processuale fornita dal Giudice di legittimità fin dalla prima applicazione della stessa ininterrottamente ribadita fino ad oggi senza alcun -neppure isolato – dissenso o dubbio sulla soluzione adottata, ritenuta e da ritenere conforme ai principi costituzionali dell’effettività del diritto di difesa, inteso quale possibilità effettiva di poter agire a tutela di un proprio interesse giuridico avanti ad un organo giudiziario dello Stato, concretato nell’accezione di tale diritto ricevuta dalla interpretazione data dalla Corte EDU.

Non vi è dubbio che la verifica di non manifesta infondatezza del sospetto di illegittimità costituzionale per violazione delle norme interposte (art. 47 CDFUE e art. 6 CEDU), non può che essere condotta alla stregua della portata precettiva di quelle norme, sicchè ove da tale esame non vengano in evidenza applicazioni della norma processuale sospettata incompatibili con gli obiettivi od i presupposti presi in considerazione dalle norme interposte, il sospetto deve ritenersi manifestamente infondato.

Orbene vale richiamare la tralatizia giurisprudenza del Giudice di Lussemburgo che, se come sopra rilevato concerne esclusivamente controversie relative a diritti riconosciuti direttamente dall’ordinamento comunitario, è però certamente utilizzabile ai fini della indagine sull’accertamento della consistenza minima da assicurare al diritto che la domanda di tutela sia esaminata da un giudice imparziale, ossia a quello che in modo più sintetico può esser definito il diritto ad avere un processo.

Detta giurisprudenza è compendiata efficacemente nelle motivazioni del precedente della Corte di Giustizia UE, sentenza 28 febbraio 2013, causa C-334/12 RX-II, Arango Jaramillo ed altri c/ BEI laddove, in termini generali, è affermato che “il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, attualmente sancito dall’art. 47 della Carta (v. sentenza dell’8 dicembre 2011, KME Germany e a./Commissione, C-389/10 P, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 119 e giurisprudenza ivi citata). 41. A tal riguardo, l’art. 47, comma 1, della Carta prevede che ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel suddetto articolo. A termini del comma 2 del medesimo articolo, ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. 42. Secondo le spiegazioni relative a tale articolo, le quali, conformemente all’art. 6, paragrafo 1, comma 3, TUE e all’art. 52, paragrafo 7, della Carta, debbono essere prese in considerazione per l’interpretazione di quest’ultima, l’art. 47, comma 1, della Carta è fondato sull’art. 13 della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la “CEDU”), ed il comma 2 dello stesso art. 47 corrisponde all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. 43. Risulta dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo relativa all’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, alla quale occorre fare riferimento conformemente all’art. 52, paragrafo 3, della Carta, che il diritto ad un Tribunale non è assoluto. L’esercizio di tale diritto si presta a limitazioni, segnatamente per quanto riguarda le condizioni di ricevibilità di un ricorso. Se da un lato gli interessati devono aspettarsi che tali regole siano applicate, dall’altro, l’applicazione che ne viene effettuata non deve tuttavia impedire ai singoli di avvalersi di un mezzo di ricorso disponibile (v., in tal senso, Corte eur. D. U., sentenza Anastasakis c. Grecia del 6 dicembre 2011, ricorso n. 41959/08, non ancora pubblicata nella Raccolta delle sentenze e delle decisioni, p. 24).”

Tenendo in considerazione il principio della “protezione equivalente” secondo il quale l’esistenza nell’ambito UE di garanzie sostanziali e di meccanismi di controllo della loro osservanza consente di presumere che una condotta attuata da uno Stato membro in conformità di obblighi derivanti dal diritto dell’Unione sia assistita da una tutela dei diritti fondamentali equivalente a quella riconosciuta dalla CEDU – La Corte di Giustizia UE ha individuato i limiti entro i quali la previsione di termini di decadenza per l’esercizio dell’azione giudiziaria può ritenersi compatibile con il principio di effettività della tutela, in quanto mezzo da ritenersi proporzionato rispetto al perseguimento di un apprezzabile scopo, osservando “che ciascun caso in cui si pone la questione se una norma procedurale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto dell’Unione dev’essere esaminato tenendo conto del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali. Sotto tale profilo si devono considerare segnatamente, se necessario, la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento (v., in tal senso, sentenza dell’11 novembre 2015, Klausner Holz Niedersachsen, C-505/14, EU:C:2015:742, punto 41 e giurisprudenza ivi citata)”, ed ancora che, a tal fine, “quanto ai termini di decadenza, la Corte ha parimenti affermato che spetta agli Stati membri determinare, per le normative nazionali che rientrano – nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, termini in funzione, segnatamente, della rilevanza che le decisioni da adottare rivestono per gli interessati, della complessità dei procedimenti e della legislazione da applicare, del numero di soggetti che possono essere coinvolti e degli altri interessi pubblici o privati che devono essere presi in considerazione (v., in tal senso, sentenza del 29 ottobre 2009, Pontin, C-63/08, EU:C:2009:666, punto 48)”. (cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza, 20 ottobre 2016, causa C429/15, Evelyn Danqua c/ Minister for Justice and Equality (Ireland)).

Sulla stessa linea si colloca la giurisprudenza della Corte EDU secondo cui il “diritto all’accesso” ad un Tribunale, che trova fondamento nell’art. 6 della Convenzione EDU, non è assoluto, potendo essere condizionato a limiti implicitamente ammessi che, tuttavia, non debbono restringere il diritto di accesso ad un tribunale spettante all’individuo, in maniera tale o al punto che il diritto risulti compromesso nella sua stessa sostanza, e sempre che i limiti predetti perseguano uno scopo legittimo e sussista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (cfr. Corte EDU sentenza 28 marzo 2006, ric. 23436 Melnyk c/ Ukraine; Corte EDU sentenza 29 giugno 2011, Sabeh EI Leil v. France (GC), no. 34869/05, p. 47; Corte EDU sentenza 4 febbraio 2014 ric. 29932/2007 causa Mottola e altri c/ Italia; Corte EDU, sentenza, 5 aprile 2018, Zubac v. Croatia (GC), no. 40160/12, p. 78).

Orbene fermo il principio per cui la interpretazione delle norme processuali degli Stati aderenti non può trasmodare nella imposizione alle parti di oneri tali da renderne impossibile la osservanza, dovendosi evitare nell’attività interpretativa ogni eccessivo e rigido formalismo, senza che ciò tuttavia debba comportare, per eccesso, il disconoscimento dei requisiti formali prescritti dalle norme processuali (Corte EDU, sentenza 31 gennaio 2017, ric. 19074/05, Hasan Tunc and others c/ Turkey), occorre considerare che tra gli scopi che legittimano in particolare la previsione di termini di decadenza vi è quello di assicurare il corretto ed efficiente funzionamento della amministrazione della giustizia nonchè quello di garantire la certezza del diritto, in funzione del quale viene ad assumere carattere precipuo il meccanismo che collega al decorso del tempo la formazione della cosa giudicata (Corte EDU, sentenza 12 luglio 2018, causa Kamenova c/ Bulgaria).

2.18 La convergente giurisprudenza delle Corti internazionali, consente di escludere la paventata illegittimità costituzionale dell’art. 702 quater c.p.c., in relazione alla interpretazione concernente la forma dell’atto di impugnazione che ne ha dato questa Corte di legittimità, in quanto:

– La forma dell’atto e lo schema procedimentale di introduzione del secondo grado, in quanto ricavata dal sistema generale della impugnazione di appello, non impone alla parte alcun onere formale talmente gravoso da impedire l’accesso alla revisione della ordinanza impugnata

– Il termine di decadenza previsto dalla norma di cui all’art. 702 quater c.p.c. – in ordine al quale peraltro non viene formulata alcuna contestazione da parte del PG e dei ricorrenti – corrisponde al medesimo termine di decadenza previsto per l’appello ordinario ex art. 325 c.p.c., comma 1, non potendo quindi ravvisarsi nello schema procedimentale introduttivo del secondo grado – che richiede la notificazione anticipata dell’atto di impugnazione rispetto al suo deposito in Cancelleria – un maggiore aggravio di attività rispetto allo schema ordinario (sulla compatibilità dell’indicato termine con l’art. 6 CEDU cfr. Corte Cass. Sez. L -, Sentenza n. 28406 del 28/11/2017).

– Lo schema in questione, che deve essere perfezionato entro il termine di decadenza, risponde al legittimo scopo di garantire la stabilità delle decisioni non impugnate entro un determinato periodo, decorrente dalla conoscenza del provvedimento decisorio di primo grado, che l’ordinamento nazionale riconosce adeguato ai fini di una ponderata determinazione della parte interessata: non può dunque essere condivisa l’affermazione dei ricorrenti secondo cui la scelta – errata – della forma introduttiva della impugnazione, non determinando alcun pregiudizio agli interessi della controparte potrebbe e dovrebbe essere sempre sanata, indipendentemente dalla modalità con la quale è determinata la pendenza della lite, sia perchè la controparte ha un proprio interesse eguale e contrario – a conseguire, invece, la definitività dell’assetto di interessi stabilito nel provvedimento di prime cure; sia in quanto la pendenza della lite è una conseguenza che la legge ricollega ad una determinata attività processuale, e dunque non rileva ai fini dell’impedimento della decadenza, posto che nel termine predetto deve essere compiuta quell’attività che è specificamente richiesta (rendere conoscibile l’atto di impugnazione alla controparte), essendo irrilevante che anche attraverso un’altra e diversa attività (deposito dell’atto di impugnazione) possa determinarsi una pendenza della lite.

Non è dato neppure ipotizzare, avuto riguardo alla peculiare situazione concreta, che la interpretazione fornita dalla Corte di legittimità all’art. 702 quater c.p.c., possa aver sorpreso o comunque posto in difficoltà la parte nel predisporre tempestivamente l’attività organizzativa e difensiva necessaria a garantire l’effettivo accesso alla istanza superiore, atteso che -come è stato rilevato – la soluzione interpretativa data era risalente, essendo emersa fin dalla prima applicazione della norma processuale e, pertanto, come afferma la Corte EDU, le parti del procedimento sommario di cognizione dovevano aspettarsi che quella regola sarebbe stata ancora applicata (Corte EDU, sentenza, Miragall Escolano and Others v. Spain, nos. 38366/97 and 9 others, p. 33, ECHR 2000E1; Corte EDU, sentenza, L’Erabliere A.S.B.L. v. Belgium, no. 49230/07, p. 37, ECHR 2009).

3. In conclusione, non dovendo procedersi a rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, nè a rimessione della causa per il sindacato di costituzionalità in relazione ai parametri di cui agli artt. 24 e 117 Cost., il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020

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