Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.278 del 09/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 27418/17 proposto da:

F.M., elettivamente domiciliato in Taurianova, via Giorgio Perlasca n. 4, presso l’avv. Francesco Oppedisano, che lo rappresenta e difende per procura apposta in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Reggio Calabria;

– intimata –

avverso il decreto della Corte d’appello di Reggio Calabria 9 ottobre 2017 n. 6665;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25 ottobre 2019 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. I coniugi F.M. e D.A., genitori dei minori F.F. e F.D. (la cui età non è indicata nel ricorso) chiesero al Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria il permesso di soggiorno temporaneo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3.

Il ricorso non indica quali fatti vennero dedotti, nell’atto introduttivo del presente giudizio, a fondamento di tale istanza.

2. L’istanza venne rigettata dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria con decreto 31.5.2016, il quale fu reclamato dalle parti istanti.

La Corte d’appello di Reggio Calabria con decreto 9.10.2017 accolse parzialmente il reclamo, osservando che:

-) i minori avevano raggiunto uno “stabile ed armonico” sviluppo psicofisico, che sarebbe stato turbato nel caso di rientro nel Paese di origine di entrambi i genitori;

-) F.M., però, era stato condannato a sei anni di reclusione con sentenza non definitiva per il delitto di violenza sessuale in danno della figlia unilaterale della compagna;

-) tale circostanza avrebbe impedito “con ogni verosimiglianza” a F.M. di ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato; e comunque la concessione di un permesso temporaneo D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 31, comma 3, “non sarebbe utile a risolvere la situazione dei minori coinvolti”.

Sulla base di questi rilievi la Corte d’appello accordò alla sola madre dei minori, D.A., un permesso temporaneo sino al 31 dicembre 2018, e rigettò l’appello proposto dal padre.

3. Ricorre ora per cassazione avverso tale decreto F.M., con ricorso fondato su due motivi.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3; di vari articoli della convenzione di New York sui diritti del fanciullo; dell’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritto dell’uomo; dell’art. 8 della CEDU; dell’art. 30 Cost., nonchè il vizio di “contraddittoria motivazione”.

Al di là di tali riferimenti normativi – non tutti, e non del tutto, pertinenti -, l’illustrazione del motivo accomuna con tecnica scrittoria disorganica varie censure, che possono essere così dipanate:

a) i figli minori del ricorrente patirebbero “un sicuro danno”, che potrebbe “porre in serio pericolo uno sviluppo psicofisico armonico compiuto”, per effetto dall’allontanamento del padre, il quale li aveva “sempre accuditi con attenzione ed affetto”;

b) la Corte d’appello ha trascurato di valutare questo pericolo;

c) in ogni caso il minore vanta un vero e proprio diritto perfetto alla “bigenitorialità”, diritto che verrebbe leso dalla mancata concessione del permesso di soggiorno temporaneo al padre.

1.2. Il motivo è, in primo luogo, inammissibile per difetto di specificità in merito al presupposto processuale dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.).

Un interesse del ricorrente ad ottenere la cassazione della sentenza impugnata, infatti, potrebbe ammettersi solo se egli fosse libero, e non fosse stato espulso in conseguenza dei delitti commessi.

Il ricorso, però, non riferisce varie circostanze decisive in tal senso, e cioè:

– se la condanna a sei anni di reclusione sia divenuta definitiva;

– se attualmente il ricorrente sia detenuto;

– se attualmente il ricorrente sia stato espulso.

In assenza di tali indicazioni, è impossibile per questa Corte stabilire se vi sia un interesse ex art. 100 c.p.c., del ricorrente alla cassazione del decreto impugnato. Se, infatti, la condanna fosse divenuta definitiva, è evidente che lo stato di detenzione impedirebbe l’assunzione delle responsabilità paterne, e i figli del ricorrente resterebbero comunque privi, per altra e indipendente causa, della figura del padre.

1.3. Il primo motivo di ricorso, lo si rileva comunque ad abundantiam, sarebbe altresì infondato nel merito, ove del merito si fosse potuto discorrere.

Al di là, infatti, delle questioni di fatto non prospettabili in questa sede (se l’odierno ricorrente sia un “buon padre”; se i suoi figli – dei quali il ricorso non si preoccupa di riferire a questa Corte l’età abbiano bisogno di lui per un sano sviluppo psicofisico), quel che rileva in iure è che la difesa del ricorrente mostra di ritenere che il solo fatto che il minore, in conseguenza dell’espulsione dei genitori o di uno di essi, sia esposto al rischio di staccarsi da loro o da lui, di per sè, giustificherebbe il rilascio del permesso di soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 31, comma 3.

Questa tesi non può essere condivisa, per plurime ragioni.

1.3.1. In primo luogo, non può essere condivisa per il paradosso cui condurrebbe.

Infatti qualsiasi espulsione di persona che abbia dei figli può provocare il distacco dell’espulso da questi ultimi, se decidesse di non portare con sè la prole. Di conseguenza, ritenere che il distacco da un genitore costituisca di per sè un “grave motivo” che, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, giustifichi il rilascio del permesso temporaneo ivi previsto, sarebbe un’interpretazione contraria alla logica formale, prima ancora che al diritto.

Sotto il primo profilo, la lettura che del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, dà il ricorrente condurrebbe ad un risultato paradossale, e cioè l’abrogazione de facto della norma, nella parte in cui stabilisce che il permesso ivi previsto sia concesso “per un periodo di tempo determinato”.

Di un vincolo affettivo tra il minore ed i suoi genitori, così come dell’eventuale “radicamento” del minore nel contesto sociale italiano, infatti, non si può predicare la temporaneità, poichè l’uno e l’altro sono tendenzialmente stabili, e comunque sine die.

Pertanto accordare il permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, al genitore di un minore che viva in Italia, ed accordarlo per il solo fatto che, altrimenti, il minore sarebbe costretto ad allontanarsi da uno dei due genitori, farebbe sì che mai quel genitore potrebbe essere espulso (almeno fino alla maggiore età del figlio), perchè sempre l’espulsione comporterebbe un trauma per il minore. Sicchè, interpretando la norma nel senso preteso dal ricorrente, essa verrebbe abrogata e riscritta, per tradursi in un precetto che suonerebbe così: “ha diritto al permesso di soggiorno qualunque genitore di qualunque minore che si trovi quomodolibet in Italia”. Una interpretazione, dunque, abrogatrice, ovviamente non consentita all’interprete.

Sotto il secondo profilo, poi, l’interpretazione dell’art. 31 D.Lgs. cit. propugnata dal ricorrente è già stata rigettata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorchè ritennero “inaccettabile la funzione attribuita all’art. 31, comma 3, da una parte della giurisprudenza di merito e da alcuni studiosi (di) impedire detto allontanamento (del minore) per tutta la durata della minore età, o (secondo altre decisioni) per la durata dell’intero percorso scolastico” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 21799 del 25/10/2010, p. 5 dei “Motivi della decisione”). Ai fini del rilascio del permesso in esame è invece sempre necessario – proseguono le SSUU – innanzitutto che “tra il minore ed il genitore espulso sussista – e sia documentato – un rapporto affettivo significativo idoneo a giustificare l’inversione della regola generale secondo cui il figlio minore segue la condizione giuridica del genitore. Ciò impone al giudice minorile di accertare pregiudizialmente che la coesione familiare vi sia stata davvero e che nell’ambito di essa lo straniero richiedente abbia esercitato effettivamente a beneficio del figlio minore la propria funzione genitoriale, la cui improvvisa interruzione costituirebbe un nocumento irreversibile per il suo sviluppo psicofisico; ovvero, se si stratta di minore in tenerissima età (significativamente considerata una variabile dalla norma), che sussista la sua idoneità effettiva ad occuparsi del minore, ad allevarlo in un ambiente familiare idoneo a garantirne la crescita, nonchè a prendersi carico dei bisogni e dei problemi di lui”.

Circostanze tutte, quelle appena elencate, ritenute insussistenti dalla Corte d’appello, con giudizio di fatto non sindacabile in questa sede.

1.3.2. In secondo luogo, la tesi sostenuta dal ricorrente non può essere condivisa perchè si fonda sull’assunto – implicito, ma evidente – che l’interesse del minore all’integrità del nucleo familiare sia necessariamente, sempre e comunque recessivo rispetto all’interesse generale dello Stato al rispetto delle norme che regolano l’accesso ed il soggiorno sul suo territorio.

Ma l’interesse del minore all’unità familiare non è oggetto d’un un diritto assoluto, ma va bilanciato con altri diritti e regole dell’ordinamento, ed in particolare:

a) col principio di legalità;

b) con l’obbligo degli Stati membri di espellere chi soggiorna irregolarmente sul loro territorio, imposto da una norma comunitaria (l’art. 6, comma 1, della Direttiva 2008/115/UE, il quale stabilisce che “gli Stati membri adottano una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare”). Obbligo, per di più, che secondo la Corte di giustizia dell’Unione Europea è finalizzato a garantire la sicurezza pubblica, e tale fine “non può essere aggirato con condotte elusive” (Corte giust. UE, 15.2.2016, J.N., in causa C-601/15), quale di fatto diverrebbe la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno sol per avere generato in Italia un figlio, od averlo ivi condotto.

Il ricorrente, in definitiva, mostra di confondere il “diritto all’unità familiare” col “diritto all’unità familiare in Italia”: pretesa, quest’ultima, che non ha alcun fondamento giuridico.

1.3.3. In terzo luogo, la tesi sostenuta dal ricorrente contrasta con la consolidata giurisprudenza della Corte EDU, e di due sentenze in particolare.

La prima è la sentenza Corte EDU, 2.8.2001, Boultif c. Svizzera, la quale ha affermato che il diritto all’unità del nucleo familiare è recessivo rispetto alla disciplina attuale sull’immigrazione, “quando la vita familiare (…) si è sviluppata in un’epoca in cui le persone coinvolte sapevano che la situazione di una di loro riguardo alle regole sull’immigrazione era tale da far immediatamente comprendere che il mantenimento di questa vita familiare nello Stato ospite avrebbe assunto subito un carattere precario”.

E nel caso di specie il ricorrente mai, in nessun punto del proprio ricorso, indica questa fondamentale circostanza, e cioè se i suoi figli siano nati prima o dopo il suo ingresso illegale nel nostro Paese.

La seconda è la sentenza pronunciata da Corte EDU, 4.12.2012, Hamidovic c. Italia, nella quale si affermano due principi decisivi ai nostri fini, ovvero:

a) la CEDU “non garantisce, in quanto tale, il diritto di entrare o di risiedere sul territorio di uno Stato di cui non si è cittadini, e (…) gli Stati contraenti hanno il diritto di controllare, in virtù di un consolidato principio di diritto internazionale, l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri”;

b) l’art. 8 della CEDU “non comporta un obbligo generale per lo Stato di rispettare la scelta degli immigranti di risiedere sul suo territorio e di autorizzare il ricongiungimento familiare nel suo Paese”.

1.3.4. In quarto luogo, tutti i principi che precedono, oltre che dalla Corte EDU, sono già stati ripetutamente affermati da questa Corte, la quale ha già stabilito che, per i fini di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, i “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico” del minore (…) devono consistere in situazioni oggettivamente gravi, comportanti una seria compromissione dell’equilibrio psicofisico del minore, non altrimenti evitabile se non attraverso il rilascio della misura autorizzativa; la normativa in esame non può quindi essere intesa come volta ad assicurare una generica tutela del diritto alla coesione familiare del minore e dei suoi genitori. Sul richiedente l’autorizzazione incombe, pertanto, l’onere di allegazione della specifica situazione di grave pregiudizio che potrebbe derivare al minore dall’allontanamento del genitore” (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 9391 del 16/04/2018, Rv. 649062 – 01; nello stesso senso, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 26710 del 10/11/2017, Rv. 646566 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 25419 del 17/12/2015, Rv. 638177 – 01).

1.3.5. In quinto luogo, la tesi sostenuta dal ricorrente non può essere condivisa per l’evidente reductio ad absurdum cui essa condurrebbe. Se, infatti, si ritenesse che l’allontanamento d’un minore dall’Italia, o da uno dei suoi genitori, generi sempre e comunque un “grave nocumento o pericolo di nocumento” per il suo sviluppo psicofisico, si perverrebbe ai seguenti paradossi:

a) l’art. 31 verrebbe riscritto come se stabilisse: “chiunque abbia un figlio minore in Italia ha diritto di restarvi a tempo indeterminato”, con evidente travisamento della lettera e dello spirito della norma;

b) si fornirebbe il pretesto per pratiche fraudolente e senza scrupoli, quali il generare dei figli – e sinanche pianificarne la generazione – al solo scopo di aggirare o prevenire il rischio di espulsione;

c) il permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, finirebbe per non essere mai “temporaneo”, come vuole la legge, ma sarebbe sempre e giocoforza sine die, fino al raggiungimento della maggiore età del figlio del richiedente;

d) verrebbe artificialmente creato un inesistente “diritto di chi ha figli minori in Italia a restare in Italia”, che non trova fondamento in alcuna norma o principio;

e) si finirebbe per confondere il “grave nocumento”, richiesto dalla legge, col mero disagio, giuridicamente irrilevante, e si finirebbe per attribuire a quest’ultimo rilievo decisivo ai fini del rilascio del permesso di soggiorno.

2. Il secondo motivo.

2.1. Anche col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3; ed anche questo motivo racchiude varie censure fra loro embricate, così riassumibili:

a) la Corte d’appello ha negato il permesso di soggiorno sulla base di un illegittimo “automatismo”, in virtù del quale essendo stato l’odierno ricorrente condannato in sede penale in primo grado, egli sarebbe per ciò solo “socialmente pericoloso”;

b) la Corte d’appello ha trascurato di motivare in modo adeguato sulla pericolosità dell’odierno ricorrente;

c) la Corte d’appello ha adottato una motivazione contraddittoria, in quanto dapprima afferma che l’odierno ricorrente è dotato di adeguate capacità genitoriali, e che i suoi figli hanno raggiunto stabilità emotiva e adeguato sviluppo psicologico; poi, però, nonostante ciò ha negato all’odierno ricorrente il permesso di soggiorno temporaneo;

d) la Corte d’appello ha trascurato di prendere in esame la natura e l’effettività dei vincoli familiari esistenti tra l’odierno ricorrente ed i suoi figli, nonchè la durata del soggiorno sul territorio nazionale dell’odierno ricorrente;

e) la motivazione del provvedimento impugnato è “insufficiente, perchè la Corte d’appello ha motivato il rigetto della domanda solo in virtù dei precedenti penali del ricorrente”.

2.2. Tutte le censure appena riassunte possono essere divise in due gruppi: un primo gruppo di censure è fondato sul presupposto che la Corte d’appello abbia espresso un giudizio sulla “pericolosità sociale” dell’odierno ricorrente, ed investe tale statuizione; un secondo gruppo di censure investe la coerenza della motivazione del decreto impugnato.

2.3. Tutte le censure del primo gruppo sono inammissibili per estraneità alla ratio decidendi.

La Corte d’appello, infatti, sia pure con motivazione laconica, non si è affatto occupata della pericolosità sociale del ricorrente, ma ha solo ritenuto che la sua assenza non avrebbe provocato un grave pregiudizio ai suoi figli. E va da sè che oggetto del presente giudizio è la sussistenza dei “gravi motivi” connessi alla salute dei minori, non la pericolosità sociale del padre.

2.4. Anche le censure del secondo gruppo sono inammissibili.

Va premesso che la “contraddittorietà della motivazione”, dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134, può essere ancora censurata in sede di legittimità in un solo caso: quando “l’anomalia motivazionale (…) si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè”: e tale “violazione di legge costituzionalmente rilevante” può sussistere solo quando la motivazione contenga un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Nel caso di specie questo contrasto non sussiste.

Il permesso di soggiorno temporaneo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, non è infatti subordinato alla mera circostanza che la persona priva di permesso di soggiorno abbia un rapporto affettivo armonico col proprio figlio: gli spetterà, invece, soltanto se il suo allontanamento possa provocare un pregiudizio psicofisico al figlio, e sempre che tale pregiudizio sia “grave”.

Non vi è, pertnto, alcuna contraddizione tra il rilevare, da un lato, che i figli dell’odierno ricorrente abbiano sinora avuto uno sviluppo psicofisico “armonico”; e il negare, dall’altro, che l’allontanamento del padre possa recare pregiudizio a tale sviluppo.

3. Le spese.

3.1. Non è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, attesa la indefensio della parte pubblica.

3.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), a condizione che esso sia dovuto: condizione che non spetta a questa Corte stabilire. La suddetta norma, infatti, impone all’organo giudicante il compito unicamente di rilevare dal punto di vista oggettivo che l’impugnazione ha avuto un esito infruttuoso per chi l’ha proposta.

Incidenter tantum, rileva nondimeno questa Corte che ai sensi del D.Lgs. 30 maggio 2012, n. 115, non è soggetto al contributo unificato il processo “comunque riguardante la prole”, ed in tale categoria di giudizi rientra anche il presente.

PQM

la Corte di cassazione:

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto;

(-) visto il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 4, u.p., ed il p. 4.2 della Circolare del Primo Presidente di questa Corte n. 47/06/SG del 17.1.2006, dispone che i dati personali relativi ai minori di cui si fa menzione nella presente sentenza siano oscurati.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, il 25 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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