LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 20375/18 proposto da:
B.V., e E.Q., elettivamente domiciliati a Monteprandone, via San Giacomo 20, rappresentati e difesi dall’avv. Consuelo Feroci per procura apposta in margine al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Ancona;
– intimata –
avverso il decreto della Corte d’appello di Ancona 15 giugno 2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25 ottobre 2019 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.
FATTI DI CAUSA
1. B.V. e E.Q., coniugi e genitori dei minori Bl., E. e X., nel 2017 chiesero al Tribunale per i minorenni di ancona il permesso di soggiorno temporaneo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3.
A fondamento del ricorso invocarono (così si riferisce nel ricorso per cassazione, p. 4) “il diritto dei figli (minori) all’assistenza, da parte di entrambe (sic) i genitori, a mantenere i rapporti con gli stessi e riceverne le cure necessarie per una crescita serena”.
2. L’istanza venne rigettata con decreto 3.4.2018, reclamato dalle parti istanti.
La Corte d’appello di Ancona con decreto 15.6.2018 rigettò il reclamo, osservando che:
-) la richiesta dei ricorrenti non era affatto giustificata dalla “necessità di assicurare ai figli minori un armonico sviluppo in un ambiente che ne garantisca il benessere psicofisico”;
-) ambedue i ricorrenti, infatti, avevano numerosi precedenti di polizia ( E.Q. per furto, e B.V. per traffico di stupefacenti ed altri reati) e nessuno dei due lavorava;
-) tali condotte rendevano arduo ritenere che i ricorrenti avessero la volontà di integrarsi nella realtà italiana e rispettare regole di convivenza comune;
-) la richiesta dei ricorrenti non era fondata su esigenze temporanee;
-) il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, non stabilisce affatto che il nucleo familiare, sempre e comunque, debba restare unito, e debba restarlo in Italia;
-) i due ricorrenti erano entrati in Italia nel *****, sicchè il rientro in Albania, dove almeno due dei tre figli erano nati e cresciuti, non poteva per questi ultimi costituire un trauma.
3. Ricorrono per cassazione B.V. e E.Q. con ricorso fondato su quattro motivi.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo i ricorrenti lamentano (evidentemente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, sebbene il ricorso non qualifichi formalmente la censura proposta) la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3.
Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene plurime censure così riassumibili:
a) la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente valutato le conseguenze che i minori subirebbero in conseguenza dell’allontanamento dei genitori; in particolare non ha considerato che uno dei tre minori è nato in Italia, mentre gli altri due sono in età scolare (8 e 9 anni); che hanno sempre vissuto con i genitori; che negare ai genitori il permesso di soggiorno temporaneo significherebbe “espellere di fatto i minori”; che i bambini in tenera età possono sviluppare affetti anche in tempi relativamente brevi;
b) il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, mira a prevenire il disagio che si creerebbe dall’improvviso distacco del genitore a seguito della sua espulsione;
c) i gravi motivi richiesti dall’art. 31 D.Lgs. cit., per accordare il permesso temporaneo ai genitori del minore non devono necessariamente essere attuali, potendo essere anche futuri, e la Corte d’appello ha omesso qualsiasi giudizio pronostico sulla situazione del minore;
d) infine, i ricorrenti richiamano il precedente di questa Corte n. 19433 del 2017, secondo cui l’età prescolare del minore non solo non è una circostanza ostativa al rilascio del permesso temporaneo, ma è anzi una circostanza che la giustifica.
1.2. Il motivo è in parte inammissibile, ed in parte infondato.
Il motivo è innanzitutto inammissibile perchè censura un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità.
Infatti tutte le censure contenute nel primo motivo di ricorso, e riassunte supra, al p. 1.1, si riducono a ben vedere a ciò: che secondo i ricorrenti espellere dal territorio nazionale due coniugi privi di titolo di soggiorno, costringendoli di fatto a portare con sè in Albania i propri figli minorenni, costituirebbe per questi ultimi, sempre e comunque, un danno grave od almeno il pericolo di un danno grave: tanto in atto, quanto in potenza negli anni a venire.
Ma lo stabilire se nel caso di specie ricorrano o non ricorrano i “gravi motivi” richiesti dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, per accordare il permesso di soggiorno “in deroga” ivi previsto, è un tipico apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito.
Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 3, comma 3, stabilisce infatti che lo speciale permesso di soggiorno ivi previsto possa essere concesso:
(a) per “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico”;
(b) tenuto conto “dell’età e delle condizioni di salute del minore”.
Dunque i “gravi motivi” sono la causa o presupposto legittimante il rilascio del permesso di soggiorno; mentre l’età e le condizioni di salute del minore sono i parametri di giudizio per valutare se quella causa sussista oppure no.
Questo essendo il contenuto precettivo della norma, sarà certamente sindacabile in cassazione la sentenza di merito che, nel formulare il suo giudizio, non abbia tenuto conto dell’età o delle condizioni di salute del minore.
Non sarà, invece, sindacabile in sede di legittimità (salvi i casi limite della motivazione apparente, insanabilmente contraddittoria o mancante: in tal senso, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014) la sentenza di merito che, dopo aver preso in esame l’età e le condizioni di salute del minore, ammetta od escluda che l’una e le altre integrino i “gravi motivi” richiesti dalla legge.
In tale ipotesi, infatti, il giudice di merito ha rispettato la legge, tenendo conto dell’età e della salute del minore. Lo stabilire, poi, se ne abbia tenuto conto bene o male è una valutazione di merito, avente ad oggetto un apprezzamento di fatto, e non una valutazione di diritto.
1.3. Tale conclusione è l’unica consentita non solo dall’interpretazione letterale della norma, ma anche da quella sistematica.
L’espressione “gravi motivi”, infatti, compare in molte norme di legge, nell’interpretare le quali questa Corte ha ripetutamente ritenuto insindacabile in sede di legittimità la valutazione con cui il giudice di merito li ha ritenuto sussistenti od insussistenti. A mero titolo d’esempio, la locuzione “gravi motivi” è utilizzata dalla legge al fine di consentire od imporre:
1) la sospensione delle delibere delle associazioni (art. 23 c.c.);
2) l’esclusione degli associati dall’associazione (art. 24 c.c.);
3) l’ammissione al matrimonio dell’infrasedicenne (art. 84 c.c.);
4) la riduzione del termine delle pubblicazioni matrimoniali (art. 100 c.c.);
5) la celebrazione del matrimonio per procura (art. 111 c.c.);
6) l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare (art. 330 c.c.);
7) la proroga ultrannuale degli ordini di protezione (art. 342 ter c.c.);
8) la scelta di un tutore diverso da quello designato per testamento (art. 348 c.c.);
9) la scelta di un amministratore di sostegno diverso da quello indicato dall’interessato (art. 408 c.c.);
10) la sospensione della condanna pronunciata sulla base di una clausola solve et repete (art. 1462 c.c.);
11) il recesso del conduttore dal contratto di locazione (L. n. 392 del 1978, art. 4);
12) la sostituzione del c.t.u. (art. 196 c.p.c.);
13) la revoca della decadenza dalla prova pronunciata a carico della parte non comparsa (art. 208 c.p.c., comma 3, nel testo previgente alle modifiche introdotte dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 26);
14) autorizzare la modifica delle domande nel rito del lavoro (art. 420 c.p.c.);
15) la sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado nel rito del lavoro (art. 431 c.p.c.);
16) la sospensione delle operazioni di vendita forzata ex art. 534 ter c.p.c..
Ebbene, la giurisprudenza formatasi su tutte le norme che precedono è stata sempre costante nell’affermare che la sussistenza dei “gravi motivi” è un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità. In tal senso, ex permultis, con riferimento alle più varie fattispecie in cui la legge richiedeva la sussistenza di “gravi motivi”, si vedano Sez. 3, Sentenza n. 13909 del 24/09/2002, Rv. 557560-01; Sez. 1, Sentenza n. 7865 del 09/06/2000, Rv. 537436-01; Sez. L, Sentenza n. 4148 del 16/07/1984, Rv. 436100-01; Sez. 2, Sentenza n. 1822 del 11/03/1983, Rv. 426663-01; Sez. 3, Sentenza n. 4094 del 09/09/1978, Rv. 393710- 01; Sez. 2, Sentenza n. 3387 del 22/11/1971, Rv. 354941-01; Sez. 2, Sentenza n. 369 del 04/03/1965, Rv. 310627-01; Sez. 3, Sentenza n. 974 del 20/04/1963, Rv. 261377-01.
1.4. I rilievi che precedono impongono di concludere che:
a) è sindacabile in sede di legittimità la pronuncia che, nel decidere sulla domanda di rilascio del permesso di soggiorno speciale ai sensi D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 31, comma 3, abbia totalmente trascurato di considerare le condizioni di salute o l’età del minore;
b) è insindacabile in sede di legittimità la pronuncia che, nel decidere la suddetta domanda, abbia preso in considerazione la salute o l’età del minore, per trarne però conclusioni contestate dal ricorrente;
c) è del pari insindacabile in sede di legittimità la pronuncia con la quale il giudice di merito, nel decidere la suddetta domanda, abbia negato od affermato la sussistenza dei “gravi motivi” di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3 (salvi, ovviamente, i casi di motivazione così contraddittoria o incomprensibile, da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” che qualsiasi motivazione di qualsiasi provvedimento giurisdizionale deve garantire, secondo quanto stabilito dalla già ricordata decisione delle Sezioni Unite di questa Corte, n. 8053 del 2014).
1.5. Oltre che inammissibile per le ragioni appena esposte, il primo motivo di ricorso è comunque infondato nella parte in cui pretende di stabilire un nesso di implicazione certo, indefettibile e univoco tra l’allontanamento dal territorio italiano di genitori privi di permesso di soggiorno, ed un “danno grave” alla salute psicofisica dei loro figli minori.
I ricorrenti, infatti, ascrivono alla Corte d’appello di avere trascurato la sussistenza di “gravi motivi” di rischio per i minori, se questi dovessero lasciare l’Italia alla volta dell’Albania: ma non sono stati in grado di dedurre alcun “grave motivo” diverso ed ulteriore rispetto alla mera circostanza che il minore, in caso di espulsione dei genitori, dovrebbe lasciare l’Italia.
Essi, dunque, est mostrano di ritenere che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, vada interpretato come se stabilisse che il solo allontanamento del minore dal nostro Paese o, se i genitori ritenessero di lasciarvelo, il solo allontanamento di questi ultimi dal minore, integri ipso facto un “grave motivo” idoneo a giustificare il rilascio del permesso di soggiorno in deroga, ivi previsto.
Ma una simile interpretazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, non è consentita nè dalla logica formale, nè dal diritto.
Sotto il primo profilo, la lettura che del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, danno i ricorrenti condurrebbe ad un risultato paradossale, e cioè l’abrogazione de facto della norma, nella parte in cui stabilisce che il permesso ivi previsto sia concesso “per un periodo di tempo determinato”.
Di un vincolo affettivo tra il minore ed i suoi genitori, così come dell’eventuale “radicamento” del minore nel contesto sociale italiano, infatti, non si può predicare la temporaneità: l’uno e l’altro sono tendenzialmente stabili, e comunque sine die.
Pertanto accordare il permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, al genitore di un minore che si sia ambientato in Italia, ed accordarlo per questo solo fatto, fa sì che mai i suoi genitori potrebbero essere espulsi (almeno fino alla maggiore età del figlio), perchè sempre l’espulsione comporterebbe lo sradicamento del minore dal contesto italiano. Sicchè, interpretando la norma nel senso preteso dai ricorrenti, essa verrebbe abrogata e riscritta, per tradursi in un precetto che suonerebbe così: “ha diritto al permesso di soggiorno qualunque genitore di qualunque minore che si trovi quomodolibet in Italia”. Una interpretazione, dunque, abrogatrice, ovviamente non consentita all’interprete.
Sotto il secondo profilo, poi, l’interpretazione dell’art. 31 D.Lgs. cit. propugnata dai ricorrenti è già stata rigettata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorchè ritennero “inaccettabile la funzione attribuita all’art. 31, comma 3, da una parte della giurisprudenza di merito e da alcuni studiosi (di) impedire detto allontanamento (del minore) per tutta la durata della minore età, o (secondo altre decisioni) per la durata dell’intero percorso scolastico” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 21799 del 25/10/2010, p. 5 dei “Motivi della decisione”).
1.6. Alla luce dei principi appena esposti, palese appare l’infondatezza di tutte le censure riassunte supra al p. 1.1, in quanto la Corte d’appello ha correttamente applicato la legge, nel negare che il solo distacco dal genitore non costituisce di per sè un “danno grave” ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3.
1.7. Un cenno a parte merita la censura riassunta supra, p. 1.1, lettera (d), con cui i ricorrenti sostengono che l’età prescolare del minore (nel caso di specie, dell’ultimo figlio dei ricorrenti) non solo non è una circostanza ostativa al rilascio del permesso temporaneo, come ritenuto dalla Corte d’appello, ma è anzi una circostanza che avrebbe dovuto imporla.
Tale censura, fermi i profili di inammissibilità già rilevati, è comunque infondata.
Si è già detto che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, impone al giudice di merito, per valutare se concedere o negare lo speciale permesso di soggiorno ivi previsto, di prendere in esame “lo sviluppo psicofisico” e la “salute” del minore.
Nel caso di specie, posto che i ricorrenti non hanno mai nemmeno prospettato alcun rischio di malattie fisiche cui il minore sarebbe esposto nel caso di rientro in Albania, l’unico pregiudizio che potrebbe venire in rilievo sarebbe quello alla salute psichica.
Ma questa Corte, sia pure in diverso ambito, ha da tempo stabilito che non ogni evento spiacevole costituisce di per sè un vulnus alla salute psichica, nè può dirsi psichicamente “malato” un soggetto sol perchè abbia comportamenti devianti (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005 – dep. 08/03/2005, imp. Raso, in motivazione, ove si mette in guardia contro il rischio di “panpsichiatrizzazione” di ogni moto dell’animo).
Aggiungasi che di una malattia psichica può parlarsi solo quando chi se ne assume affetto presenti un comizio sintomatico noto ed inquadrabile tra quelli studiati e catalogati dalle scienze neurologiche (convenzionalmente classificati nel testo universalmente noto come “DSM-5”, ovvero Diagnostic and Statistica Manual of Menta Disorders).
Non dunque, il rischio di tristezza, il rischio di dispiacere od il rischio di disagio possono giustificare le misure di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, ma solo il rischio di una malattia psichica, perchè tale è il dettato non superabile della legge. Ed il rischio di una malattia psichica ovviamente non può essere frutto di una presunzione assoluta juris et de jure, e dirsi sussistente sol perchè un minore sia costretto a trasferirsi in un altro Paese. Se così fosse, del resto, dovrebbe pervenirsi alla paradossale conseguenza che tutti i figli minori delle innumerevoli persone, dipendenti pubblici e privati, che cambino residenza o Paese per ragioni di lavoro, siano tutti ed indefettibilmente malati mentali: conclusione, come ognun può vedere, che urta contro il senso comune e contro nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza, prima ancora che contro la legge.
1.8. Quanto, infine, all’allegazione dei ricorrenti secondo cui l’età prescolare del minore giustificherebbe di per sè il rilascio ai suoi genitori del permesso di soggiorno “in deroga” previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, anche tale affermazione non può essere condivisa.
Si è già detto che la legge esige, ai fini della concessione del permesso di soggiorno di cui all’art. 31 D.Lgs. cit., “gravi motivi”, e che questi debbono essere valutati tenendo conto dello sviluppo del minore e della sua salute psichica.
Definito il danno alla salute psichica nei termini di cui sopra, è evidente che alcun pregiudizio psichico al minore può sussistere, se questi non sia in grado nè di percepire, nè di ricordare, la vicenda che si teme per lui traumatica. Ma è tuttavia nozione di fatto, anche questa rientrante nella comune esperienza, e comunque reiteratamente affermata da questa Corte sia pure a diversi fini, quella dell’esistenza del fenomeno noto come “amnesia infantile”: e cioè l’incapacità degli adulti di ricordare i fatti avvenuti prima dei quattro anni di età.
L’amnesia infantile, teorizzata a livello scientifico da oltre 150 anni, è oggi indiscussa acquisizione delle neuroscienze, ed è stata ripetutamente data per ammessa da questa Corte di cassazione, in materia penale, ai fini della valutazione della sussistenza dei presupposti per l’assunzione di incidenti probatori aventi ad oggetto la deposizione di minori. E, infatti, massima ormai divenuta tralatizia quella secondo cui “l’incidente probatorio dovrebbe essere effettuato il più presto possibile, vicino ai fatti o alla loro emersione, per scongiurare il pericolo della nota “amnesia infantile”, per la quale il bambino non è in grado di conservare i ricordi” (ex multis, Cass. pen. 17115/15; 12027/15; 10485/14; 7510/14; 46750/13; 15716/13; 9489/13; 3258/13; 44644/11).
Non sarebbe, quindi, affermazione coerente con la logica nè col diritto, pretendere che un bimbo in tenera età non sia in grado di conservare i ricordi, quando si tratti di decidere se interrogarlo; e sia invece in grado di conservarli, quando si tratti di espellere i suoi genitori.
1.9. I rilievi che precedono impediscono di dare seguito al precedente di questa Corte invocato dai ricorrenti (Sez. 1, Sentenza n. 19433 del 03/08/2017, Rv. 645180-01, cui adde, sia pure in termini meno assoluti, Sez. 1 -, Ordinanza n. 4197 del 21/02/2018, Rv. 648136-01).
Tale decisione, infatti, là dove afferma che negare il permesso temporaneo in considerazione della tenerissima età del minore sarebbe affermazione “priva di fondamento logico e giuridico”, non sembra farsi carico dei principi medico-legali e neurologici, del fenomeno dell’amnesia infantile, e della giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte, sopra richiamati.
1.10. Il primo motivo di ricorso va dunque rigettato in applicazione dei seguenti principi di diritto:
(a) il giudizio con cui il giudice di merito ritenga sussistenti, od insussistenti, i “gravi motivi” richiesti dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, ai fini del rilascio dello speciale permesso di soggiorno temporaneo ivi previsto in favore dei genitori di figli minori, costituisce un apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità;
(b) nè l’età prescolare del minore, nè il rischio del suo allontanamento dall’Italia possono costituire, di per sè ed in assenza di qualsiasi altra specificità del caso concreto, circostanze sufficienti a ritenere sussistenti i “gravi motivi” richiesti dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, ai fini del rilascio ai suoi genitori del permesso di soggiorno temporaneo ivi previsto.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello, rigettando la loro domanda, avrebbe violato il diritto, costituzionalmente garantito, all’unità familiare.
Espongono una tesi che può essere così essere riassunta: se gli odierni ricorrenti non fossero autorizzati al soggiorno temporaneo in Italia, essi dovrebbero rimpatriare in Albania portando con sè i figli minori.
2.2. Il motivo è manifestamente infondato.
In primo luogo, è fuori luogo il richiamo al diritto al ricongiungimento familiare.
Tale diritto, sancito dalla Direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, attuata dal D.Lgs.8 gennaio 2007, n. 5, spetta infatti a chi risieda già legalmente nel territorio d’uno Stato membro dell’Unione, ed intenda farsi raggiungere dai propri familiari. Nel nostro caso, invece, nessuno degli odierni ricorrenti risiede legalmente in Italia.
In secondo luogo, la doverosa espulsione degli odierni ricorrenti non spezzerebbe affatto l’unità familiare, se costoro, come è loro dovere giuridico e morale, portino con sè i propri figli.
Non dunque, il decreto della Corte d’appello d’Ancona spezzerebbe l’unità familiare, ma l’eventuale irresponsabile scelta dei genitori espulsi di abbandonare i propri figli in Italia: con il che resta escluso che il decreto impugnato presenti il denunciato vizio.
2.3. Ad abundantiam, non sarà superfluo aggiungere, a fronte di alcune affermazioni contenute nel ricorso per cassazione e manifestamente erronee in iure, che il diritto all’unità familiare non è un diritto assoluto, ma è un diritto che va bilanciato con altri diritti e regole dell’ordinamento, ed in particolare:
a) col principio di legalità;
b) con l’obbligo degli Stati membri di espellere chi soggiorna irregolarmente sul loro territorio, anch’esso imposto da una norma comunitaria (l’art. 6, comma 1, della Direttiva 2008/115/UE, il quale stabilisce che “gli Stati membri adottano una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare”). Obbligo, per di più, che secondo la Corte di giustizia dell’Unione Europea è finalizzato a garantire la sicurezza pubblica, e tale fine “non può essere aggirato con condotte elusive” (Corte giust. UE, 15.2.2016, J.N., in causa C-601/15), quale di fatto diverrebbe la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno sol per avere generato in Italia un figlio, od averlo ivi condotto.
I ricorrenti, in definitiva, mostrano di confondere il “diritto all’unità familiare” col “diritto all’unità familiare in Italia”: pretesa, quest’ultima, che non ha alcun fondamento giuridico.
Aggiungasi, quel che più rileva, che lo stabilire se nel caso specifico il rigetto della domanda di permesso temporaneo nuoccia o non nuoccia agli interessi del minore è competenza discrezionale riservata agli organi giudiziari degli Stati membri, come ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia UE.
Ha stabilito, in particolare, Corte giust. CE 6.12.2012, 0.S c. Maahanmuuttovirasto, in causa C-356/11 e C-357/11, ai p. 79-81 della motivazione, che “gli artt. 7 e 24 della Carta (EDU), pur sottolineando l’importanza, per i figli, della vita familiare, non possono essere interpretati nel senso che essi priverebbero gli Stati membri del potere discrezionale di cui dispongono nell’esaminare le domande di ricongiungimento familiare”.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, nonchè degli artt. 9 e segg. della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.
La tesi sviluppata nel motivo può così riassumersi: poichè i ricorrenti, privi di permesso di soggiorno, sono destinati ad essere espulsi se non fossero autorizzati a restare in Italia ai sensi dell’art. 31, comma 3, D.Lgs. cit., la Corte d’appello con la sua decisione avrebbe “senza scrupoli di sorga.'” disposto l’espulsione di fatto dei minori. Tale decisione, pertanto, sarebbe in contrasto con il citato D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, il quale non consente l’espulsione dei minori.
La decisione d’appello, inoltre, secondo i ricorrenti avrebbe violato l’art. 3 della Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, in C. quanto ha compresso il diritto del minore ad essere allevato dai propri genitori.
3.2. Il motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello non ha nè espulso i minori, nè negato loro il diritto di vivere con i propri genitori. Sono, piuttosto, i ricorrenti a pretendere caparbiamente quel che non può essere preteso: e cioè che colui il quale sia entrato irregolarmente nel territorio nazionale abbia diritto di restarvi, sol perchè quivi abbia generato un figlio.
4. Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31.
Il motivo riproduce, con diversi termini, la censura già sviluppata nel primo motivo di ricorso: e cioè che la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente considerato il pregiudizio allo sviluppo psicofisico che il minore subirebbe se non potesse proseguire la sua crescita nel territorio nazionale.
4.2. Il motivo è infondato per le medesime ragioni già esposte con riguardo al primo motivo di ricorso.
5. Le spese.
5.1. Non è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, attesa la indefensio della parte pubblica.
5.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), a condizione che esso sia dovuto: condizione che non spetta a questa Corte stabilire. La suddetta norma, infatti, impone all’organo giudicante il compito unicamente di rilevare dal punto di vista oggettivo che l’impugnazione ha avuto un esito infruttuoso per chi l’ha proposta.
Incidenter tantum, rileva nondimeno questa Corte che ai sensi del D.Lgs. 30 maggio 2012, n. 115, art. 10, comma 2, non è soggetto al contributo unificato il processo “comunque riguardante la prole”, ed in tale categoria di giudizi rientra anche il presente.
P.Q.M.
la Corte di Cassazione:
(-) dichiara inammissibile il ricorso;
(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto;
(-) visto il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 4, u.p., ed il p. 4.2 della Circolare del Primo Presidente di questa Corte n. 47/06/SG del 17.1.2006, dispone che i dati personali relativi ai minori di cui si fa menzione nella presente sentenza siano oscurati.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, il 25 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020