LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 17073-2017 proposto da:
C.P., elettivamente domiciliato in Roma, Via Timavo, n. 3, presso lo studio dell’avvocato Mauro Livi, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Piero Piccinini;
– ricorrente –
contro
BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via di Val Gardena, n. 3, presso lo studio dell’avvocato Lucio De Angelis, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2510/2017 della Corte d’appello di Roma, depositata il 13/04/2017;
letta la proposta formulata dal Consigliere relatore ai sensi degli artt. 376 e 380-bis c.p.c.;
letti il ricorso, il controricorso e le memorie difensive;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14 marzo 2019 dal Consigliere Dott. D’Arrigo Cosimo.
RITENUTO
C.P. proponeva opposizione avverso un decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti dal Tribunale di Roma su richiesta della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., la quale, essendo stata terzo pignorato in un processo esecutivo intrapreso dal C. nei confronti della Wyeth Lederle s.p.a., sosteneva di aver illegittimamente corrisposto in quella sede la somma di Euro 164.129,09, che invece avrebbe dovuto trattenere e versare all’erario a titolo di ritenuta d’acconto, posto che il credito fatto valere dall’ingiunto nasceva da prestazioni professionali.
Il Tribunale di Roma accoglieva l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione, affermando che la stessa spettava al giudice tributario, versandosi in materia di ritenuta d’acconto. Tale sentenza veniva appellata dalla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. e la Corte d’appello di Roma, in accoglimento del gravame e in totale riforma della sentenza impugnata, rigettava l’opposizione proposta dal C., che veniva condannato alle spese di lite.
Avverso tale sentenza il C. ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. La Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. ha resistito con controricorso.
Il consigliere relatore, ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 380-bis c.p.c. (come modificato dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, comma 1, lett. e), conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), ha formulato proposta di trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata.
Entrambe le parti hanno depositato memorie difensive.
CONSIDERATO
In considerazione dei motivi dedotti e delle ragioni della decisione, la motivazione del presente provvedimento può essere redatta in forma semplificata.
Il ricorso è inammissibile in quanto carente l’esposizione sommaria dei fatti richiesta dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.
In particolare, il ricorrente non chiarisce il punto focale se la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a., in ottemperanza dell’ordinanza di assegnazione, gli avesse inizialmente corrisposto anche l’importo corrispondente alla ritenuta d’acconto ovvero se avesse ritualmente trattenuto tale somma per riversarla all’erario.
Inoltre, della sentenza impugnata viene riportato il solo dispositivo, con totale omissione di ogni riferimento alle ragioni poste a fondamento della stessa.
Più in generale, l’esposizione dei fatti è generica ed incompleta, tanto che non è neppure chiaro se la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. abbia interamente spontaneamente corrisposto al C. tutti gli importi oggetto dell’ordinanza d’assegnazione ovvero se quest’ultimo abbia azionato la predetta ordinanza quale titolo esecutivo nei confronti del terzo pignorato, per la parte rimasta in adempiuta, così conseguendo in quella sede la somma che la banca non gli aveva spontaneamente corrisposto.
Non è ben chiara neppure la natura dell’azione intrapresa dalla Banca, potendosi solo ipotizzare che essa abbia agito per ripetizione di indebito oggettivo.
In ogni caso, qualora si volesse superare il rilievo di inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorso risulterebbe egualmente inammissibile, per ulteriori ragioni.
Il primo motivo si fonda sull’evocazione di un giudicato, riguardo al quale non si fornisce alcuna indicazione specifica. Pertanto, sul punto il ricorso è privo di autosufficienza, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.
Nell’ambito del medesimo motivo, si afferma che la giurisdizione sulla domanda proposta dalla Banca apparterrebbe al giudice tributario, in quanto avente ad oggetto l’applicazione della ritenuta d’acconto. Ma la doglianza non si correla all’effettiva motivazione della sentenza impugnata, che si basa sulla giurisprudenza di questa Corte (espressamente evocata a pag. 4), secondo cui spetta al giudice ordinario la giurisdizione a conoscere della controversia tra sostituto d’imposta e sostituito avente ad oggetto la contestazione della legittimità della ritenuta alla fonte, operata dal secondo all’atto del pagamento del proprio debito, ogni qual volta manchi “un atto qualificato”, rientrante nella tipologia di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, riconducibile all’autorità fiscale, poichè soltanto in tal caso la controversia ha ad oggetto direttamente il rapporto tributario (Sez. U, Sentenza n. 26820 del 19/12/2009, Rv. 611027 – 01).
In conclusione, il motivo, che verte in materia di giurisdizione, è evidente inammissibile. Il che ne giustifica l’esame in questa sede, anche ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 1, dato che la giurisprudenza evocata dalla corte di merito è consolidata.
Il secondo motivo si fonda su una transazione che non viene localizzata in questo giudizio di legittimità. Anche in questo caso, quindi, deve rilevarsi il difetto di specificità e la conseguente violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.
Appare, infine, priva di qualsiasi fondamento la richiesta – contenuta nelle memorie difensive – di un rinvio pregiudiziale della causa alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A prescindere dal fatto che, anche sul piano procedurale, il ricorrente sembra confondere la pregiudiziale comunitaria con l’accesso alla CEDU per violazione dei diritti fondamentali della Carta, in realtà non risulta prospettava alcuna effettiva lesione di siffatti diritti diversa dalla semplice circostanza che gli sia stato dato torto in grado d’appello. Le ragioni che dovessero aver determinato un “intollerabile ritardo” nella definizione della causa, devono costituire oggetto di eventuale accertamento nella sede naturale e non possono, certamente, venire in rilievo in questa sede quale argomento a sostegno della bontà delle argomentazioni giuridiche del ricorso.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.
Ricorrono altresì i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello già dovuto per l’impugnazione da lui proposta.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 14 marzo 2019.
Depositato in cancelleria il 9 gennaio 2020