Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.298 del 09/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso ricorso iscritto al n. 7944/2018 R.G. proposto da:

B.M.I., rappresentato e difeso dall’Avv. Giulia Perin, con domicilio eletto in Roma, via Piemonte, n. 117;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 1797/17 depositata il 31 agosto 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 ottobre 2019 dal Consigliere Guido Mercolino.

RILEVATO

Che:

M.I.B., cittadino del Pakistan, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, illustrati anche con memoria, avverso la sentenza del 31 agosto 2017, con cui la Corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 20 gennaio 2016 dal Tribunale di Venezia, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;

che il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 1, 2 e art. 3, commi 3, 5, 7, 8 e 14, del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, artt. 8, 27 e art. 32, comma 3, degli artt. 1, e 33 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, commi 6 e 19, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto non credibile la vicenda narrata a sostegno della domanda, sulla base di una valutazione della situazione politico-sociale del suo Paese di origine fondata su informazioni insufficienti, datate e non attendibili, senza prendere in considerazione l’ampia documentazione prodotta da esso ricorrente;

che, secondo il ricorrente, nonostante il chiaro riferimento alla situazione di violenza generalizzata in atto nel Pakistan, la Corte territoriale ha omesso di esercitare i propri poteri officiosi d’indagine, astenendosi dal verificare la configurabilità delle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), e dall’analizzare, relativamente a quella di cui alla lett. c) della medesima disposizione, le condizioni socio-politiche e di sicurezza del Paese di origine di esso ricorrente;

che con il secondo motivo il ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che un più approfondito esame della situazione del Pakistan avrebbe consentito alla Corte territoriale di contestualizzare più correttamente la sua vicenda personale e di valutare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), e della protezione umanitaria, soprattutto alla luce della situazione di conflitto ed ingovernabilità in atto nella sua regione di provenienza (Punjab) ed in quella in cui si sono svolti i fatti narrati (Kashmir);

che i due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni strettamente connesse, sono infondati;

che la sentenza impugnata ha infatti escluso la credibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente attraverso una valutazione complessiva della vicenda personale da lui narrata, compiuta in conformità dei criteri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, che ha condotto la Corte territoriale ad evidenziarne le lacune e le contraddizioni, nonchè il contrasto con informazioni aggiornate desumibili non solo da fonti giornalistiche (http: //www.telegraph.co.uk), ma anche da un sito web dell’UNHCR (http://www. refworld.org);

che nel censurare il predetto apprezzamento, riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione, il ricorrente si limita a contestare la sufficienza e l’aggiornamento delle informazioni utilizzate, richiamando altre fonti, da lui ritenute maggiormente attendibili, ma omettendo di precisarne il contenuto e di porlo a confronto con quelle utilizzate dalla sentenza impugnata, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonchè la coerenza logico-formale delle stesse, nella misura in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. VI, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547);

che, in assenza di valide censure riguardanti la credibilità soggettiva delle dichiarazioni rese dal richiedente, non possono trovare accoglimento quelle riflettenti l’omesso esercizio dei poteri istruttori ufficiosi spettanti al giudice ai fini della verifica dei presupposti per l’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), trovando applicazione il principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di protezione sussidiaria, secondo cui la valutazione d’inattendibilità dei fatti allegati a sostegno della domanda esclude la necessità di far luogo ad un approfondimento istruttorio ulteriore, mediante l’attivazione del dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a manifestare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di non cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. Cass., Sez. VI, 20/12/2018, n. 33096; 12/11/2018, n. 28862; 27/06/2018, n. 16925);

che, in riferimento alla fattispecie di cui all’art. 14 cit., lett. c), il segnalato richiamo alle fonti internazionali consente invece di ritenere correttamente esercitato il potere-dovere d’indagare d’ufficio in ordine alla situazione generale del Paese di origine del richiedente, potere-dovere, il quale, come ripetutamente affermato da questa Corte, non trova ostacolo nell’inattendibilità della vicenda personale da lui narrata, a meno che il giudizio di non credibilità non investa il fatto stesso della provenienza dell’istante dall’area geografica interessata dalla violenza indiscriminata che costituisce il fondamento di tale forma di protezione (cfr. Cass., Sez. I, 23/10/2019, n. 27070; 30/09/2019, n. 24409; 24/05/2019, n. 14283);

che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, non può infine considerarsi sufficiente la mera allegazione della situazione generale d’insicurezza del Paese di origine, la quale risulta di per sè inidonea ad evidenziare una condizione di vulnerabilità soggettiva, in assenza di uno specifico collegamento con la situazione personale del richiedente;

che la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria dev’essere infatti ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata non già alla situazione generale del Paese di origine, ma a quella personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 7/02/2019, n. 3681);

che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del contro-ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2020

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