LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10856/2018 proposto da:
G.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 58, presso lo studio dell’avvocato SAVINA BOMBOI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati BRUNO COSSU, ROMINA FILIPPINI;
– ricorrente –
contro
BANCA MONTE PASCHI SIENA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA AVENTINA 3/A, presso lo studio dell’avvocato SAVERIO CASULLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ORONZO MAZZOTTA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 813/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 30/09/2017 R.G.N. 689/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/10/2019 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato BRUNO COSSU;
udito l’Avvocato ORONZO MAZZOTTA.
FATTI DI CAUSA
1. Il Tribunale di Siena, ritenuta infondata la sollevata eccezione di decadenza dall’impugnativa giudiziale di licenziamento (applicabilità ai dirigenti generalizzata, ma, quanto all’individuazione dell’inizio della decorrenza del relativo termine, dal 61 giorno successivo alla comunicazione del licenziamento), dichiarava l’illegittimità del recesso aziendale intimato il 24.10.2012 dalla Banca MPS s.p.a. a G.V. e condannava la società a corrispondere al dirigente l’indennità suppletiva (rectius: supplementare) fatta pari a quindici mensilità retributive.
2. La Corte d’appello riteneva che il termine per l’impugnativa del licenziamento in sede giudiziale di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, novellato nel 2010 ed ulteriormente modificato con L. n. 92 del 2012, decorresse non dalla ricezione da parte del datore dell’impugnativa stragiudiziale, ma dall’invio della stessa, a garanzia del lavoratore, che non doveva soggiacere ai rischi di un mancato recapito. Nella specie, essendo stata la domanda giudiziale proposta il 182 giorno successivo all’impugnazione stragiudiziale, la stessa doveva ritenersi tardiva e nulla competeva al lavoratore a titolo di indennizzo, dovendo essere restituite alla società le somme percepite in ottemperanza alla pronuncia del Tribunale.
3. Quanto ai passaggi di carriera che avevano caratterizzato la posizione del G. all’interno di MPS, la ricostruzione della vicenda, effettuata sulla base anche delle deposizioni testimoniali, portava a ritenere che il G. era stato costretto in ambito lavorativo in cui la sua professionalità tecnica era stata del tutto pretermessa e poi contenuta in termini di puro sviluppo commerciale, ma privata di facoltà decisionali ed organizzative che avevano caratterizzato la funzione di direzione raggiunta in BAV, società incorporata, e mantenuta di fatto sino all’autunno 2008. I danni conseguiti a tale dequalificazione erano stati, secondo la Corte, parametrati correttamente dal Tribunale, in misura forfetizzata al 50% della retribuzione dell’intero periodo, tenuto conto della progressiva erosione del bagaglio professionale acquisito. Con riguardo al danno non patrimoniale, la valutazione di tutte le componenti del pregiudizio alla salute individuate dal CTU non consentiva un’ulteriore personalizzazione e, secondo le tabelle milanesi, anche in considerazione della componente morale, la determinazione effettuatane dal Tribunale era da reputare corretta e condivisibile. Doveva solo essere detratto quanto corrisposto dall’INAIL a titolo di danno non patrimoniale, con residuo danno differenziale ammontante ad Euro 131.714,81.
4. Di tale decisione ha domandato la cassazione il G., affidando l’impugnazione a due motivi, cui ha resistito la società.
5. Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza del 4.6.2019. La causa è stata rinviata a nuovo ruolo per consentirne la trattazione unitaria con cause aventi ad oggetto analoga questione, oltre che per ravvisate esigenze di approfondimento della questione. Il ricorrente ha depositato ulteriore memoria in prossimità dell’udienza pubblica.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, il G. denunzia violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2 e della L. n. 604 del 1966, art. 6, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1, sostenendo che della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, nello stabilire che “le disposizioni di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”, ha modificato l’ambito di applicazione della norma, estendendola sotto il profilo soggettivo anche ai dirigenti e che la previsione della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, nel modificare la L. n. 300 del 1970, art. 18, abbia esteso ai dirigenti la disciplina sanzionatoria prevista dello stesso art. 18, comma 1, ad ogni ipotesi di invalidità del licenziamento. La categoria giuridica dell'”invalidità”, secondo il ricorrente, vale a delimitare sotto il profilo oggettivo l’ambito dei casi in cui detto regime deve ritenersi operante nei confronti dei dirigenti, avendo il Legislatore inteso chiaramente dettare uno specifico criterio di selezione delle fattispecie di licenziamento interessate dalla decadenza di cui all’art. 6 della Legge citata.
1.1. Ritiene, pertanto, esclusa – già alla luce del criterio di interpretazione letterale – l’applicabilità del sistema di decadenze de quo ai dirigenti allorquando essi facciano valere in giudizio l’illegittimità del licenziamento in quanto contrario alla disciplina pattizia e chiedano il pagamento dell’indennità supplementare. Evidenzia la mancanza di una previsione legale di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente e rileva che la nozione è di origine esclusivamente convenzionale, essendo dettata unicamente dalla disciplina contrattuale collettiva di settore, nel presente caso il CCNL per i Dirigenti dipendenti dalla imprese creditizia, finanziarie e strumentali.
1.2. Aggiunge che “ingiustificatezza” del licenziamento del dirigente rappresenta un semplice inadempimento, ossia un illecito convenzionale che cagiona un danno risarcibile secondo le previsioni dello stesso c.c.n.l., che la stessa non conduce all’invalidità del licenziamento, non privandolo di valore e di efficacia giuridici, e che i suoi effetti non vengono rimossi, essendo il datore di lavoro obbligato solo a pagare l’indennizzo contrattualmente previsto. Osserva che una tale opzione interpretativa è sostenuta anche dall’essere le norme che prevedono termini di decadenza di stretta interpretazione, senza possibilità di estenderne la portata oltre la specifica previsione di ambito di applicabilità. La S.C., con la pronuncia n. 22627/2015 avallerebbe questa opzione ermeneutica.
2. In via subordinata, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 111 Cost., comma 6, perchè la sentenza d’appello ha totalmente ignorato le argomentazioni svolte al riguardo, applicando la disciplina in tema di decadenza senza spiegare le ragioni del convincimento della Corte.
3. La controricorrente sostiene la necessità per l’appellato vittorioso in primo grado, al fine di impedire la formazione del giudicato sulla relativa questione, di proporre appello incidentale per introdurre la questione dell’inapplicabilità della decadenza ex art. 32, comma 2, al licenziamento del dirigente, ciò che non è stato fatto dal G., il quale ha proposto impugnazione incidentale in ordine al quantum dei pregiudizi conseguenti al demansionamento, in base a Cass. sez. un. 11799/2017.
4. Tale questione deve essere esaminata prima dei motivi dell’impugnazione del G., per ragioni di priorità logico giuridica.
4.1. Il principio di diritto enunciato dalle S.U. nella decisione n. 11799 del 12.5.2017 è il seguente: “Qualora un’eccezione di merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado o attraverso un’enunciazione in modo espresso, o attraverso un’enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell’appello incidentale, che è regolato dall’art. 342 c.p.c., non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c.. Qualora l’eccezione sia a regime di rilevazione affidato anche al giudice, la mancanza dell’appello incidentale preclude, per il giudicato interno formatasi ex art. 329 c.p.c., comma 2, anche il potere del giudice d’appello di rilevazione d’ufficio, di cui dell’art. 345 c.p.c., comma 2. Viceversa, l’art. 346 c.p.c., con l’espressione “eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado”, nell’ammettere la mera riproposizione dell’eccezione di merito da parte del convenuto rimasto vittorioso con riguardo all’esito finale della lite, intende riferirsi all’ipotesi in cui l’eccezione non sia stata dal primo giudice ritenuta infondata nella motivazione nè attraverso un’enunciazione in modo espresso, nè attraverso un’enunciazione indiretta, ma chiara ed inequivoca. Quando la mera riproposizione (che dev’essere espressa) è possibile, la sua mancanza rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di rilevazione riguardo ad essa è riservato alla parte, mentre, se il potere di rilevazione compete anche al giudice, non impedisce – ferma la preclusione del potere del convenuto – che il giudice d’appello eserciti detto potere a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 2".
4.2. Il principio affermato non si attaglia, tuttavia, al caso oggetto di esame nella presente controversia, che ha visto la Banca eccepire la decadenza in sede di costituzione nel giudizio di primo grado ed il G. opporsi all’applicabilità di tale eccezione in ragione della ritenuta inapplicabilità del regime decadenziale di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 ed alla L. n. 604 del 1966, art. 6, anche al licenziamento del dirigente che sia privo di giustificatezza.
4.3. Sostiene specificamente la Banca che, a fronte di un’espressa reiezione, da parte del Tribunale, dell’eccezione del G. in ordine all’inapplicabilità della L. n. 604 del 1966, art. 6 e ss. modifiche al licenziamento del dirigente ed alla ritenuta decorrenza del dies a quo del termine per il deposito del ricorso giudiziale dal 61 giorno successivo alla comunicazione del licenziamento – esame limitato in sede di gravame dall’appellante unicamente a tale secondo profilo – il dirigente non avrebbe proposto appello incidentale, con ciò impedendo, in virtù del formarsi del giudicato sulla relativa questione, l’esame della stessa.
4.4. Il rilievo della Banca sulla mancata riproposizione con appello incidentale della questione e del conseguente suo passaggio in giudicato, per essersi l’appellato, soccombente sul punto, limitato a ribadire le difese spese nel giudizio di primo grado, deve ritenersi giuridicamente erroneo. Ed invero, il principio espresso dalla S.U. si riferisce alla soccombenza dell’eccipiente, tenuto alla riproposizione in sede di gravame della questione preliminare di merito della quale sia stata espressamente o in modo indiretto, ma in maniera inequivoca, ritenuta l’infondatezza, pur essendo risultato il resistente vittorioso quanto all’esito finale della lite. Non può, invece, tale principio essere riferito alla posizione della parte che si sia vista opporre l’eccezione stessa, la quale abbia espresso al riguardo mere difese ed, in sede di giudizio di appello, a fronte di censure dell’appellante che abbiano riguardato un aspetto della questione assumendo come logicamente incontestato il relativo presupposto (validità dell’eccezione), si sia limitata unicamente a reiterare in una logica difensiva le ragioni di contrasto alla iniziale eccezione (rispetto all’eccezione di decadenza, era opposta l’inapplicabilità della stessa al licenziamento del dirigente).
5. Tanto premesso, con riguardo al primo motivo, attinente alla estensibilità al licenziamento del dirigente affetto da ingiustificatezza del termine decadenziale introdotto dall’art. 32 del Collegato Lavoro, valgono le osservazioni che seguono.
5.1. La L. n. 604 del 1966, art. 6, nel testo antecedente alla novella L. n. 183 del 2010, ex art. 32, comma 1, disponeva che il licenziamento dovesse essere impugnato, a pena di decadenza, anche in sede extragiudiziale, entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione. Tale regime era pacificamente ritenuto inapplicabile ai dirigenti che agissero per la condanna datoriale al pagamento dell’indennità supplementare prevista dal contratto collettivo, in quanto si trattava di categoria di prestatori sottratta alle norme limitative dei licenziamenti individuali poste dalla L. n. 604 del 1966 (cfr. ex multis, Cass. n. 1641/1995, n. 20763 del 2012).
5.2. Deve ricordarsi che, fino al 2010, la disciplina contemplata nella L. n. 604 del 1966 (fatto salvo quanto previsto dall’art. 2, comma 4) non è stata applicata ai dirigenti, sulla base di quanto stabilito dall’art. 10 della medesima normativa. In forza di tale esclusione ex lege, per questa categoria di lavoratori non è mai sussistito l’obbligo di impugnare il recesso secondo il regime decadenziale previsto L. n. 604 del 1966, ex art. 6. Di conseguenza, si è attestata l’uniforme e pacifica interpretazione dei giudici di merito e di legittimità: le tutele della prima legge sui licenziamenti individuali sono state estese ed applicate soltanto ai cc.dd. pseudo-dirigenti.
5.3. La citata L. n. 183, art. 32, al comma 1, ha sostituito della L. n. 604, art. 6 e, nel ribadire il termine di decadenza di 60 giorni per l’impugnazione extragiudiziale del licenziamento, prevede ora il termine ulteriore di 180 giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale. Al predetto art. 32, comma 2, è previsto che le disposizioni di cui della L. n. 604, citato art. 6, si applicano “anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”.
5.4. Dunque, il Collegato Lavoro, all’art. 32, comma 2, ha previsto l’estensione della decadenza in tema di licenziamento anche a tutti i casi di invalidità. Il termine invalidità ha un significato preciso, che presuppone che l’atto sia inficiato nella sua validità per un vizio intrinseco derivante dal discostamento dal modello legale o per effetto di una previsione legale che colleghi alla mancanza di requisiti che devono caratterizzare l’atto la conseguenza della invalidità (come per il licenziamento: art. 2119 c.c.). La L. n. 183 del 2010, ha così inteso ricomprendere nell’ambito del regime caducatorio disciplinato ex novo rispetto alla L. n. 604 del 1966, art. 6, casi di nullità e, in generale, di invalidità esterni alla L. n. 604 del 1966.
6. Il licenziamento del dirigente originariamente era tutelato dal divieto del licenziamento discriminatorio e ritorsivo (colpito da nullità: della L. n. 604 del 1966 cit., artt. 2 e 4), lasciando la normativa immutato il regime di libera recedibilità come criterio generale, salva sempre la possibilità per la contrattazione collettiva di introdurre un regime di controllo delle ragioni del licenziamento individuale.
6.1. Ai limiti di tutela ha posto, quindi, in qualche misura, rimedio la contrattazione collettiva col prevedere, generalmente, che nei casi in cui non sussista la giustificatezza del licenziamento, ferma la validità e l’efficacia del recesso, al dirigente spetta una speciale indennità supplementare di carattere risarcitorio.
6.2. Soltanto con la L. n. 92 del 2012, nella nuova formulazione dell’art. 18, comma 1, i dirigenti sono stati per la prima volta destinatari di una tutela piena per le ipotesi anche ad essi applicabili di nullità del licenziamento perchè discriminatorio ai sensi della L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 3, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’art. 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’art. 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 e successive modificazioni, ovvero perchè riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c..
7. Con la sentenza 22627/2015, questa Corte ha affermato che “i suddetti termini di decadenza e di inefficacia dell’impugnazione devono trovare applicazione quando si deduce l’invalidità del licenziamento, come nella specie, prospettandone la nullità in quanto discriminatorio, non assumendo rilievo la categoria legale di appartenenza del lavoratore”. A questa decisione la Corte di Cassazione è pervenuta rilevando che “la ratio della disciplina introdotta dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, in combinato disposto con la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, si rinviene nell’esigenza di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza e non in contrasto con l’art. 111 Cost.. Il legislatore ha così operato, facendo riferimento ad un criterio oggettivo, un non irragionevole bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore”.
7.1. Secondo la Corte “la ratio della disciplina introdotta dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, in combinato disposto con la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, è coerente con l’ottica di tutela del datore di lavoro in relazione all’esigenza di conoscere in un tempo sufficientemente breve i rischi economici ed organizzativi connessi alla lite ed all’esigenza di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed inefficacia prima non previsti in consonanza con il principi dell’art. 111 Cost.”.
7.2. Alla luce delle considerazioni espresse da Cass. 22627/15, una volta che l’art. 32, comma 2, ha previsto un onere di impugnativa a pena di decadenza per ogni recesso datoriale invalido – con un metro che per sua natura è indipendente dalla categoria legale di appartenenza del lavoratore – è ragionevole ritenere che la norma regoli “anche” il caso del licenziamento vietato o nullo del dirigente, identico nella disciplina (sostanziale e sanzionatoria) al corrispondente licenziamento di un impiegato o di un operaio.
7.3. Ciò comporta che solo in virtù di tale estensione la disciplina della decadenza per i casi di “invalidità” è stata resa applicabile ai recessi intimati ai dirigenti, una volta ritenuto che l’ambito soggettivo di applicabilità del regime decadenziale comprenda anche tale categoria.
7.4. L’estensione dei termini di decadenza ed inefficacia dell’impugnazione del licenziamento, disposta dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, è ritenuta operare, in conclusione, con riguardo al dato oggettivo costituito dalla invalidità del licenziamento e al di fuori della limitazione posta della L. n. 604 del 1966, citato art. 10, con riguardo alla posizione lavorativa dell’interessato.
8. Più problematica è la questione, oggetto del presente giudizio, dell’applicabilità della decadenza al licenziamento del dirigente in ipotesi non riconducibile ad invalidità dell’atto, ma a fattispecie di mera ingiustificatezza del licenziamento, per le quali è dibattuto se possano operare le decadenze di legge.
8.1. Secondo l’opinione largamente prevalente, della L. n. 604 del 1966, vecchio art. 6, si applicava ai soli recessi “interni” al sistema della stessa L. n. 604 del 1966: rimanevano, pertanto, escluse le fattispecie assoggettate a discipline particolari, quali quelle dei licenziamenti intimati a lavoratori in prova o a dirigenti (il licenziamento del dirigente privato), o posti in essere in violazione delle norme a tutela delle lavoratrici madri e che contraggono matrimonio, o quelli intimati in violazione dell’art. 2112 c.c. e delle discipline del comporto.
8.2. La L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2 – come già detto – ha esteso l’applicazione della nuova disciplina “anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”, e, dunque, anche a fattispecie “esterne” alla disciplina della L. n. 604 del 1966 e sue modifiche. Il Collegato Lavoro non ha previsto alcuna estensione ai dirigenti delle ipotesi di nullità del licenziamento esterne alla L. n. 604 del 1966, essendo tale estensione avvenuta soltanto con la previsione dell’art. 18, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 42, ciò che consente di ritenere che solo con tale normativa l’espressione “anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”, riferita alla disciplina della decadenza, possa essere riempita di significato anche per la categoria dei dirigenti. L’art. 32, comma 2, del Collegato Lavoro non poteva, dunque, riferirsi, quanto alla previsione di decadenze, ai dirigenti, se non per le ipotesi di nullità già previste per gli stessi dalla L. n. 604 del 1966 (artt. 2 e 4, quest’ultimo come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 3, che ne ha disposto espressamente l’applicabilità anche ai dirigenti) e solo con la L. n. 92 del 2012, che ha previsto ipotesi di nullità dei licenziamenti cui consegue di diritto la tutela reintegratoria anche per i dirigenti (testo novellato dell’art. 18, comma 1, St. Lav.), risultano per questi ultimi ipotizzabili fattispecie di invalidità esterne alla L. n. 604 del 1966, con conseguente estensibilità anche ad essi del regime della decadenza di cui all’art. 32, comma 2 del Collegato Lavoro. Questo induce a ritenere che la disciplina sulla decadenza del Collegato Lavoro non potesse nelle intenzioni del legislatore riferirsi anche alle ipotesi di mera ingiustificatezza del licenziamento dei dirigenti, se per questi ultimi non era ancora stata prevista alcuna tutela rafforzata propria di un regime di invalidità, riguardante casi esterni alla L. n. 604 del 1966, che giustificasse il regime decadenziale introdotto, ispirato ad esigenze di certezza e di celerità nella stabilizzazione di conseguenze reintegratorie previste a carico del datore di lavoro.
8.3. Le considerazioni che precedono inducono ad escludere l’estensione del regime decadenziale, che dipende dal significato che si attribuisce al termine “invalidità”, a casi che rientrano nel più ampio concetto di illegittimità, ciò che condurrebbe a ritenere la nuova disciplina applicabile all’impugnazione di qualsiasi licenziamento. Corollario delle stesse è, al contrario, l’attribuzione al termine invalidità del significato suo proprio, cui consegue l’affermazione che la norma opera solo quando il vizio sia suscettibile di determinare la demolizione del negozio e dei suoi effetti solutori.
8.4. Secondo questo Collegio, l’espressione “invalidità” deve essere inteso in senso restrittivo, avendo riguardo ai confini della categoria di tale vizio propriamente inteso, in relazione alla rilevata incapacità di un atto privato contrario ad una norma di produrre effetti conformi alla sua funzione economico sociale. La nozione generalmente accolta di invalidità presuppone, pertanto, un atto inidoneo ad acquisire pieno ed inattaccabile valore giuridico.
8.5. L’estensione della disciplina della decadenza al di là dei casi di invalidità comporterebbe del resto un’inammissibile applicazione analogica di una norma eccezionale, che, in quanto contemplante decadenze, deve essere interpretata nell’ambito della stretta previsione normativa e non al di là dei casi considerati, diversamente privandosi la previsione specifica della invalidità di ogni portata precettiva. In altri termini, stante il principio di stretta interpretazione delle norme in materia di decadenza, non è possibile pervenire ad un ampliamento della portata “oggettiva” della norma in esame tale da includervi ogni ipotesi di “patologia” del licenziamento, neanche considerando la specialità della materia relativa – all’impugnazione dei licenziamenti rispetto ai principi di diritto comune.
8.6. Nel concetto di invalidità non può, pertanto, ricondursi l’ipotesi della “ingiustificatezza” di fonte convenzionale, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità supplementare. Quest’ultima si collega ad un atto incontestatamente e pacificamente valido, che incide in termini solutori sul rapporto di lavoro.
8.7. A ciò consegue che l’ambito di applicabilità oggettiva della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, non può che riferirsi alle ipotesi di stretta invalidità (rectius, nullità) menzionate dall’art. 18, comma 1, St. Lav. come modificato, essendo tale opzione interpretativa maggiormente coerente con la descritta evoluzione normativa e con i canoni interpretativi previsti dall’art. 12 preleggi.
9. A ciò aggiungasi che la nozione di “ingiustificatezza”, quale elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte è rimasta, a tutt’oggi, invariata.
9.1. Trattandosi di nozione contrattuale, il suo contenuto deve essere enucleato attraverso l’accertamento, con indagine interpretativa della clausola collettiva, con riguardo ai motivi che possono dare luogo alla giustificatezza del licenziamento del dirigente (cfr., tra e altre, Cass. 19.6.1999 n. 6169, Cass. 5.10.2002 n. 14310, 1.6.2005n. 11691, da ultimo, Cass. 22.2.2019 n. 5372 (par. 6 delle considerazioni in diritto).
10. In senso rafforzativo dell’interpretazione qui accolta deve considerarsi la giurisprudenza che afferma l’autonomia delle due azioni, l’una avente ad oggetto la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 St. Lav. in caso di nullità e l’altra diretta ad ottenere l’indennità supplementare, occorrendo, caso per caso, valutare la prospettazione della domanda giudiziale. E’ stato statuito da questa Corte che “In materia di rapporto di lavoro del dirigente, poichè ai fini della giustificatezza del licenziamento rileva qualsiasi motivo che escluda l’arbitrarietà del licenziamento, la domanda avente ad oggetto l’accertamento della illegittimità del recesso per non giustificatezza del licenziamento con condanna del datore di lavoro alla corresponsione dell’indennità supplementare è diversa da quella avente ad oggetto l’accertamento della illegittimità del licenziamento comminato in tronco per giusta causa e la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso; pertanto, accolta quest’ultima per insussistenza della giusta causa, il relativo giudicato non preclude la proposizione della prima (cfr. Cass. 20.11.2000 n. 14974). Il vincolo di pregiudizialità logica tra le due domande proposte separatamente è stato ritenuto non idoneo ad annullare le intrinseche differenze delle stesse nei profili della causa petendi e del petitum.
11. Quanto alle ricadute processuali, in caso di proposizione di entrambe le azioni, e, pure in caso di comunanza del vizio, ossia della situazione che – secondo la prospettazione – determinerebbe la nullità o, in subordine, l’ingiustificatezza, diverse sarebbero le due azioni e diverso il regime di impugnazione.
12. Alla stregua delle svolte considerazioni, deve pervenirsi all’accoglimento del primo motivo di ricorso, per essere la Corte territoriale pervenuta alla declaratoria di inefficacia dell’impugnazione del licenziamento intimato al G. applicando allo stesso i termini decadenziali di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 2, in difformità ai principi enunciati.
13. il secondo motivo è all’evidenza assorbito dall’accoglimento del primo motivo.
14. La sentenza va cassata in parte qua e la causa va rinviata alla Corte di appello indicata in dispositivo – cui si demanda la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità – che procederà a nuovo esame alla luce dei principi indicati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, assorbito il secondo, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2020
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