LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANZON Enrico – Presidente –
Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – rel. Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
Dott. FICHERA Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11909/2012 R.G. proposto da:
Immobiliare P. S.r.l., elettivamente domiciliata in Roma, Via Crescenzio n. 20, presso lo Studio dell’Avv. Cesare Persichelli, che con l’Avv. Salvatore Capomacchia, la rappresentano e difendono, anche disgiuntamente, giusta delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Friuli Venezia Giulia n. 1/11/12, depositata il 18 gennaio 2012.
Sentita la relazione svolta nella udienza camerale del 14 novembre 2019 dal Cons. Ernestino Luigi Bruschetta.
RILEVATO E CONSIDERATO 1. che con l’impugnata sentenza la Regionale del Friuli Venezia Giulia, in riforma della decisione della Provinciale, respingeva cinque riuniti ricorsi promossi dalla Immobiliare P. S.r.l. avverso altrettanti avvisi di accertamento che recuperavano a tassazione maggiore imponibile ai fini IRPEG IRAP IVA anni d’imposta 2002 2003 2004 2005 2006 a seguito di indagini bancarie che avevano evidenziato ingenti somme non dichiarate su conti correnti intestati al socio legale rappresentante della contribuente e alla sua compagna e su conti correnti sui quali il predetto socio legale rappresentante era comunque delegato a operare;
2. che la Regionale, per quanto rimasto d’interesse, dopo aver dato conto delle difese assunte in giudizio dalle parti, accoglieva l’appello principale proposto dall’ufficio ritenendo legittimo il recupero a tassazione fondato sull’applicazione della presunzione legale stabilita dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, nn. 2 e 7; invero, secondo la Regionale, le cospicue somme transitate sui rammentati conti correnti intestati a terzi erano ex lege da presumersi redditi che la Società contribuente non aveva dichiarato; una presunzione, continuava la Regionale, che non era stata “fugata da alcun elemento contrario seppure indiziario”; contrari elementi indiziari, concludeva la Regionale, che il contribuente avrebbe invece avuto l’onere di dare;
3. che la contribuente ricorreva per quattro motivi, anche illustrati da memoria, mentre l’ufficio resisteva con controricorso; che, con requisitoria scritta, il Pubblico Ministero chiedeva il rigetto del ricorso;
4. che con i primi tre motivi, da trattarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, la contribuente rimproverava alla Regionale di non aver in alcun modo motivato la decisione, non consentendo la comprensione dell’iter logico giuridico della stessa, con violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36; e, ad ogni modo, di non aver la Regionale adeguatamente spiegato perchè, cioè sulla base di quali prove, le somme transitate nei ridetti conti correnti di terzi fossero da ritenersi redditi “in nero” della contribuente, lamentando, sotto questo specifico profilo, la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis; infine, la ricorrente addebitava alla Regionale di non aver fatto corretta applicazione del cit. D.P.R. n. 600, art. 32, comma 1, nn. 2 e 7, osservando, a riguardo, che l’ufficio non aveva dimostrato la “sostanziale riferibilità dei conti al contribuente”; una dimostrazione che, in thesi della contribuente, sarebbe stata invece necessaria per completare la fattispecie della presunzione legale utilizzata;
4.1. che, nei termini che seguono, i motivi sono infondati; in primo luogo perchè la Regionale ha chiaramente esplicitato l’iter logico giuridico della decisione; in particolare, laddove ha reputato legittima l’applicazione della presunzione legale del cit. D.P.R. n. 600, ex art. 32, comma 1, nn. 2 e 7, in mancanza della contrarla prova a cui sarebbe stata invece tenuta la contribuente; interpretazione che, peraltro, è conforme alla consolidata giurisprudenza della Corte, che è nel senso di affermare: “In sede di rettifica e di accertamento d’ufficio delle imposte sui redditi, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3, l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorchè risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati” (Cass. sez. VI n. 16575 del 2013);
4.2. che, come può direttamente evincersi dalla massima appena riportata, occorre però che l’ufficio offra la preventiva prova, anche indiziaria, della riferibilità alla contribuente dei conti correnti intestati a terzi; una prova che la Regionale, in modo non illogico, ha valutato sufficiente “nel caso in esame”, dopo aver in narrativa dato conto con precisione degli indizi che l’ufficio aveva sottoposto a ricognizione giudiziaria; indizi che erano stati, in primo luogo, quello del carattere principale della Società contribuente; dal quale, secondo la Regionale, doveva ricavarsi che la detta Società contribuente era più attrezzata delle altre Società nelle quali il suo legale rappresentante deteneva quote di partecipazione; e, ciò, anche in considerazione del fatto che l’oggetto sociale della ridetta Società contribuente “si inquadrava fisiologicamente” nelle operazioni eseguite sui conti correnti (Cass. sez. II n. 5241 del 2011);
5. che con il quarto motivo, formulato con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la contribuente rimproverava alla Regionale la violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver quest’ultima omesso di pronunciare sulla validità dell’istanza di condono presentata, limitatamente all’anno d’imposta 2002, ai sensi della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 9; eccezione che, dalla contribuente, era stata semplicemente ribadita nelle controdeduzioni in grado d’appello, senza necessità di appello incidentale, atteso che la stessa era rimasta assorbita dall’accoglimento nel merito del ricorso; secondo la contribuente, questo era quanto da quest’ultima prospettato, la domanda di definizione agevolata doveva ritenersi valida anche se nella stessa era stato indicato un codice di attività errato, non compreso nello studio di settore di appartenenza, con conseguente versamento di una minore somma;
5.1. che il motivo, per difetto di autosufficienza, è inammissibile, laddove non riporta, tra l’altro, la quietanza di pagamento del condono, atteso che ciò non permette alla Corte di valutare l’eventuale necessità del rinvio (Cass. sez. III n. 8569 del 2013); il motivo è comunque infondato, premettendo, a riguardo, che la violazione dell’art. 112 c.p.c., non conduce necessariamente a un rinvio, quando l’omessa pronuncia abbia ad oggetto questioni che, come nella specie, non presuppongono accertamenti di fatto (Cass. sez. lav. n. 16690 del 2018); e, all’evidenza, deve soltanto riconoscersi in diritto che non può costituire valida domanda di condono quella accompagnata dal versamento di una somma minore rispetto a quella ex lege stabilita per lo studio di settore di appartenenza;
6. che le spese debbono quindi seguire il rigetto del ricorso ed essere liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la contribuente a rimborsare all’ufficio le spese processuali, queste liquidate in complessivi Euro 3.000,00 a titolo di compenso, oltre a spese prenotate a debito. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2020