LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CURZIO Pietro – Presidente –
Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 19299-2018 proposto da:
M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato ENRICO LUBERTO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
TELECOM ITALIA SPA, 00471850016, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCO RAIMONDO BOCCIA, ENZO MORRICO, ROBERTO ROMEI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5412/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 09/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA MARCHESE.
RILEVATO
che:
la Corte di appello di Roma, con sentenza n. 5412 del 2017, in riforma della sentenza del Tribunale di Frosinone n. 447 del 2014, ha respinto la domanda di inquadramento nel superiore livello professionale (id est: nel 5 livello, profilo professionale di Specialista in attività tecniche integrate/Specialista di attività tecniche di rete, del CCNL – Settore Telecom del 3.12.2005, integrato con accordo aziendale del 17.7.2006), proposta da M.A. nei confronti di Telecom Italia spa;
in estrema sintesi, individuati i tratti differenziali della declaratoria professionale di appartenenza del lavoratore e di quella rivendicata, la Corte territoriale ha osservato come non fosse emerso in nessun modo che il M. coordinasse il personale e come nessuno dei testi fosse stato in grado di riferire fatti che consentissero di dimostrare il possesso delle capacità professionali gestionali, nè tanto meno di quelle elevate conoscenze specialistiche che connotavano il superiore inquadramento;
secondo la Corte di merito, piuttosto, vi era la prova dell’inesistenza di tali circostanze giacchè il lavoratore era in possesso di uno strumento, il “golden modem”, che “consent(iva) di fare diagnosi particolare sugli impianti (…) non in possesso di tutti i tecnici”; detto strumento di lavoro, per la Corte di appello, riduceva l’autonomia, permettendo all’utente (id est: al lavoratore) di individuare i guasti;
le mansioni svolte dall’appellante (id est: dal M.) erano state, dunque correttamente sussunte nella declaratoria del 4 livello, profilo di Specialista in attività tecniche;
ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, affidato ad un unico motivo;
ha resistito, con controricorso, Telecom Italia SpA;
parte ricorrente ha, altresì, depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2.
CONSIDERATO
che:
con un unico motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè dell’art. 23 del CCNL per i Dipendenti da Aziende Telefoniche del 2005 e dell’accordo sindacale aziendale del 17 luglio 2006;
parte ricorrente censura la valutazione delle risultanze istruttorie ed, in particolare, le conclusioni espresse in relazione al grado di autonomia nello svolgimento della prestazione lavorativa, in ragione dell’utilizzazione, quale strumento di lavoro, del “Golden Modem”; sotto diverso profilo, il ricorrente assume che, quanto meno dal 2010, non era stato contestato da Telecom Italia Spa lo svolgimento di mansioni inquadrabili nel superiore livello e che tale aspetto non era stato considerato dai giudici di merito;
in disparte profili di carente specificità delle censure, per non essere la violazione degli accordi sindacali indicati in rubrica, accompagnata dalla trascrizione integrale delle clausole (cfr. Cass. n. 25728 del 2013; n. 2560 del 2007; n. 24461 del 2005) e la deduzione di violazione del principio di non contestazione, dalla trascrizione degli atti difensivi su cui (la deduzione medesima) si fonda (v. Cass. n. 20637 del 2016), il motivo, nel complesso, si arresta ad un rilievo di inammissibilità poichè, sub specie di violazione di legge, propone una valutazione delle risultanze istruttorie alternativa e difforme da quella compiuta dal giudice del merito ed a quest’ultimo, invece, esclusivamente riservata (si veda al riguardo Cass. n. 8758 del 2017: ” E’ inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito”);
le critiche, infatti, investono l’impianto motivazionale della sentenza e, attenendo al piano della ricostruzione della fattispecie concreta, esulano dal vizio di “sussunzione” ex art. 360 c.p.c., n. 3, per schermare vizio di motivazione;
inconferente è il richiamo agli artt. 115 e 116 c.p.c.; il ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, una questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c., può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (Cass. 27.12.2016, n. 27000);
nel caso in esame, il giudice d’appello ha preso in esame le circostanze dedotte dalle parti; semplicemente le ha valutate in modo diverso da quanto auspicato dalla parte ricorrente;
in base alle svolte argomentazioni il ricorso va dichiarato inammissibile, con le spese liquidate secondo soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 9 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2020